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CRESTOMAZIA ITALIANA
CIOÈ
SCELTA DI LUOGHI INSIGNI
PER SENTIMENTO PER LOCUZIONE
BAGGOL TI DAGLI SGRITTi ITALIANI
DI AUTORI ECCELLENTI DI OGNI SECOLO
DA
GULCOnO LEOPARDI
KUOYA EDIZIONE El^NDATA ED ACCRESCIUTA
PER OURA
DI BRUTO FABRICATORE
PARIE SECONDA
GEESTOMAZIA POSTICA
IN NAPOLI
bALLA STAMPERIA DEL VAGLIO
1866
Le ragioni che ci mossero a rifornir qua e là di ag-
giunte la prima parte di questa Crestomazia , yalsera
egualmente , e più , a consigliarci di fare il medesima
alla seconda , che a quella ora segue. Anzi tanto piii
; fummo a ciò spinti, che già ne aveva in parte col suo
esempio preceduto il primo editor milanese. Alla scelta^
dunque, del Leopardi, che terminava con gli autori del
secolo decimotlavo e pochi cessati di vivere al principio
del decimonono , noi abbiamo specialmente aggiunti
lutti gli altri migliori fioriti nella prima metà di quest'ut-
limo secolo , e parecchi altresì del decimoterzo e deci-
moquarto. Ne, in quanto a questi ultimi, ci ha ritenuto
l'opinione dello slesso Leopardi, il quale nella sua pre*
fazione scrivea : che de* più antichi , fuori di Dante e
del Petrarca^ ... quantunque si trovino rime^ non si tro^
vi poesia. Dappoiché, se per la prosa una simile affer-
mazione può dirsi che non abbia buon fondamento ,
veruno per fermo ella non ne ha per la poesia, o che la
cosa astrattamente voglia considerarsi, o nel fatto par-
ticolare della nostra letteratura ; e solo e da condonare
al tempo in che il Leopardi scriveva. L'autorità dentanti
valorosi, e del Leopardi medesimo in più maturo senno
ed età, i quali appresso diversamente ne han pensato e
scritto, dispensa noi dal dirne qui di vantaggio.^E, senza
piii , raccomandiamo novellamente a' prudenti e savii
maestri il presente libro.
B. Fàbeicatore.
AI LETTORI
i Nella prefazione della Crestomazia italiana di prosa,
il compilatore propose di fare una Crestomazia poetica
con quei medesimi ordini e in quella stessa forma , la
quale non era d'invenzione sua, ma tenuta in tutti i mi-
gliori libri di tal genere pubblicati in lingua francese,
inglese ed altre, e approvata per buona dal consenso
dei letterali di quelle nazioni. Postosi all'opera, conob-
be che là cosa non poteva appena convenire al caso no-
stro; perche il porgere distribuite per classi le impres-
sioni poetiche, gli parve primieramente impossibile, e
I poi di pessimo effetto se si fosse potuto fare. Per questa
[ ragione, in cambio deirordine delle materie, ha segui-
to quello dei tempi: ordine non contrario aireffetto poe-
tico, ed utile, come è manifesto, alla cognizione storica
della poesia nazionale.
Di Dante e del Petrarca , del Furioso e delle Satire
dell'Ariosto, della Gerusalemme e dell' Aminla del Tas-
so, del Pastor Fido, del Giprno del Parini, non ha tolto
cosa alcuna; perchè ha creduto, prima, che a voler co-
noscere la poesia nostra, è necessario che quelle opere
si leggano tutte intiere; poi , che il farle in pezzi , o il
dire questo è il meglio che hanno. ^ sia un profanarle.
L'^oPAEDi, Crestomazia, li. 1
n AI LETTORI
E generalmente da tragedie o drammi di ogni sorta ,
non ha credulo che si potesse prender nulla, che, posto
fuori del luogo suo, ediv;sodaI corpo dell'opera, stesse
hene. Ne meno ha preso nulla da traduzioni , per non
allargar troppo il campo. Finalmente si è astenuto dal-
le cose di autori viventi (*).
Dell'altra moltitudine che abbiamo di versi , quasi
infinita, ha scelto ciò che gli e riuscito o più elegante,
o anche più filosofico, e, in fine,piu bello; incomincian-
do dagli autori del secolo decimoquinto , e non prima ;
perche de'più antichi, fuori di Dante e del Petrarca,
crede egli, e crederanno forse tutti, che quantunque si
trovino rime, non si trovi poesia.
Sarà poco meno che superfluo V avvertire i giovani
italiani e gli stranieri, che nei passi che qui si propon-
gono di poeti o di verseggiatori di questo secolo e della
seconda metà del decimottavo , cerchino sentimenti e
pensieri filosofici, ed ancora invenzioni e spirito poeti-
co, ma non esempio di buona lingua, ne anche di buo-
no stile.
Dell'oggetto e dell'uso delle noterelle poste appiè del-
le pagine , si e detto nella prefazione dell'altra Cresto-
mazia.
(•) Per questa ragione iì Compilatore erasi astenuto dall' inserire in
questa Scelta alcuna cosa del Monti. Ma, avendo la morte con dolore u-
niversale tolto ai vivi quel sommo [K)eta prima che la stampa fosse com-
piuta, ne parve che sarebbe stata una grave mancanza il non fare raccol-
ta anche dei più bei fiori della sua musa , e principalmente di quelli che
fiapevansi essere stati da lui prediletti. Della scelta di questi preziosi fiori
noi andiamo debitori ad un amico del Monti medesimo^ zelantissimo del-
la sua gloria; e vogliamo sperare che ogni animo gentile ne rimarrà sod-
disfatto {Nota degli Editori fnilan€$i.).
SECOLO XIII E XIV.
1. A Maria Vergine.
Donna ' del cielo, gloriosa madre
Del buon Gesù, la cui sacrata morte,
Per liberarci da le inferaal porte,
Tolse V error del primo nostro padre;
Risgnarda Amorcon saette aspre e quadre
A che strazio n'adduce ed a qual sorte ;
Madre pietosa, a noi cara consorte ',
Ritràne dal seguir sue turbe e squadre.
Infondi in me di quel divino amore ,
Cht tira l*alma nostra al primo loco.
Sì ch*ìo disciolga l'amoroso nodo.
Cotal rimedio ha questo aspro furore ,
Tal acqua suole spegner questo foco ,
Come d'asse si trae chiodo con chiodo.
Fra Guittone,
2. EèìUo ed Amore .
Ballatetta ^ dolente ,
• • Va* mostrando il mio pianto,
■ Che di dolor mi cuopre tutto quanto.
\^ Tu te n*andraì in prima a quella gioja,
'> « Per cui Fiorenza luce , ed è pregiata ;
£ quetamente, che non le sia noja,
- La prega che t* ascolti,- o sconsolata :
■ 'Poi le dirai affannala
\ Come m'ha tutto infranto
- II tristo bando, che mi colse al canto. ^
S*ella si volge verso te pietosa
,L Ad ascoltar le pene che tu porti,
* 1 raendo guai dolente e vergognosa ,
Lei ^ pingicome gli occhi roia^son morti
l'.Per li gran colpi e fòrti
Che ricevetter tanto [canto.
P^Da' suoi nel mìo partir , eh* or piango in
Poi fa'si ch'entri ne la mente a Guido ',
* Signora* ^ Partecipe della stessa sorte.
' dim. di ballata, spec'e di poesia.
4 Mi prese a tradimento. 5 A lei. ^ Miei*
^ Guido GaTalcanti, anùco dei poeta.
Perch'egli è sol colui che vede Amore,
E mostrali lo spirito, che un strido
Mettrae ' d'angoscia dei disfatto core.
£ se vedrà '1 dolore
Che'l distrugge, io mi vanto
Ched ei ne sospìrrà ' di pietà alquanto.
G. Alfhni,
3. Manifestazioni di amore.
Perch'io no ^ spero di tornar giammai,
Ballatetta, in Toscana,
Va' tu leggiera e piana
Dritta a la donna mia ,
Che, per sua cortesia,
Ti farà molto onore.
Tu porterai novelle de' sospiri.
Piene di doglia e di molta paura ;
Ma guarda che persona non ti miri,
Che sia nimica di gentil natura :
Che certo per la mia disaventura
Tn saresti contesa *,
Tanto da lei ripresa
Che mi sarebbe angoscia :
Dopo la morte poscia
Pianto e novel dolore.
Tu senti» Ballatetta, che la morte
Mi stringe sì, che vita m'abbandona;
E senti come'! cor si sbatte forte
Per quel che ciascun spirito * ragiona.
Tant*è distrutta già la mia persona,
Ch'io non posso soiFrice :
Se tu mi vuoi servire ,
Mena l'anima tcco,
( Molto di ciò ten preco )
Quando uscirà del core.
Deh, Ballatetta, a la tua a mista fé
Quest'anima, che triema, raccomandò :
Menala teco ne la sua piatate *
' Metterà* a Sospirerà.
3 Non. 4 Impedita. 5 Affato»
* piotate, pietà; voce antka.
4 CI\ESrOMAZIA POETICA.
A quella bella donna, a cui ti mando :
Deb, Ballatetta, dille sospirando
Quando le sei presente :
Questa vostra servente
Vien per istar con vui',
Partita da colui,
Che fu servo d'Amore.
Tu, voce sbigottita e deboletta ,
Ch' esci piangendo de Io cor dolente,
Con l'anima, e con questa Balla tetta,
Va' ragionando de la strutta mente.
Voi troverete una donna piacente
Di sì dolce intelletto ,
5. In morte della sua donna.
Che vi sarà diletto
Starle davanti ognora.
Anima, e tu l'adora
Sempre nel suo volere.
4. Affanni amorosi.
Gli occhi di quella gentil forosetta
Hanno distretta — si la mente mia,
Ch'altro non chiama che lei, ne disia.
Ella mi fiere sì, quand'io la guardo,
Ch'i'sento Io sospir tremar nel core ;
Esce da gli occhi suoi, là ond'io ardo, ®
XJn gentiletto spirilo d'Amore ,
Lo quale è pieno di tanto valore ,
Che, quando giugne, l'anima va via,
Come colei che sofFrir noi pnria.
Io sento poi gir fuor gli miei sospiri ,
Quando la mente di lei mi ragiona;
E veggio piover per l'aer martiri.
Che struggon di dolor la mìa persona.
Sì che ciascuna virtù m'abbandona
In guisa , ch'io non so là ov'io mi sia :
Sol par che morte m'aggia in sua balia.
Sì mi sento disfatto , che mercede
Già non ardisco nel pensier chiamare :
La forte e nova mia disavventura
M'ha disfatto nel cuore
Ogni dolce pensier , eh' i' avea, d'Amcrc .
Disfatta m'ha già tanto de la vita.
Che la gentil piace voi donna mia
Da l'anima distrutta s'è partita ;
Sì ch'io non veggio là, dov'ella sia:
Non è rimasa in me tanta balia,
Ch'io de lo suo valore
Possa comprender ne la mente fiore. *
Vien che m'uccide unsi gentil pensiero,
Che par che dica, ch'io mai non la veggia ;
Questo tormento dispietato e fiero.
Che struggendo m'incende e m'amareggia
Guido Cavalcanti» Trovar non posso a cui pietate chicggia .
Mercè di quel Signore ®
Che gira la fortuna del dolore.
Pien d'ogni angoscia in loco di paur.i
Lo spirito del cor dolente giace
Per la fortuna, che di me non cura,
C'ha volta morte dov'assai mi spiace :
E dà speranza, eh' è stata fallace.
Nel tempo che si more ,
INI' ha fatto perder dilettevoli ore.
Parole mie disfatte e paurose,
Dove dì gir vi piace , ve n'andate ,
Ma sempre sospirando e vergognose
Lo nome de la mia donna chiamate:
Io pur rimango in tanta avversitate ,
Che qual mira di forc
Vede la morte sotto '1 mio colore.
G* Cavalcanti^
6. Atti e parole di Beatrice.
Ne gli occhi porta la mia donna Amore;
Per che si fa gentil ciò ch'ella mira :
Ch'i' trovo Amor, che dice: ella si vede Ov'ella passa, ogni uom v^;r lei si gira,
Tanto gentil, che non può immaginare E cui saluta fa tremar lo core.
Ch'uom d'esto mondo l'ardisca mirare,
Che non convegna lui tremare in pria:
Ed io, s'i'la guardassi, nemorria.
Ballata, quando tu sarai presente
A gentil donna, so che tu dirai
De la mia angoscia dolorosamente
Sicché, bassando il viso, tulio smuore,
E d'ogni suo difetto allor sospira : i
Fuggon dinanzi a lei superbia ed ira:
Ajulalcmi , donne, a farle onore.
Ogni dolcezza, ogni pensiero umile
Nasce nel core a chi parlar la sente :
Di': quegli, che mi manda avoi,trae guai: Und'c beato chi prima la vide.
Perocché dice, che non spera mai Quel ch'ella par quand'un poco sorrid»;,
Trovar pietà di tanta cortesia, Non si può dìcer 3, né tener a mente ,
Ch'a la sua donna faccia compagnia. Sì è nuovo miracolo gentile.
G, Caycitcanti. Dante J/ii^hhrì.
* Voi, 2 Pc' quaH ce, ' Nulli, " Amore. ' Dire.
1
SECOLO XIII E XIV. r^
7. Effetti di veder Beatrice. 10. In morte di fieatriee.
Tanto gentile e tanto onesta pare ' Gli occhi dolenti per pietà del core
La donna mia, quand' ella altrui safuta , Hanno di lagrimar sofferta pena,
Ch*ogni lingua divien tremando muta , Sì che per vinti son rimasi ornai .
E gli occhi non ardiscon di guardare. Ora s* io voglio sfogar lo dolore ,
Ella sen va, sentendosi laudare , Che a poco a poco a la morte mi mena ,
Benignamente d'umiltà vestuta; Conveoemi parlar traendo guai.
E par che sia una cosa venuta E perchè mi ricorda eh* io parlai
Di cielo in terra a miracol mostrare. De la mia donna, mentre che vivia ^,
Mostrasi sì piacente a chi la mira , Donne gentili, volentiercon vui®,
Che dà per gli occhi una dolcezza al core. Non vo' parlare altrui,
Che intender non la può chi non la prova. Se non a cor gentil ch'n donna sia ;
E par che de la sua labbia * si muova E dicerò di lei, piangendo, pui
Uno spirto soave e pien d'amore , Che se n' è gita in cicl subitamente,
Che va dicendo' a 1* anima: sospira. Ed ha lascialo Amor meco dolente.
Dante, Ita n' è Beatrice in Paltò cielo,
8. Morte di Beatrice, Nel reame ove gli angeli hanno pace ,
E sta con loro ; e voi, donnc^ ha lasciate.
Deh, peregrini, che pensosi andate Non la ci tolse qualità di gelo,
Forse di cosa che non v*è presente, Ne di calor, sì come V altre face;
Venite voi di sì lontana gente, Ma sola fu sua gran benignitate.
Come a la vista voi ne dimostrate? Che luce de la sua umilitate
Che non piangete , quando voi passale Passò li cieli con tanta virlule,
Per lo suo mezzo la città dolente. Che fé maravigliar l' eterno Sire ,
Come quelle persone, che niente Sì che dolce desire
Par che intendesser la sua gravitate. Lo giunse di chiamar tanta salute;
Se voi restate per volere udire , E fella di quagginso a se venire ;
Certo lo core ne* sospir mi dice , Perchè vedea eh' està vita nojosa
Che lagrimando n* uscirete pui ^. Non era d'-gna di sì gentil cosa.
Ella ha perduto la sua Beatrice ; Partissi de la sua bella persona
E le parole, eh' uom di lei può dire, Piena di grazia l'anima gentile.
Hanno virtù di far pianger altrui. Ed èssi ^ gloriosa in loco degno.
Dante. Chi non la piange, quando ne ragiona,
9. Al/a sua donna. Core ha di pietra sì malvagio e vUe,
Ch'entrar non vi può spirito benegno ^.
Deh, Nuvoletta, che in ombra d'Amore Non è di cor villan sì alto ingegno,
Negli occhi miei di subito apparisti. Che possa immaginar di lei alquanto.
Abbi pietà del cor che tu feristi , E però non gli vien di pianger voglia.-
Che spera in te, e desiando muore. Ma n' ha tristizia e doglia
Tu, Nuvoletta, in forma più che umana , D» sospirare e di morir di pianto.
Foco mettesti dentro a la mia mente E 3' ogni consolar l' anima spoglia,
Col tuo parlar eh' ancide , Chi vede nel pensiero alcuna volta
Poi con atto di spirito cocente Qual ella fu, e com'ella n'è tolta.
Creasti speme, che'n parte mi sana. Dauuomi angoscia li sospiri forte.
Laddove tu mi ride , Quando il pensiero ne la mente grave
Deh non guardare perchè a lei mi fide. Mi reca quella che m'ha il cor diviso:
Ma drizza gli occhi al gran disio che m'arde: E spesse fiate, pensando la morte,
Che mille donne già, per esser tarde, Me ne viene un desio tanto soave.
Sentito han pena de l'altrui dolore. Che mi tramuta lo color nel viso.
Dante, Quando l' immaginar mi tien ben fiso ,
' Appare» ^ Faccia, aspetto, s Poi, ' Viveva^ * Voi. 3 Sì è. 4 Bcnigoo.
i
^* CRESTOMAZIA. POETICA
iugncmi tanta pena in ogni parte , Eri beata, e con le sette donne ^ ■
t|h* i' mi riscuoto per dolor ch'io sento; Ora ti veggio ignuda dì tai gonne:
ii si fatto divento, Vestita di dolor, piena di vizi ;
Che da le genti vergogna mi parte : Fuori i leai Fabrizi ;
Poscia piangendo sol nel mio lamento Superba, vile, nemica di pace.
Chiamo Beatrice ; e dico: Or seHu morta! O disnorata te ! specchio di parte ,
K mentre ch'io la chiamo mi conforta. Poiché se* aggiunta a Marte,
Pianger di doglia e sospirar d'angoscia Punisci in A.ntenòra ^ qual verace
Mi strugge il core ovunque sol mi trovo , Non segue Tasta del vedovo giglio ';
S\ che ne incrcscerebbe a chi U vedesse. E a que*che t'amanpiù, più fai malpiglio .
E qual è stata la mia vita, poscia Dirada in te le maligne radici ^
Che la mia donna andò nel secol novo^ De* figli non pietosa,
i^ingua non è che dicer lo sapesse: C* hanno fatto il tuo fior sudicio e vano ,
'^- però, donne mie, perch*io volesse ', E vogli le virtù sien vincitrici ;
"^uu vi saprei ben dicer quel ch*io sono; Sì che la fé nascosa
il mi fa travagliar 1* acerba vita; Rcsurga con giustizia e spada in mano.
La quale è sì invilita) [bandono, Segui le luci di Giustiniano,
Che ognitiom par che mi dica: Io t* ab- E le focose tue mal giuste leggi
Vedendo la mia labbia tramortita. Con descrizion correggi,
Ma qual ch'io sia, la mia donna sei vede, Sì che le laudi *1 mondo e'I divin regno :
Ed io ne spero ancor da lei mercede. Poi de le tue ricchezze onora e fregia
Pietosa mia canzone, or va' piangendo; Qual figtiuol te più pregia,
£ ritrova le donne e le donzelle. Non recando a*tuoi ben chi non è degno;
A cui le tue sorelle ' Sì che prudenza ed ogni sua sorella
Erano usate di portar letizia; Abbi tu teco; e tu non lor rubella.
K tu, che sei figliuola di tristizia. Serena e gloriosa in su la ruota
Vattene sconsolata a star con elle. D*ogni beata essenza,
Dante, (Se questo fai) regnerai onorata :
E 'l nome eccelso tuo , che mal si nota ,
iì. A Firenze, Potrà* poi dir , Fiorenza.
Dacché V aifezion t*avrà ornata,
patria, degna di trionfai fama, Felice 1* alma che in te fia creata !
De* magnanimi madre, [monta : Ogni potenza e loda in te fia degna;
Più che in tua suora ', in te dolor sor- Sarai del mondo insegna.
Qual è de* figli tuoi che in onor t' ama, Ma, se non muti a la tua nave guida.
Sentendo l*opre ladre Maggior tempesta con fortunal morte
Che in te si fanno, con dolore ha onta. Attendi per tua sorte ,
Ahi ! quanto in te la iniqua gente è pronta ^^^ ^® passate tue piene di strida.
A sempre congregarsi a la tua morte, Eleggi omai, se la fraterna pace
Con luci bieche e torte, Fa più per te, o '1 star lupa rapace.
Falso per vero al popol tuo mostrando. "^u te n'andrai, canzone, ardina e fera,
Alza iicor de*sommersi; il sangue accendi; Poiché ti guida Amore,
Su i traditori scendi Dentro la terra mia, cui doglio e piango ;
Nel tuo giudicio; sì che in te laudando E troverai de* buon, la cui lumiera
Si posi quella grazia che ti sgrida, Non dà nullo splendore.
Ne la quale ogni ben surge e s'annida. ^^ stan sommersi, e lor virtù nel fango.
Tu felice regnavi al tempo bello, Grida: Surgete su, che per voi clango.
Quando le tue rede ^ Prendete V armi, ed esaltate quella ;
Voller che le virtù fussin colonne : Che stentando viv* ella ;
Madre di loda e di salute ostello , ,- .....ir j- r I
r^^ ««,« „«:•« C^A^ ' I^« «e*^te ▼»'*" teologaU e cardinali. f
Con pura unita fede a ^^^^^ d'inferno ove Dante finge pani ti i
1 Volessi. ^ Le al ire, canzoni. > Roma, i traditori della patria. \
4 Eredi; cioè ùgiijfiot^ icittadiai« 3 losegfnadel comune di Firenze.
I
SECOLO XIII E XIV. 7
E la divoran Capaneo * e Crasso, Tal che la-rimembranza me n'occide ,
Aglauro, Simoa mago, il falso Greco, E fa sì grande schiera di dolore
E jNIacometto cieco, Dentro a la mente, che l* anima stride
Che tien Giu<;urla e Faraone al passo. Sol perchè morte mai «on la divide
Poi ti rivolgi a'ciltadin suoi giusti,^ Da me, come diviso
Pregando sì ch'ella sempre s'angusti. Mi trovo dal bel viso
Dante. E d'ogni stalo allegro, [negro.
Pel gran contrario eh' è tra '1 hiana) e '1
12. Giudizio tra'l Poeta ed Amore, Quando per gentil atto di salate ' r
Vèr bella donna levo gli occhi alquanto ,
Mille dubbi in un Hi, mille querele, Sì tutta si disvia la mia virtute
Al tribunal de l'alta imperatrice •, Che dentro ritener non posso il pianto,
Amor contro me forma irato, e dice; Memhrando di madonna, a cui son tanto
Giudica chi di noi sia più fedele. Lontan di vedi;r lei.
Questi, sol mia cagion, spiega le vele () dolenti occhi miei.
Di fama ai mondo ove saria 'n felice. Non morite di doglia?
Ami d'ogni mio mal sei la radice, Sì per vostro voler, par ch'Amor voglia.
Dico ; e provai già di tuo dolce il fele. Amor, la mia ventura è troppo cruda ,
Ed egÙ : Ahi falso servo fuggitivo l E ciò che 'ncontran gli occhi più m' at-
£ questo il merto che mi rendi, ingrato, ^ [trbta;
Dandoti una a cui 'a terra egual non era? Dunque mercè, che la tua man li chiuda,
Che vai, seguo, se tosto me n'hai privo? Da e* ho perduto l'amorosa vista;
Io no, risponde. Ed ella: Asì gran piato , E quando vita per morte s'acquista
Gonvien più tempo a dar sentenza vera. Gli è giojoso il morire.
Cina da Pistoj'a, Tu sai dove de gire
Lo spirto mio da poi,
13. Jn morte di Selvaggia* e sai quanti pietà s' ara ^ di noi .
Amor, ad esser micidial pietoso
La dolce vista e *\ bel guardo soave T' invita il mio tormento :
De' più begli occhi che si vider mai, Secondo e' ho talento
Ch* i' ho perduto, mi fa parer grave Dammi di morte gioja.
La vita sì, ch'io yo traendo guai, Sì che lo spirto almcn torni a Pistoja.
E'n vece di pensier leggiadri e gai, Cino da Pistoja.
Ch' aver solea, d'amore,
Porto disii nel core 14. .4 Maria Tergine.
Che nati son di morte,
Per la partita che mi duol sì forte. [so Q regina de gli angioli, o Maùa,
Ohimè! deh perchè. Amor, al primo pas- Ch' adorni '1 cicl co' tuoi lieti sembianti ,
Non mi feristi sì ch'io fussi morto ? E stella in mar dirizzi i naviganti
Perchè non dipartisti da me, lasso, A porto e segno di diritta via ;
Lo spirito angoscioso ched * io porto? per la gloria ove sei, Vergine pia.
Amor, al mio dolor non è conforto : Ti prego guardi a' miei miseri pianti ;
Anù, quanto più guardo, Increscali di me, tòmmi davanti
Al sospirar più ardo; L' insidie di colui che mi travia '.
Trovandomi partuto * Io spero in te ed ho sempre sperato :
Da quc' begli occhi ov'io t'ho già veduto. Vagliami il lungo amore e riverente
Io vho veduto inque'begli occhi, Amore, £1 * qual ti porto ed ho sempre portatt».
' SoUo il nome di Gapaueo sUntenJala Su- Dirizza il mio cammin; fammi possente
perbia, di Crasso l'Avarizia, di Aglauro Tln- j)- divenire * ancor dal destro lato
vidia, di Simoa Mago la simonia^ e fig. la ven- jj j ^^^ YmMxioX fra la beata gente,
dita d« nublici umcii, del falso greco Si aoae ° » '
U Frode, di MaookcUo Io Scisma, di Faraone eùccacci9.
rOslinatexza, di Giacarta la Perfidia. » Per salutare. * S*avrà. ^ Cioè Amore.
* La Ba^ooe. ' Che. ^ Partito^ divisò, 4 U, 5 Venire*
SECOLO DECIMOQUINTO
I. A una fanciulla. E cominciò a parer buona fanciulla,
SCHERZO ^ pregar quel, che si faccia più basso;
Che molto del suo canto si trastulla.
Madonna se ne vien da la fontana, Jl g^ill^ sempliciotto in basso scende.
Contro l'usanza, con vuoto Torcetto; Allor la volpe altra malizia prende:
E ristoro non porta a questo petto E dice: e' par che tu sia cosi fioco:
Ne con Tacqua, ne con la vista umana. 1* ^o' insegnarti cantar meglio assai:
ch'ella ha visto la biscia ruana Quest'è, che tu chiudessi gli occhi un poco:
Strisciar per l'erba in su quel vialetto; Cedrai che buona voce tu farai.
O che il can la persegue, o ch'ha sospetto -^ 6*''o parve che fusse un bel giuoco;
Che stiavi dentro in guato la befana. Gran mercè, disse, che insegnato m'hai:
Vien qua, Renzuola, vienne; che vedrai ^ chiuse gli occhi, e cominciò a cantaro,
Una fontana, e due, e quante vuoi: Perche la volpe lo stesse ascoltare.
Ne dal padre severo avrai rampogna. Cantando questo semplice animale
Ecco che stillan gli occhi tutti e duoi. ^^^ g^i occhi chiusi,come i matti fannr.
Cogline tanto quanto ti bisogna ; La volpe, come falsa e micidiale,
E più crudel che sei, più ne trarrai. Tosto lo prese, sotto questo inganno ,
Brunelleschi. (^ ^^^^ poi mangiarsel sanza^ sale ).
Cosi interviene a que'che poco sanno.
II. Sopra Amore. Pulci, Morgante, cauto IX,
L'Amor m'ha fattociero; e nonha tanto ^^* Lodi della vita mercan fesca.
Di carità, che mi conduca in via:
Mi lassa per dispetto in mia balia, I^» varii luoghi, a ponente e levante,
E dice; or va, tu che presumi tanto. Tornati ricchi ne la patria siamo,
Ed io,perchèmi sento in forze alquanto, Dove mostrar vogliamo
E stimo di trovar chi man mi dia, Quanto sia degna cosa esser mercante.
Vado: ma poi non so dove mi sia; Chi cercato ha la Francia e chi Lamagna,
Tal che mi fermo dritto sur un canto. Chi Fiandra ed Ungheria,
Allora Amore, che mi sta guatando, Chi qua l'Italia, e qualcun la Turchia ,
Mi mostra per disprezzo e mi ostenta, E tutti con fatica e mercanzia,
E mi va canzonando in alto metro. Giustamente arricchiti,
Leonello d'Este. H mondo e guadagnare?
E qual maggior piacere^
III. La volpe e il gallo. Che poi saper di più cose parlare,
„ . ,. ^ , , Venir in patria, e i poveri aiutare?
nmgraziam la fortuna,
Andandosi la volpe un giorno a spasso E il ciel sì liberale.
Tutta affamata, senza trovar nulla, Senza il qual mai s'acquista cosa alcuna.
Un gallo vide insu'n un * alber grasso*: Se voi sapeste la grazia e l'onore
' la sa un. ■ Grasso, cioè grosso. * Sen«a«
SECOLO DECIMOQUINTO 9
Ch*han per tutto i mercanti; Star con Toche a filar sotto una balza.
Massime noi, che il fiore Poliziano, Stanze per la giostra del magoiOco
Siam poi di fede e d' ingegno fra tanti; Giuliano de'Medici, libro l.
Voi partireste adesso tutti quanti.
Ma bisogna fuggire V. Caccia di fiere.
Ogni pravo costume,
£ in piume non pensar mai d^arricchirc. Zefiro già, di bei fioretti adorno^
O nobil Fiorentini, o alti ingegni , Avea da'monti tolta ogni pruina;
Che co' vostri consigli, Avea fatto al suo nido già ritorno
Tanti principi e regni La stanca rondinella peregrina;
Salvaste già d'infiniti perigli, Bisonava la selva intomo intorno
Mandate a far più sperti i vostri figli, Soavemente a V óra mattutina;
Più ricchi, e di più fama ; £ Tingegnosa pecchia, al primo albore.
Che r oro e la virtù Giva predando or uno or altro fiore.
Dan piùstatoe favor chePuomnon brama. L'ardito Ginlio,al giorno ancoraacerbo^,
Che utile o piacer v' è, giovinetti, AUor eh' al tufo torna la civetta.
All'ozio esservi dati ? Fatto frenare il còrridor superbo,
£ con mille dispetti Verso la selva con sua gente eletta
Per sì vii prezzo a bottega legati ? Prese il cammino; e, sotto buon riserbo,
Ma quel eh' è peggio ancora esser tornati Seguìa de'fedei^ can la schiera stretta,
A inebbriarsi, a i giochi, Di ciò che fa mestieri a caccia adorni,
A vii donne viziose ; Con archi e lacci e spiedi e dardi e corni .
Tutte cose da uomini dappochi ^? Già cirondato avea la lieta schiera
Lorenzo de' Medici. Il follo bosco; e già, cou grave orrore.
Del suo covil si destava ogni fiera:
IV. Spettacoli della campagna» Givan seguendo i bracchi '1 lungo odore:
Ogni varco da lacci e can chiuso era:
Quanto e più dolce, quanto è più sicuro Di stormir, d'abbajar cresce il romore;
Seguir le fere fuggitive in caccia, Di fischi e bussi tutto il bosco suona;
Fra boschi antichi, fuor di fossa o muro, Del rimbombar de' corni il ciel rintrona.
£ spiar lor covil per lunga traccia ! Con tal romor, qualor l'aer discorda,
Veder la valle, e '1 colle, e l' aer puro, Di Giove il foco d'alta nube piomba;
L'erbe, i fior, l'acqua viva, chiara eghiae- Con tal tumulto, onde la gente assorda,
[eia; Da l'alte cataratte il Nil rimbomba;
Udir gli augei svernar, rimbombar l'onde, Con tal orror, del latin sangue ingorda,
£ dolce al vento mormorar le fronde ! Sonò Megera la tartarea tromba.
Quanto giova a mirar pender da un'erta Qual animai di stizza par si roda,
Le capre, e pascer questo e quel virgulto; Qual serra al ventre la tremante coda.
£ '1 montanaro a l'ombra più conserta Spargesi tutta la bella compagna ',
Destar la sua zampogna e'I verso ioculto: Altri a le reti, altri a la via più stretta.
Veder la terra di pomi coperta. Chi serbain coppia i can, chi li scompagna.
Ogni arbor da' suo' frutti quasi occulto: Chi già il suo ammette, chi'l richiama e al-
Veder cozzar monton, vacche mugghiare, [Ietta;
£ le biade ondeggiar come fa il mare ! Chispronailbuondestrìerperlacampagna,
Or de le pecorelle il rozzo mastro Chi l'adirata fera armato aspetta.
Si vede a la sua torma aprir la sbarra: Chi si sta sopra un ramo a buon riguardo.
Poi quando muove lor col suo vincastro, Chihainman lo spiede, e chi s'acconcia il
Dolce è a notar come a ciascuna garra *. [dardo.
Or si vede il villan domar col rastro Già le setole arriccia, e ar ruota i denti
Le dure zolle, or maneggiar la marra; 11 porco entro il burron; già d' ima grotta
£ la coQtadinella scinta e scalza Spunta giù il cavriol; già i vecchi armenti
X dappochi QcUtppocOy ài poco conto. * Nuovo. Appeaa fatto. 8 Fedeli.
* Garrisca. 3 Compagnia.
io CRESTOMAZIA POETICA
De'cervi van pei pian fuggendo in frotta: Diventa Febo in Tessaglia an pasforey
Timer grioganni de le volpi haspeoti; E 'n picciola capanna si ripone
Le lepri al primo assalto vanno in rotta; Colui ch'a tutto *1 mondo dà spleiidorei
Di sua tana, stordita, esce ogni belva: Né gli giova a sanar sue piaghe aceiiM,
L'astuto lupo vie più si rioselva; Perchè ' conosca le virtù de l'erbe.
£, rinselvato, le sagaci nare * Poi segue Dafne; e*nsembiansa si lagna.
Del picciol br&cco pur teme il meschino; Come dicesse: o ninfa, non ten gire;
Ma il cervo par del veltro paventare; Ferma il pie, ninfa, sopra la campagnai^
De 'lacci *1 porco, o del fi£ro mastino. Ch'io non ti seguo per farti morire: '
Vedesi lieto or qua or là volare Così cerva leon, cosi lupo agna,
Fuor d'ogni schiera il gio van pellegrino *; Ciascuno il suo nemico suol fuggire:
Pel folto bosco il fier cavai mette ale; Ma perchè fuggi, o donna del mio core,
£ trista fa qual fera Giulio- assale. Cui ^ di seguirli àjiol cagione amore ?
Qual il centaur per la nevosa selva Da l'altra parte la bella Arianna
Di Pelio o d'£mo va feroce in caccia, Con le sorde acque di Teseo si dole.
Da le lor tane predando ogni belva, £ de l'aura, e del sonno, che la inganna;
Or l'orso uccide, or ri tioa minaccia; Di paura tremando come sole ^
Quanto è più ardita fera, più s'inselva; Per picciol ventolin palustre canna.
Il sangue a tutte dentro al cor s'agghiaccia. Par che in atto abbia impresse tai parole:
Lasciva trema,egli cede ogni pianta: [ta. Ogni iìera di te meno è crudele;
Gliarboriabbatteosveglie^,oramischian- Ognun te più mi saria fedele. Cno
Ah quanto a mirar Giulio è fiera cosa! Vien,sopra un carro d'edera e di pampì-
Rompe la via dove più il bosco è folto, Coperto,Bacco;il qual duo tigri guidano:
Per trar di macchia la bestia crucciosa; £ con lui par che l'alta rena stampino
Con verde ramo intorno al capo avvolto, Satiri e Bacche; e con voci alte gridano.
Con la chioma arruffata e polverosa. Quel siyedeondeggiar,queiparch'inciam-
E d' onesto sudor bagnato il volto. [pino,
Poliziano, ivi. Quelcon un cembal bee,quei parche ridano:
Qua 1 fa d'un corno, e qua 1 de le man ciotola;
VI. Favole effigiate da Vulcano sulle Qual ha preso una ninfa, e qual si rotola.
porte della reggia di Venere. Sopra l'asin Silen,di ber sempre avide,
Con vene grosse, nere, e di mosto amide,
... . . Inun formoso e bianco tauro Marcido sembra, sonnacchioso e gravido,
Si vede Giove per amor converso, Le luci ha di vin rosso, enfiate e fumide.
Portarne il dolce suo ricco tesauro; L'ardite ninfe l'asinel suo pavido
E lei volger il viso al lito perso, Pungon col tirso; ed eicon le man tumide
In atto paventosa; e i be' crin d'auro A'crin s'appiglia; e, mentre si l'attiuano,
Scherzan nel petto, per lo vento avverso; Casca nel collo; e i satiri lo rizzano.
La vesta ondeggia, e indietro fa ritorno : Quasi in un tratto vista, amata e UÀU
L'una man tien al dorso,e l'altra al corno. Dal fiero Pluto, Proserpina pare
Le ignude piante a sé ristrette accoglie, Sopra un gran carro;e la sua chioma sciolta
Quasi temendo il mar, che non le bagne*^. A' zefiri amorosi ventilare.
Tale, atteggiata di paure e doglie. La bianca vesta, in un bel grembo accolta,
Par chiami invan le sue dolci compagne: Sembra i colti fioretti giù versare.
Le quali, assise tra fioretti e foglie, Si percuote ella il petto, ein vista piagne.
Dolenti Europa ciascheduna piagne: Or la madre chiamando, or 1« compagne.
Europa, sona il lito, Europa, riedi. Posa giù del leone il fiero spoglio
il toro nota, e talor bacia i piedi. Ercole, e veste femminina gonna,*
Fassi Nettuno un lanoso montone. Colui che *1 mondo da grave cordoglio
Fassi un torvo giovenco, per amore; Avea scampato; ed or serve una donna:
Fassi un cavallo il padre di Chirone: £ può soffrir d'Amor l'indegno orgoglio
• Nari. 2 Raro, Eccellente. ^hi con gli omer già fece alcielcoUmnaj
^ Svelle* -i Bagai. ' Che. a Uad a cui» s Suole*
SECOLO DECIMOQUINTO 1 1
£ quella man con che era a tenere uso Quando Ippolita ride onesta e pura,
La clava poderosa , or torce un fuso. £' par che si spalanchi il paradiso : ^
Gli omer setosi a Polifemo ingombrano Gli angioli al canto suo, senza dimorò*/
L'arribiI chiomeyenel gran petto cascano; Scendon tutti dal cielo a coro a coro.
£ fresche ghiande l' aspre tempie adom< Y non ardisco gli occhi alto levare,
[brano. Donna, per rimirar rostra adornezza ; .
Presso a sé par sue perore che pascano: Ch* i* non son degno di tal donna amare,
Né a costui dal cor già mai disgombrano Né d*esser servo a sì alta bellezza :
Li dolci acerbi lai che d'amor nascano *; Ma, se deguaste un pò* basso mirare,
Anzi, tutto di pianto edolormac^ro, E fare ingiuria a la vostra grandezza,
Seggiain un fròido sasso»appie d'un acero. Vedreste questo servo si fedele,
l>a l'una e Taitra orecchia unarcoface' Che forse gli sareste men crudele.
Il ciglio irsuto, lunga ben sei spanne: Che maraviglia è s* io soo fatto vago
Largo sotto là fronte il naso giace; D'un sì bel canto, e s'io ne sono ingordo?
Pajon di schiuma biancheggiar le zanne. Costei farebbe innamorare un drago,
Tra' piedi ha il cane; e sotto il braccio tacp Un bavalischio ', anzi un aspido sordo.
Una zampogna ben di cento canne; 1' mi calai: ed or la pena pago ;
E guardai! mar, ch'ondeggia; e alpestre ' Ch' i'mi trovo impauiato,comenn tordo.
Par canti, e mova le lanose gote; [note Ognun fugge costei quand'ella ride :
E dica ch'ella è bianca più che il latte; Col canto piglia, e poi col riso uccide, [ra;
Ma più superba assai ch'uua vitella; Pietà,donna,per Dio;deh non più guer-
E che molte ghirlande le ha già fatte; Non più guerra, per Dio,ch*i'mi t'arrendo:
E serbale una cerva molto bella; l' sun quasi che morto, i' giaccio iu terra.
Un orsacchin, che già col can combatte ; Vinto mi chiamo, e più non mi difendo :
E che per lei si macera e flagella. Legami, e in qualprigion tu vuoi,mi serra;
E che ha gran voglia di saper notare, Che maggior gloria ti farò vìvendo :
Per andare a trovarla infin nel mare. Se temi eh' io non fugga, fa un nodo
Duo formosi delfini un carro tirano: De la tua treccia, e legami a tuo modo.
Sovr'esso è Galatea, che 'l fren corregge: Io arei ' già un' orsa a pietà mossa ;
E quei notando parimente spirano. E tu pur dura a tante mie parole.
Ruotasi attorno più lasciva gregge: [no; Che arai * tu fatto poi che ne la fossa
Qual le salse onaesputa,e quai s'aggira- Vedrai sepolto il tuo servo fedele ?
Qoal parcheperamorgiuochie vanegge^. Ecco la vita, ecco la carne e l' ossa :
La bella ninfa con le suore fide Che vuoi tu far di me, donna crudele ?
Di sì rozzo cantar vezzosa ride. È questo il guiderdon de le mie pene ?
Intorno al bel lavor serpeggia acanto, Dunque m'uccidi perch' io ti vo'bene?
Di rose e mirti e lieti fior contesto ; Costei per certo è la più bella cosa
Con varii auge! sì fatti, che il lor canto Che'n tutto 'l mondo mai vedesse il sole;
Pare adir ne gli orecchi manifesto. Lieta, vaga, gentil, dolce, vezzosa,
Né d'altro si pregiò Vulcan mai tanto ; Piena di rose, piena di viole,
Nè'l vero stesso ha più del ver che questo: Cortese, saggia, onesta, graziosa,
£ quanto l'arte intra se non comprende, Benigna in vista, in atto ed in parole :
La mente, immaginando; chiaro intende. Così spegne costei tutte le belle,
Poliziano, ivi. Come il lume del sol tutte le ste|Ie.
Gli occhi mi cadder giù tristi e dolenti,
VII. Alla sua donna, Ippolita Leon-' Com' io vidi levarsi in alto il sole ;
dna. La lingua morta m'addiacciò fra' denti,
E non potè formar le sue parole ;
Chi vuol veder lo sforzo di natura, Tutti mi furon tolti ì sentimenti
Venga a veder questo leggiadro viso Da chi m'uccide e sana quand' e' vuole ;
D' Ippolita, che '1 cor co gli occhi fura; E mille volte il cor mi disse in vano :
Contempli ilsuo parlar, contempli il riso. » Dimora. Indugio. « Basilisco,
^Hucoao. > Fa, ' jUpestri. -♦ Vaneggi. ' Avrei. 4- Avrai.
4S
CRESTOMAZIA POETICA
Fatti un po' innanzi, e toccagli la mano.
Per mille volte ben trovata sia,
Ippolita gentil, caro mio bene,
Viva speranza, dolce vita mia :
Deh guarda quel che a rivederti viene :
Deb fagli udir la tua dolce armonia ;
Dà questo refrigerio a le sue pene :
Se '1 tuo bel canto gii farai sentire,
Allora allor contento è di morire.
Solevan già col canto le sirene
Fare annegar nel mare i naviganti ;
Ma Ippolita mia cantando tiene
Sempre nel foco i miserelli amanti.
Solo un rimedio trovo a le mìe pene :
Cbe un* altra volta Ippolita ricanti.
Col canto m*ha ferito, e poi sanalo ;
Col canto niorlo, e poi risuscilalo.
lo mi sento passare insin ne 1' ossa
Ogni accento, ogni nota , ogni parola :
E par che d*altro,pas(!er non mi possa ;
Ch'ogni piacer questo piacer m'imbola .
E crederei, s' io fossi entro la fossa,
Risuscitare al suon di vostra gola ;
Crederei, quand'i'fussi ne l'inferno.
Sentendo voi, volar nel regno eterno.
Voi vedete ch'io guardo questa e quella;
E forse ancor n'avete un po' di sdegno:
Ma non possa io veder mai sole o stella.
S'io non ho tutte l'altre donne a sdegno:
Voi sola a gli occhi miei parete bella,
Piena di grazia e piena d'alto ingegno :
Abbiatene di questo mille carte ^ :
Ma, per coprire il vero, uso quest'arte.
Poliziano, StrambolU.
16. Amante disperato.
La non vuol esser più mia ,
La non vuol la tradì torà :
L'è disposta alfin ch'io mora
Per amore e gelosia.
La non vuol esser più mìa.
La mi dice : Va' con Dio ;
eh' io t' ho posto omai in oblio ,
Ne accettarti mai potria.
La non vuol esser più mia.
La mi vuol per uomo morto;
Ne giammai le feci torto.
Guarda mo che scortesia !
La non vuol esser più mia ;
La non vuol che più la segua;
La m' ha rotto pace e tregua
^ Certezza. Sicurlà .
Con gran scorno e villania.
La non vuol esser più mia.
lo mi trovo in tanto affanno ,
Che d'aver sempre il malanno
lo mi credo in vita mia.
La non vuol esser più mia :
Ma un conforto sol m' è dato ,
Che fedel sarò chiamato ;
Sarai tu spietata e ria.
Poliziano,
Vili. La fortuna.
Porta la polve il vento in su le torre ^;
£, benché m alto sia, polve si stima:
Poi presto presto con furor ricorre,
E la riporta in terra, ov'era prima.
Così questa fortuna ognor discorre :
Ora t'abbassa, ed or ti porta in cima.
Serafino dall'Aquila, Strambollì.
17. Mor gante e Margutte
in un'osteria.
Arcsti tu da mangiare e da bere?
L* oste rispose: E' ci ha da godere...
E' e' è avanzato un grosso e bel capffone.
Disse Margutte: Oh! nonfiaun boccone.
Qui si conviene avere altre vivande ;
Noi siamo usati di far buona cera^:
Non vedi tu costui, com'egli è grande?
Cotesta è una pillola di pera.
Rispose l'oste: Mangi delle ghiande:
Che vuoi tu eh' io provegga or eh* egli è
E cominciò a parlar superbamente, [sera?
Tal che Morgante non fu paziente.
Cominciai col battaglio a bastonare;
L' oste gridava, e non gli parca giuoco.
Disse Margutte: Lascia un poco stare ,
Io vo'per casa cercare ogni loco ;
Io vidi dianzi un bufol drento ^ entrare :
E' ti bisogna fare, oste, gran foco ,
E che tu intenda a un fischiar di zufolo,
Poi in qualche modo arrostire quel bufolo.
Il fuoco per paura si fé tosto ;
Margutte spicca d.i sala una stanga :
L'oste borbotta , e Margutte ha risposto;
Tu vai cercando il battaglio t' infranga:
A voler far quell' animale arrosto.
Che vuoi tu tórre, un manico di vanga?
Lascia ordinare a me, se vuoi, il convito»
« Torri. * Mangiar laulamento,
3 Dcatro.
SECOLO DECIMOQUINTO
45
E finalmente il bufo! fu arrostito.
Non creder con la pelle scorticata ;
E' lo sparò nel corpo solamente.
Parca di casa più che la granata :
Comanda e grida, e per tutto risente :
Un' asse molto lunga ha ritrovata,
Apparccchiolla fuor subitamente;
E vino e carne e del pan vi ponea,
Perchè Morgante in casa non capea.
Quivi mangiorno' le reliquie tutte
Del bufolo, e tre stala di pan o piue,
E bevvono a bigonce ; e poi Margutte
Disse a quell'oste : Dimmi, aresti tue
Da darci del formaggio o delle fruite?
Che questa è stata poca roba a due ;
s' altra cosa tu ci hai da vantaggio.
Or udirete come andò il formaggio.
L' oste una forma di cacio trovòe.
Ch'era sei libbre o poro più o meno ;
Morgante, poiché molto ebbe mangiato.
Disse a quell'oste: A. dormire n'andremo,
E domattina, com' io sono usato
Sempre a cammino, insieme conteremo,.
£ d'ogni cosa ben sarai pagato,
Per modo che d'accordo resteremo.
E l'oste disse, a suo modo pagasse,
Che gli parca mil l'anni se n'andasse.
Pulci, Morgante., e. XVIII, st.
i5o.
iS. Bellezze della sua donna-
Chi non ha visto ancora il gentil viso
Che solo in terra si pareggia al sole,
E l'accorte sembianze al mondo sole,
E l'atto dal mortai tanto diviso;
Chi non vide fiorir quel vago riso
Che germina di rose e di viole.
Chi non udì le an^^eliche parole
Un canestretto di mele arrecòe [pieno. Che suonan armonia di paradiso ;
D'un quarto o manco , e non era anche
Quando Mar^utte ogni cosa guardòe ,
Disse a quell' oste : Bestia senza freno ,
Ancor s'ara il battaglio adoperare ^ ,
S'altro non credi trovar da mangiare.
È questo compagnon da fare a once?
Aspetta, tanto ch'io torni, un miccino,
E servi intanto qui con le bigonce ;
Falche non tnanchi al gigante del vino ,
Che non ti racconciasse l'ossa sconce,
1* fo per casa come il topolin.) :
Vedrai s'io so ritrovare ogni cosa,
E s' io farò venir qui roba a josa .
Fece la cerca per tufta la casa
Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa,
E rompe e guasta masserizie e vasa;
Ciò che trovava, ogni cosa fracassa,
Ch* una pentola sol non v' è rimasa.
Di cacio e frutte raguna una massa ,
E portala a Morgante in un gran sacco,
E cominciorno a rimangiare a macco.
V oste co' servi impauriti sono ,
Ed a servire attcndon tutti quanti,*
E*dice fra se stesso: sarà buono
Non ricettar mai più simil briganti.
E' pagheranno domattina al siiono
Di quel battaglio, e saranno contanti :
Hanno mangiato tanto, ch'in un mese
Non mangerà tutto questo paese.
'Mangiarono. * Tu.
•* AJ a.l(>i'orjre.
(^hì mai non vide sfavillar quel guardo
Che, come strai di foco, il lato manco
Sovente incende e mette finmme al core ;
E chi non vide il volger dolce e tardo
Del soave splendor tra il nero e il bianco,
Non sa né sente quel che vaglia Amore.
Bofardo,
id. La Formica.
Andando la formica a la ventura,
Giimse dov' era un teschio di cavallo.
Il qual le parve, senza verun fallo.
Un palazzo real con belle mura.
E quanto più cercava sua misura.
Sì gli parca più chiaro che cristallo,
E sì diceva: Egli è più bello stallo.
Che al mondo mai trovasse creatura.
Ma pur, quando si fu molto aggirata,
Di mangiare le venne gran disio,
E, non trovando, ella si fu turbala ;
E diceva: Egli è pur meglio che io
Ritorni al buco dove sono usata,
Che morte aver; però ne vo'con Dio.
Così voglio dir io :
La stanza e bella, avendoci vivanda ;
xMa qui non è', s' alcun non ce ne manda.
^ ' Burchiello.
' NvQ C'^ n'c.
10
CRESTOiMAZIA POETICA
A fuggir il caler del sole ardente :
Come fa un'ombra folta uè la strada ;
Che par che inviti a riposar sott*essa
) peregrini aifaticati e stanchi.
Si riveston di foglie a primavera
I boschi, ignudi nel tempo nevoso ;
L'autunno Tuva fa matura e nera,
E ogni arbor da novelli frutti ascoso
Se poi nel mezzo stagna un'acqua pigra, Il mio duol mai non muta le sue tempre,
corre mormoi'ando un dolce rivo,
l'on salici a traverso, o rami d'olmo,
O sassi grondi e spessi : acciocché l'api
Fossan posarvi sopra, e spiegar l' ali
Umide, ed asciugarle al sole estivo,
S' elle per avventura ivi lardando,
Fosser oagnate da celeste pioggia,
O tuffate da i venti in mezzo l' onde.
lo l* ho vedute a' miei dì mille volte
Su le spoglie di rose e di viole
( Di cui zeffiro spesso il rivo infiora )
Affisse bere, e solcar l'acqua intanto
L* ondanti foglie : che ti par vedere
E sono le mie pene acerbe sempre.
Ma i giorni oscuri diverrian sereni,
Se pietà ti pungesse il core un poco.
Allor sariano i boschi e i fonti ameni.
Se meco fussi, o ninfa, in questo loco :
Andrian di dolce latte i fiumi pieni,
Se amor per me il tuo cor ponesse in foco;
E sì sonori i versi miei sariano,
Che invidia Orfeo e Lino ancor n'ariano ^ .
Corrimi adunque in braccio, o Galatea;
Né ti sdegnar de' boschi, o d'esser mia.
Vener ne' boschi accompagnar solea
Il suo amante, e lì spesso si addormia :
Nocchieri andar sopra i)archettc in mare. I^^i Luna, eh' è su in elei sì bella Dea,
Intorno del ben culto e chiuso campo Un pastorello per amor seguia ;
Lieta fiorisca l'odorata persa, E venne a lui nel bosco a una fontana,
E l' appio verde, e l'umile serpillo, Perche donolle un vel di bianca lana.
Che con mille radici attorte e crespe Di bianca lana i mi^i greggi coperti
Sen va carpon vestendo il terren d'erba; Sono, come tu stessa veder puoi ;
E la melissa, ch'odor sempre esala ;
La mammola, l'origano, ed il timo,
Che natura creò per fare il mele.
Né t* incresca ad ognor l'arida sete
A le madri gentil de le viole
Spegner con le fredd' acque del bel rio.
liucellaiy Api.
XIIL Invito a Galatea.
E ( benché maggior dono assai tu merli.
Che non agnelle, capre, vacche o buoi )
L'armento e'I gregi;emio, per compiacerti,
Il cane e l'asinel, tutti s:)n tuoi,
E quanti frutti son per queste selve,
E quanti augelli insieme, e quante belve.
Un canestro di pomi l'ho già collo ;
Un altro poi di prune e sorbe insieme :
E pur or di palombi un nido ho tolto,
Cheancor la madre in cima a l'olmo geme.
Un capriol li serbo, che disciolto
Tra gli agnelli sen va, ne del can teme i»
Due tazze poi d'oliva, al torno fatte
Da quel buon mastro, arai ^ piene di latte.
Ecco le ninfe qui, eh' una corona
Ti tessono di rose e d'altri fiori :
Odi la selva e '1 monte che risuona
Di fistole e sampogne di pastori :
Ben mi raccorda quando lungo il rio
Ti vidi prima andar Cogliendo fiori,
Che mi dicesti : o caro Jola mio.
Tu sei più bello tra tutti ì pastori ;
E sol come tu fai, cantar desio ;
Che i sassi col cantar par che innamori.
Poi mi ponesti una ghirlanda in testa ,
Che di ligustri e rose era contesta.
Oimè, allor mi traesti il cor del petto, Di fior la terra lieta s'incorona,
E teco nel portasti, e teco or l' hai. E sparger s'apparecchia dolci odori.
Ma, poi che si mi nieghi il dolce aspetto, Dfh vieni ornai : che null'altro ci resta
Che debbo far, se non sempre trar guai ? Se non goder l'età fiorita in festa.
D'ombrose selve più non ho diletto. Si spogliano i serpanti la Vecchiezza ,
Di vivi fonti prati, né arò * mai ; E rinnovan la scorza insieme e gli anni ;
Non so più maneggiarla marra o'I rastro. Ma fugge e non ritorna la bellezza
Né parmi de l'armento esser più mastro. In noi per arte alcuna o nu )vi panni, [za.
Le fiere a i boschi pur tornan la sera, Mentre dunque sci tal,ch'ognun t'apprei-
Dove di sua fatica hanno riposo j Deh vieni a ristorar tanti miei danni :
*Avrò. * A velano, Avrebbero. 2 ^yraki.
SEGOLO OEGIBIOSESTO
17
1 teinpo, ma in van, ti pentirai
ramata graiia a me non dai.
è, eh' io vedo pur mover le frondi,
) ramminar per questa selva,
la bella ninfa, ornai rispondi ;
son r amante tuo, non fera belva,
perchè mi fuggi e ti nascondi,
imida cerva si rinselva ?
Castiglione,
Giuliano de' Medici , duca di
ìours, defontOf alla moglie Fi-
rta di Savoja.
ma eletta, che nel mondo folle
d^orror, sì saggiamente quelle
[e, membra belle
che beo Tallo disegno adempì
de gli elementi e de le stelle,
leggiadramente ornar ti volle
>gni donna molle,
z a piegar ne li viùi empi,
>. aver da te lucidi esempi,
i regal delizie, in verde elade,
ito d'ogni mal secolo infetto,
esser può d'un nodo saldo e stretto
mma castità somma beltade ;
ante contrade,
vien per grazia e per virtute,
*edel salute
(da ; il tuo fcdel, caro consorte,
levò di braccio a iniqua morte,
uà a te ; che quel tanto quieto,
:do, e, al tuo parer, felice tanto
in travaglio e in pianto
sottosopra ed in miseria volto :
giusta e benigna ; se non quanto
mi il suon di tue querele drieto
ria far non lieto,
»gni affetto rio non fosse tolto
ui, dove è tutto il ben raccolto :
al sentendo tu di mille parti
già spento il tuo dolor sarebbe :
lando me come so ch'ami, debbe
più che '1 tuo gaudio rallegrarli :
più ch'ai ritrarti
la le mondane aspre fortune,
ta che comune
la fruir meco in perpetua gioja ,
d'ogni timor che più si moja.
li pur, senza volgerti, la via '
auto hai sin qui sì drittamente :
cielo e a le contente
•soPÀADi, CrestQmaisiQ, II.
Anime altra non è che meglio torni.
Di me t* incresca ; ma non altrimenle
Che, s'io vivessi ancor, t' incresceria
D'una partita mia,
Che tu avessi a seguir fra pochi giorni.
£ se qualche e qnalch'anno anco soggi orni
Col tuo mortai a patir caldo e verno,
Lo dèi * stimar per un momento breve
Verso quest'altro ( che mai non riceve
I^è termine ne fin) vìver eterno.
Volga fortuna il perno
De la sua rota, in che i mortali aggira;
Tu quel che acquisti mira;
Da la tua via non declinando i passi,
£ quel che a perder hai se tu la lassi.
Non abbia forza il ritrovar di spine
. £ di sassi impedito il stretto calle
Al santo monte per cui al ciel tu poggi 2-
Sì ch'a l'infida mal sicura valle
Che ti rimane a dietro il pie declioe ^.
Le piagge, e le vicine
Ombre soavi d'alberi e di poggi,
Non t'allettino sì che tu v'alloggi.
Che se noja e fatica fra gli sterpi
Senti al salir de la poco erta roccia,
Non v'hai da temer altro che ti uoccia
(Se forse il fragil vel non vi discerpi);
Ma velenosi serpi.
De le verdi, vermiglie e bianche e azzurre
Campagne per condurre
A crude! morte con insidiosi
Morsi, tra'fiori e Perba stanno ascosi.
La nera gonna, il mesto e scuro velo.
Il letto vedovil, l'esserti priva
Di dolci risi, e schiva
Fatta di giuochi e d'ogni lieta vista.
Non ti spiact'iano sì che ancor cattiva
Vada del mondo, e'I fervor torni in gelo,
Ch' hai di salir al cielo:
Si che fermar, ti veggia pigra e trista.
Che questo abito incolto ora t'acquista,
Con questa noja e questo breve danno,
Tesor, che d'aver dubbio che t'involi
Tempo, quantunque in tanta fretta voli,
Unqita non hai, ne di Fortuna inganno.
O misero chi un anno
Di falsi gaudii,oquattro osci, più prezza,
Che l'eterna allegrezza,
Vera e stabil, che mai speranza tema
1 Devi.
2 Filiberta^ dopo la morte del nkarilo , sì
era ridotta io un monastero.
* JDedifli.
1
m CRCSTOMAZU POETICA.
altra aifetto non accresce o i^cema! Oietro al desìr, che come serpe annoda^
Questo non dico già perchè d* alcuno Di guadagni la loda [vitti
IrVeuo a i de&iri in te bisogno cieda;
Che da nuov*ultra teda
Si) eoa ifuant*odio e quant*orror ti scosti:
Ma dic(»l perrhè godo che proceda
Cimic coaviensi, e cornee più opportuno
Ver salir qui, ciascuno
'luo passo; e che * tu sappia quanto costi
Il meritarci i ricchi primi posti.
Non godo meo, che a gl*ineffabil pregi
f n<K «n»»! <««<« <•«• v>a<r<vì/v nh'in ^at^lr^x «krinr
Che*! padre e gli avi e i tuoi maggiori in-
Si guadagnar con Tarme a i gran conflitti.
Ariosto, canzone III.
XV. Ritratto delV amata.
Chiòme d'argento fine, irte, ed attorie
Senz*arte intorno ad un bel viso d'oro;
Fronte crespa, u'* mirando, io mi Scoloro^
Che avrai qua SU, veggio ch'in terra ancora Dove spunta i suoi strali Amoree Morte;
Arrogi un ornamento, che più onora
Che Toro e l'ostro e li gemmati fregi:
Le pomoe e i culti regi
Sì riverir non ti faranno, come
Di costanza il bel nome,
£ fede e castità: tanto più caro,
Occhi di perle vaghi, luci torte
Da ogni obbietto disuguale a loro;
Ciglia di neve; e quelle ond'io m'accoro
Dita e man dolcemente grosse e corte;
Labbra di latte; bocca ampia, celeste;
Denti d'ebano, rari e pellegrini;
Quanto esser suol più in bella donna raro. Inaudita, ineffabile armonia;
Questo più onor che scender da l'augusta
Stirpe d'antichi Ottoni, stimar dèi ;
Di ciò più illustre sei,
Che d'esser de'sublimi, incliti e santi
Filippi nata, ed Ami ed Amidei,
Che, fra Tarme d'Italia, e la robusta,
Spesso a'vicini ingiusta.
Feroce Gallia, hanno tanl'anoi e tanti
Tenuti sotto il lor giogo costanti
Con eli Ailobrogi i popoli de TAlpe;
E di lor nomi le contrade piene
Dal Nilo al Boristeue,
£ da l'estremo Idaspe al mar di Calpe.
Di più gaudio ti palpe *
Questa tua propria e yera laude il core, Sendo, si fece quasi cittadino.
Che di veder al fiore E tolse moglie, e s'accasò in Bibbiena,
De'gigli d'oro, e al santo regno , assunto Ch'una terra è sopr'Arno, molto amena.
Costumi alteri e gravi; a voi, divini
Servi d'Amor , palese fo che queste
Son le bellezze de la donna mia.
Bemi,
XVI. Il Berni racconta gli accidenti
della sua vita , e descrive la sua
natura»
Qui era, non so come, capitato
Un certo buon compagno fiorentino.
Fu fiorentino e nobii; benché nato
Fusse il padre e nutrito in Casentino:
Dove il padre di lui gran tempo stato
Chi di sangue e d'amor ti sia congiunto.
Non poca gloria è che cognata e figlia
Il Leon beatissimo ' ti dica,
Che fa l'Asia e l'antica
Babilonia tremar, sempre che rugge;
E che già l'Afro in Etiopia aprica,
Col gregge e colla pallida famiglia ,
Di passar si consiglia;
E forse Arabia e tutto Egitto fugge
Verso ove il Nilo al gran cader remugge.
Ma da corone e manti e scettri e seggi,
Per stretta affinità, luce non hai
Da sperar che li rai
Del chiaro Sol di tue virtù pareggi.
Sol perchè non vaneggi
' E perchè. * ral| i.
3 il |iaj[>u Leone decimo fratello di Gtaliincf ne del Boccaccio
Costui, ch'io dico, a Lamporecchio nao-
Ch'c famoso Castel per quel Masetto *; x
Poi fu condotto in Fiorenza, ove giacque
Fin a diciannove anni poveretto:
A Roma andò di poi, come a Dio piacque,
Pieu di molta speranza e di concetto
D'un certo suo parente cardinale,
Che non gli fece mai ne ben ne male.
Morto lui ^stette con un :>uo nipote:
Dal qual trattato fu come dal zio:
Onde le bolge trovandosi vote,
Di mutar cibo gli venne disio;
E sendo allor le laude molto note
» Ove.
a Mas<nto-da Lamporecchio^ nel Pccamcro-
SEGOLO DECLMOSESTO 19
he Serviva al Virario di Dio 1 anto era da lo scriver slraccb e morto;
Sì i membri e i sensi aveva strutti ed arsif
Che non sapeva in più tranquillo porto
Da così tempestoso mar ritrarsi.
oficiò che chiaman Datario,
a star con loiper secretarlo.
teva il pover uom di saper fare
esercizio; e non nesapea straccio: Né più conforme antidoto e conforto
30 non potè mai contentare.
ttott uscì mai di quello impaccio:
t peggio facea, più avea da fare:
sempre in seno e sotto il braccio,
e innanzi, di lettere un fastello;
'èva, e stillavasi il cervello.
tutto ciò viveva allegramente,
[ troppo pensoso o tristo stava.
sai oen voluto da la gente;
I signor di corte ognun Tamava:
faceto, e capitoli a mente
ili e d^angnìlle recitava,
altre sue magre poede,
a tenute strane bizzarrie,
forte collerico e sdegnoso,
ingua e del cor libero e sciolto;
I avaro, non ambizioso;
lele ed amorevol molto,
amici amator miracoloso:
rche ehi in odio aveva tolto
a guerra finita e mortale:
Dar a tante fatiche, che lo starsi.
Che starsi in letto, e non far mai niente,
£ così il corpo rifare e la mente.
Quella diceva eh* era la più bella
Arte, il più bel mestier che si facesse:
11 letto er'una veste, una gonnella
Ad ognun bnona che se la mettesse:
Poteva un larga e stretta e lunga avella ',
Crespa e schietta, secondo ohe volesse:
Quando un la sera si spogliava i panni,
Lasciava in sul forzier tutti gli affanni.
Berrii, Orlaodo iaoamoralo, canto LXVU»
XVII. Contro gV ipocriti.
Questo mostrar di non si contentare
De la vita comunemente buona,
£ voler far tra gli altri il singolare ,
Subito scanda]ezza la persona :
£ fa tutto il liuto discordare
pronto era amar* ch*a voler male. Quando una corda con l'altre non suona.
:rsona era grande,magro e schietto: ^ di questo strafar convien che sia
; e sottil le gambe forte aveva: . Cagione o fraude o superbia o pazzia.
ìo grande; e '1 viso largo; e stretto La santità comincia da le mani ,
;io che le ciglia divideva: Non da la bocca o dal viso o da' paoni. .
o rocchio aveva, azzurro e netto : Siate benigni , mansueti , umani ,
»a folta quasi il nascondeva,
esse portata; ma il padrone
con le barbe aspra quistione.
nn di servitù già mai si dolse,
ne fu nimico di costui,
a consumarlo il diavol tolse:
: il tenne fortuna in forza altrui.
Pietosi a Taltrui colpe, a gli altrui danni.
Non hanno a far le maschere i Cristiani:
Chi non mostra quel ch'è, va con inganni,
£ non entra per l' uscio ne l' ovile ,
Anzi è nn ladro, un traditor sottile.
Questi son quella sorta di ribaldi
A* quali il nostro Iddio tanto odio porta ,
i che comandargli il padroa volse*, £ con tra chi ^ par sol che si riscaldi:
-i_ . 1. .^1 - 1 . Ogni altro error con pietà sopporta.
O agghiacciati dentro, e di fuor caldi ;
In .sepolcri dipioti, gente morta;
Non attendete a quel che sta di fuori,
Ma prima riformate i vostri cuori.
Levate via la superbia , e la sete
De l' oro , e la profonda ambizione ,
£ Podio che, da quella mossi , avete
A chi dove vorreste non vi pone.
Se fate A>sì dentro , non arete *
Fatica a riformarvi le personel
Che quando la radice via si toglie ,
' Averla, • Coi. » Avrete.
servirlo venne voglia a lui:
far da se, non comandato;
I gli comandava, era spacciato.
e, musiche, feste, suoni e halli,
, nessuna sorte di piacere
il mOTea. Piacevangli i cavalli
ma si pasceva del vedere;
•do non avea da comperalli '.
suo sommo bene era in jacere
[iongo, disteso; e *1 suo diletto
i far mai nulla, e starsi in letto.
marie. » VoU«.
pcrarli.
20 CRESTOMAZIA POETICA
Getta Tarbor da se tutte foglie. Di quelle bestie che mordon coloro
Benii, Oliando innammorato^ canto XX. Che fanno yoi pazzie da spiritati ,
£ chiamansi in vulgar tarantolati ;
XVill. L'uomo descritto come E bisogna trovare un che, sonando
piccolo mondo. Un pezzo,trovi un siion ch'ai morso ' piac-
[ria^
Colui che pose nome piccol mondo Sul qual ballando, e nel ballar sudando,
A l'uomo, ebbe d*ìugegno un rido dono: Colui da sé la fiera peste caccia.
Che, da Tesser in fuor ', com*€gli, tondo, Chi questo e quello andasse stuzzicando
Tutte l'altre faccende in esso sono. Con qualche cosa che gli satisfaccia ,
Ha del largo , del lungo , del profondo , La vena e la miniera troverebbe ,
Pel mediocre , del tristo e del buono : £ gli studii d* ognun conoscerebbe.
Tutterle qualità de gli elementi Bemì^ Orlando innamoralo, canto Xtfi'
Produce, piogge e nevi e nebbie e venti.
Si rannugola spesso e rasserena: XIX. Sopra l'effetto che fa negli UO'
La terra sua. or sì or no fa fruito ; mini ben nati il racconto delle a-
Perch'eirè dove grassa e dove rena, zioni nobili e virtuose»
Or ha troppo del molle or de l' asciutto.
Torrenti e fosse d^ acqua e fiumi mena , Quando la tromba a l'aspra orrenda festa
Che fanno 'l corso loro or bello or brutto : De Tarmi suona, e sveglia il crudo gioco,-
Questi potrian chiamarsi gli appetiti , Il buon corsier , superbo alza la testa ,
Che sempre van , perchè sono infiniti, Levato in piedi; e sbuffa fumo e foco :
£ son da le due ripe raffrenati : Gli orecchi e i crini squassa;e zappa e pesta.
Vergogna e T una, e Taltra è la ragione : £ salta in qua c'n là , né trova loco.
Le quai quando trapassan, son gonfiati , Traendo calci a chi se gli avvicina :
E non han ne cervel ne discrezione : Ciò che trova fracassa, urta e rovina.
Quando corron quieti , chiari e grati , Tal ad ogni atto degno e signorile
Sono appetiti de le cose buone. Che scriva prosa o canti poesia ,
Que* venti , piogge , nevi, giorni e notti S'allegra il cor magnanimo e gentile
Indovinate voi , che siete dotti. Ch' amico di virtù , di gloria sia ;
Tra gli elementi , la disgrazia vuole E manifesta il cor alto e virile
Che de la terra noi più parte abbiamo; Pel viso fuor quel che dentro diàa.
£ che siccome è quella al cielo e al sole , Berni, Orlando innamorato, canto LUI,
Così noi anche sottoposti siamo :
In essa or quel pianeta or questo snoie XX. Alla città di Roma,
Produr quel che miniere noi chiamiamo *,
£ questa rosa è in noi per ecccllenzia Degna nutrice de le chiare genti,
In numero , in grandezza , in differenzia. Ch*a dì men foschi trionfar del mondo;
Chi crederà eh' ognun le sue miniere Albergo già di Dio fido e giocondo.
Abbia de T oro e de gli altri metalli , Or di lagrime triste e di lamenti;
Fin al salnitro? e pur son cose vere: Come posso udir io le tue dolenti
Ma la fatica è a saper trovalii '. Voci, e mirar, senza dolor profondo.
Chi si diletta d' ozio , chi d'averp ; Il sommo imperio tuo caduto al fondo,
Di lettere uno , un altro di cavalli ; Tante tue pompe e tanti pregi spenti?
Piace a q uesto il cantare, a quello il suono: Tal, così ancella, maestà riserbi,
£ queste le miniere nostre sono. E sì dentro al mio cor suona il tuo nome,
Le qnai , secondo che son più o meno Che i tuoi sparsi "vestigi inchino e adoro.
Degne,hannopiù del piombo epiù de Toro. Che fu a vederti in tanti onor superba
Un che sappia conoscere il terreno , Seder reina e incoronata d'oro
È mo atto a scoprir questo tesoro. Le gloriose venerabil chiome!
Come in Puglia si fa centra al veleno Guidiceiow,
* Eccettualo Tessere.
* Trovarli I 'Al morsicalo.
SECOLO DECIMOSESTO
21
Velocità del tempo; caducità
umana,
ado miro la terra ornata e bella
e vaghi ed odorati fiori ;
me nel ciel luce ogni stella ,
lendono in lei varii colorì;
1 fiera solitaria e snella ,
da naturai istinto , fuori
chi uscendo e de V antiche grotte,
cando il compagno giorno e notte;
lando miro le vestite piante
he* fiori e di novelle fronde;
li uccelli le diverse e tante
ci tontar dolci e gioconde ,
;rato romor ogni sonante
bagnar le sue fiorite sponde ;
i di se invaghita la natura,
1 mirar la bella sua fattura ;
I fra me pensando : quanto è breve
nostra mortai misera vita !
imi tutta piena era di neve
piaggia, or si verde e si fiorita ;
aer turbato, oscuro e greve
ezza del ciel era impedita ;
te fiere vaghe ed amorose
sole fra monti e boschi ascose,
'udivan cantar dolci concenti
:enere piante i vaghi augelli :
I soffiar de* più rabbiosi venti
Tan sec'he queste, e muti quelli :
ggion fermar i più correnti
dal ghiaccio, e* piccioli ruscelli :
ito ora si mostra e bello e allegro,
* la stagion languido ed egro.
si fugge il tempo : e col fuggire
ta gli anni e *1 viver nostro insieme,
loi, colpa del Ciel, di più fiorire,
{ueste faran, manca la speme :
on d'altro mai che di morire^
sangue nati o di vii seme :
ufo può donar benigna sorte^
srso di noi pietosa morte.
Vittoria Colonna.
. Vittoria Colonna al marito
morto.
icchi,chegiàmifur benigni tanto,
ira a i miei, eh* al pianto
sì larga e sì continua uscita :
ime mutati son da quelli
Che ti ^olean parer già così belli.
L* infinita, ineffabile bellezza
Che sempre miri in ciel, non ti distorni
Che gli occhi a me non torni ;
A me, cui già mirando ti credesti
Di spender ben tutte le notti e i giorni.
£ se '1 levarli a la superna altezza
Ti leva ogni vaghezza
Di quanto mai qua giù più caro avesti,
La pietà almen cortese mi ti presti,
Ch' in terra unqua non fu da te lontana:
Ed ora io n*ho d*aver più chiaro segno ;
Quando nel divin regno,
Dove senza me sei, n'è la fontana.
S'amor non può, dunque pietà ti pieghi
D^inchinar il bel guardo a li miei preghi.
Io sono,ioson ben dessa. Or vedi come
IVrha cangiata il dolor fiero ed atroce ;
Ch' a fatica la voce
Può di me dar la conoscenza vera,
f^ssa, ch*al tuo partir, parti veloce
Da le guance, da gli occhi e da le chiome
Questa, a cui davi nome
Tu di beltate : ed io n'andava altera :
Che melcr^dea, poiché in tal pregio t'era.
Ch'ella da me partisse allora, ed anco
Non tornasse mai più , non mi dà noja ;
Poi che tu, a cui sol gioja
Di lei dar intendea, mi venne manco.
Non voglio, no, s'anch' iojion vengo dove
Tu sei, che questo ed altro ben mi giove *.
Come possibil è, quando sovviemme ^
Del bel guardo soave ad ora ad ora,
Che spento ha sì breve ora,
Ond'è quel dolce e lieto riso estinto ;
Che mille volte non sia morta o muora ?
' Vitloria Colonna,
XXIIL Lodi della bellezza.
Molte son le virtù : ne si ritrova
Ch'uom o donna già mai tutte l'avesse ;
Anzi son cosa inusitata e nuova
Una di tante, e due *n un'alma impresse.
Donne mie, questa è tal,ch'einon si trova
Cosa che senza lei piacer potesse.
Scevra da l'altre una virtù si prezza;
Ma che piacque già mai senza beUezza?
Volete voi veder, donne, il valore
Ch'a questa sua diletta ha dato Dio ?.
Di tutti gli altri ben ch'agogna uà core,
X Giovi.
» Sovvieumi. Mi sovviene.
22 CRESTOMAZIA POETICA
Venato il posseder, sazio è il desio ; CVor rinnovi or rivestaor pianti or cattgt,
Di costei d'or in or cresce l'ardore, Por secondo il bisogao,or vigne or friitU>.
Come per pioggia tempestosa rio : Alamanni, Goltiwsioae, lihn L
Che dopo il vostro bel l'anima altera
Noto bel cerca ; e 'n ciel trovarlo spera. XXV. La vita dell* agricoltore,.. 1/9
Qual è giogo più dolce e più soave stato del popolo italiano nel^èéoìè
Di quel cValta bellezza a l'alme pone ? decimosesto. Lodi della Frat%€iaiì
L'esser vinto ad ogni uom suol parer grave .= ';
Di ricchezza, di forza e di ragione ; beato colui che in pace vive
Costei sola non par che'l vinto aggra.ve^; De i lieti campi, suoi proprio cultore : ^
Anzi acuto divien di gloria sprone ; A cui, stando lontan da l'altre genti, <
£ fa lieti obbedir gli animi alteri. La giustissima terra il cibo apporta;
Più-ch'oro posseder, gemme ed imperi. E sicuro il suo ben si gode in seno !
Lodovico Martelli, Lode delle donne. Se ricca compagnia non liai d'intorno
Di jg[emme e d'ostro, uè le case ornate
XXIV. Esortazione alV agricoltore Di legni peregrin, di ^tatue e d'oro;
perchè s'industrii di migliorare lo Né le muraglie tue coperte e tinte
stato del suo terreno. Di pregiati cobr, di veste aurate,
Opre chiare e sotti l di Perso e d'Indo; ■
Il pio cultor non deve solo Se *1 letto genial di regie spoglie
Sostener quello in pie, ch'il padre o l'avo K di sì bel lavor non aggia * il fregio
De le fatiche sue ' gli ha dato in sorte ; Da far tutta arrestar la gente ignara;
Mafar^col bene oprar ,che d'anno in anno Se non spegni la sete, e toi ' la fame ^
Cresca il patrio terren di nuovi frutti, Con vasi antichi, in cui dubbioso sembri
Quando 1 albergo umìl di tìgli abbonda. Tra bellezza e valor chi vada innante; -
Né veggia, oimè. tra pecorelle e buoi Se le soglie non hai dentro e di fuore
La figlia errar dopo il vigesimo anno, Di chi parte e chi vien calcate e cinte;
Senza ancor d* Imeneo gustar i doni, Ne mille vani onor ti scorgi intorno;
Discinta e scalza, e di vergogna piena Sicuro almen nel poverello albergo,
Fuggir piangendo per boschetti e prati Che di legni vicin del natio bosco.
L'antica compagnia, che in pari etade E di semplici pietre ivi entro accolte,
Già si sente chiamar consorte e madre : T'hai di tua propria man fondato e strutto,
ISt i miseri figlìuoi, pasciuti un tempo Con la famiglia pia t'adagi e dormi.
Pur largamente nel paterno ostello, 'i'u non temi d'altrui forze né inganni,
JE di quel sol che ne i suoi campi accolse Se non del lupo: eia tua guardia è il cane;
Dolci e nativi ; in tenerella etade. Il cui fedel amor non cede a prezzo.
Di peregrin maestro ^ impio flagello Quando ti svegli a l'appariir de l'alba.
Sentir, la madre pia chiamando indarno, Non trovi fuor chi le novelle apporte '
A le fonti menando, a i verdi prati Di mille a i tuoi desir contrarli eiiettii
Le non sue * gregge; e le cipolle e l'erba. Ne, camminando o stando, a te conviene
Lassi, mangiar, vedendo in mano a i figli A l'altrui satisfar più ch'ai tuo core.
Del suo nuovo signor formaggio e latte : Or sopra il verde prato, or sotto il bosco,
Siccome oggi addi vien tra i colli tòschi Or ne l'erboso colle, or lungo il rio,
De i miseri cultor ; non già lor colpa, , Or lento or ratio, a tuo diporto vai:
Ma de l'ira civil, di chi l'indusse Or la scure, or l'aratro, or falce, or marra,
A guastar il più bel ch'Italia avesse. Or quinci or quindi,ov'il bisogno sprona,
Or chi vuol ne l'età canuta e stanca Quando è iltempo miglior, soletto adopri.
Di pigra povertà non esser preda* L'o£feso vulgo non ti grida intorno
E poter la famiglia aver d' intorno Che derelitte in te dormin * le leggi.
Lieta, e la mensa di vivande carca; Come a nuil'altra par ^ dolcezza reca
Ne la nuova stagion non segga in vano : De l'arbor proprio, e da te stesso inser to,
'Aggravi. *Loro. » Abbia. «Togli. » Apf orli,
3 Padrone. 4 Loro. A Dormano. 5 Pari.
SECOLO DECIMOSESTO $5
fasta consorte e i cari figli Per bagnare il terreo di sangue' pio.
in ogni stagion goderse ^ i fratti ! Fuggasi* iunge ornai dal seggio antico
rne al suo vicin, contando d*essi L* italico TÌllan , trapassi 1* Alpi ,
:ara, il yalor. la patria e 'l nome ^ TruoTe ' il gallico sen, sicuro posi'
suo coltivar a gloria e l'arte. Sotto Tali, signor, del vostro impero,
lenar talor nel cavo albergo £, se' qui non avrà, come ebbe altrove ,
«iosa ìpin l'eletto amico; Così tepido il sol , s\ cbiaro il cielo ;
ir de i sapor, mostrando come [già; Se non vedrà quei verdi colli ^tosclii ,
ba grasso ilterren, l'altro ebbe piog- Ove ha il nido più bel Palla e Pomona ;
aesto e di quel di tempo in tempo Se non vedrà quei cetrì, lauri e mirti
^osa narrar che torni in mente. Che del Partenopeo veston le piagge;
i mostrar le pecorelle e i buoi; Se del Beoaco , e di mill' altri insieitfe ,
argli il fido can; mostrar le vacche, Non saprà qui trovar le rive e l' onde;
trar la ragion che d'anno in anno Se non l'ombra, gli odor, gli scogli ameni
oppiato più volte i figli « *1 latte: Che 'i bel ligure mar circonda e bagna ;
enarlo ove stan le biade e i grani Se non l' ampie pianure e i verdi prati
ii raonticei * posti in disparte. ' Ohe'l Po, l'Adda e'I Tesin girando infiora;
posa fedel, ch'anco ella vuole [pò, Qui vedrà le campagne aperte e liete,
àr ch'indarno mai non passe ^ iltetn^ Che, senza fine aver, vincon lo sguardo;
nenie a veder d'intorno il mena Ove il buono arator si degna a pena
la, il Un, le sue galline e l'uova. Di partir il vìcin con fossa o pietra :
i dannesco oprar son frutti e lode. Vedrai colli gentil, sì dolci e vaghi,
HH ritrovar, montando in alto, E'n sì leggiadro andar tra lor disgiunti
ensa inculta di vivande piena Da sì chiari ruscei ^, sì ombrose valli »
liei e vaghe; le cipolle e l'erba Che farieno ^ arrestar chi più s'affretta*.
K) fresco giardin,ragnel ch'il giorno Quante belle sacrate selve opache
tratto il pastor di bocca al lujpo , Vedrà in mezzo d'un pian , tutte ricinte ,
nangiato gli aveala testa e'I fianco. Non da crude montagne o sassi alpestri ,
>osa temer cicuta e tosco Ma da bei campi dolci , e piagge apriche l
i cerchi il tuo regno o 'l tuo tesoro, La ghiandi.fera quercia; il cerro e V eschio
ar la fame, senz'affanno e cura - Con sì raro vigor si leva in alto ,
■o che di dormir la notte intera, Ch'ei mòstrau minacciar co^ rami il cielo,
rarsi al lavok* nel nuovo sole. Ben partiti tra lor ; ch'ogni nom direbbe
i qaal paese è quello ove oggi possa, Dal più dotto cultor nodrite e poste^
oso Francesco, in Questa guisa Per compir quanto bel si truove in terra,
tico cultor goderse in pace Ivi il buon cacciator sicuro vada •
; fatiche sue sicuro e lieto? Né di sterpo o di sasso incontro tema ,
pà il bel nido ond'io mi sto lontano; Che gli squarce 'la veste, o serre® il corso.
;tà l'Italia mia: che, poi che lunge Qui dirà poi con maraviglia forse ,
, altissimo re, le vostre insegne, Ch' al suo caro liquor tal grazia infonde
i non ebbe mai, che pianto e guerra. Bacco , Lesbo obliando. Creta e Kodo;
I campi suoi son fatti boschi. Che l'antico Falerno invidia n'aggia '.
fatti albergo di selvagge fere,^ Quanti chiari , benigni , amici fiumi
ati in abbandono a gente iniqua. Correr sempre vedrà di merce colmi!
blco e '1 pastor non puote appena Ne disdegnarse * un sol d' aver incarco
esso a le città viver sicuro ^ Ch'ai suo corso contrario indietro tòmi,
remboal suo signor; che di lui stesso, Alma sacra Ceranta , Esa cortese ,
1 devria ^ vendicar, 'divien rapina, f^odan , Senna, Garun.ia, Era e Matrona ,
nero, il marron, la falce adunca groppo lungo saria conlarvi a pieno,
cangiate le forme, e fatte sono , ^^^^. , ^^^^^^
t spade Ughenti e lance acute. 3 Fariaao. Farebbero.
odersi* ^ MoaticeUi. ' Passi. ^ SoUiateadasi quelle selve,
>ovrìa. Dovrebbe. ^ Squarci. 6 Serri. 7 Abbia. 8 Disdegnarsi.
24 CRESTOiMAZIA POETICA
Vedrà il gallico mar soave e piano: Corte Tacute orecchie , e largo e f iano'.
Vedrà il padre Oceàu superbo in vista Sia l'occhio e lieto, non intorno cavo :
Calcar le rive , e spesse volte, irato , Grandi e gonfiatele famose nari.
Trionfante scacciar i fiumi al monte; Sia squarciata la bocca , e raro il criafl;
Del cieco dominar, che spoglie ^ altrui Alta l* unghia, sonante, cava e dura ;
Di virtù, di ))ietà , d'onore e fede ; Corto il tallon, che non si pieghi a tcnrt:
Come or sentiam nel dispietato grembo Sia ritoi\io il ginocchio : e sia la coda
D'Italia inferma , ove un Marcel diventa Larga, crespa, setosa, e giunta a l'anehei
Ogni villan che parteggiando viene. Né fatica o timor la smuova in alto.
Qui ripiena d' amor , di pace vera Poi del vario vestir, quello è piùin pregio
Vedrà la gente ; e 'n carità congiunti Tra i migliar cavalier , che più risembra
I più ricchi signor , Tignobil plebe , A la nuova castagna , allor che saglie *-
Viverse ^ insieme , ritenendo ognuno , Da Tambergo spinolo, e 'n terra cade.
Senza oltraggio d'altrui, le sue fortune. A gli alpestri animai matura preda :
alamanni, GoliivazioDe, libro /• Pur che tutte le chiome, e'I piede in basso
Al più fosco color più sieno appresso.
XX\lJnvocazione a Cerere. Poi levi alte le gambe, e'I passo snodi
Vago , snello e leggier- La testa alquanto^ ;
£ tu, madre onorata,che lasciasti, Dal drittissimo collo in arco pieghi;
Per consiglio divin, la figlia sposa E sia fermaadognor: ma l'occhio e'igoafdo
Al suo gran rapitor, del tutto erede; Senipre lieto e leggiadro intorno giri
Vien meco a dimorar nel tuo bel regno : £ rimordendoli fren di spuma imbianchi.
Ch'or che in alto sta il Sol, ch'egli arde il A i fuggir, al tornar sinistro e destro *,
[ giorno Come quasi il pensier sia pronto e leve.
Tra i più lieti villan, discinto e scalzo , Poscia al fero sonar di trombe e d'arme
Velato il capo sol de le tue spighe , Si svegli e 'nnalzi , e non ritruove ^ posa,
Qui cantar m' udirai per campi e piagge Ma con mille segnai ^s'acconci a guerra.
L' altere lodi tue; pur che tu voglia, Noi ritenga nel corso o fosso o varco
Quando il bisogno fia , compagna farte *■, Contra al voler già mai- del suo signore.
Vien tosto , vieni a noi succinta e snella: Non gli dia tema, ove il bisogno sproni,
Né quella bionda treccia oggi si sdegni Minaccioso il torrente, o fiume, o stagno;
Di talor sostener la corba e '1 vaglio Non con la rabbia sua Nettuno istesso :
£ gli altri arnesi tuoi. Non tardar molto: Noi spaventi romor presso o lontano
Che già ti chiaman le campagne e i colli, D'improvviso cader di tronco o pietra ;
Ch'hanno a l'ultimo dì condotto il parto, Non quell'orrendo tuon, che s'assomiglia
Per riposarlo poi nel tuo gran seno. AI fero fulminar di Giove in alto ,
Alamanni, CoUivatione, libro II, Di quell'arme fatai : che mostra aperto
Quanto sia più d'ogni altro il secol nostro
XX VII. Il cavallo. Già per mille cagion là su nemico.
Mamanni, ColUvazione, libro II.
Grande il cavallo , e di misura adorna
£sser tutto devria ^, quadrato e lungo : XXVIII. Lodi di Bacco e del vino.
Levato il collo ; e dove al petto aggiunge.
Bieco e formoso; e s'assottiglie ^ in alto. famoso guerrier, di Giove figlio ,
Sia breve il capo, e s'assomiglie ^al serpe: II cui divino onor dispiacque tanto
, _r , . o e 1- "^ 1^ ^^^ Giunon, ch'a morte acerba
' Vedraosi. « Spogli. '
3 Viversi. Vivere, 4 Farli. ' Salta foori. Esce.
5 Dovria. Dovrebbe. a Al volgersi a sioistra e a destra.
6 Assottigli. 7 Assomigli . 3 Ritrovi. 4 Seguali.
SEGOLO DECIMOSESTO 25
'. iudasseaUof con nuovi inganni , Poi, quando a noi la rondinella riede,
: Pincarco tuo gravida andava ; Che vigor, che dolcezza a i corpi e a l'alme
conobbe il dì * come devea ' Dona il soave vin, ch*a le chiare onde
do empier di sé l'altero nome ; Del rivo cristaliin sia fatto sposo!
o il gran padre tuo, di lampi e tuoni Non ci porta ei ne i cor Ciprigna e Flora?
iJf;or vestito e nubi cinto , Poi, che Febo, montando, al punto arriva
itendo fallir le sue promesse , Onde le piagge e i colli in fiamma e in fuoco
ìànào di duol tua madre ancise i Torna co' raggi suoi; ch'a pena ardis<^e
n ìnaturo il parto uscisse fuore Trar la testa di fuor pur il lacerto ;
[minato ventre. K'I buon parente Che dolce compagnia, che bel ristoro
tesso ti pose, e tenne tanto , Si ritrova egli in quel leggiadro e chiaro,
i il decimo mese aggiunse al fine. Senza fumo e calor, che il fresco e l'acqua
le volte nato, a la sorella Fa di noi penetrar là dove ' questa
i in man de l'infelice madre : Gir non può sola, o pia sudore apporta!
Ninfe di Nissa ascosamente Indi che'l tempo vien ch'ogni arbor mostra
i avesti nel sacrato speco. Spiegate al ciel le vaghe sue ricchezze
scendo poi d'anni e d'onore, Nel tardo autunno; che quel ramo appare
n, gli Arabi,iPersi,iB.tttrie gl'Indi Carco d'oro più fin, quell'altro d'ostro;
quel che potea quell'alto germe Che dir si può di lui, che solo ha forza
venne da Giove,e nacque in Tebe. D'ammorzar il venen che i pomibaaseco?
i superbi trionfi, i regni e l'oro, Già lemembrae'lpoterdclseme umano,
onor, tanta gloria e tante lodi Per ciascuna stagion, per ogni etade,
i traesti allor, furon mortali: Non purnutre,sostieu, conforta, accresce,
lerna memoria, il divin nome, Ma l'ingegno, il discorso, e l'altre parti
chiamato dio, gl'incensi, i voti. Che dell'animo son , risveglia, e rende,
, i sacrificii , il becco anciso, Se moderato vien, più acute e pronte.
, i Silen ti sono intomo. Questo spoglia il titnor, riveste ardire,
: mostrasti a noi quel sacro frutto , Porta in alto i pensier, pigrizia scaccia;
acro frutto che ciascuno avanza , Né gli può cosa vii restare iuseno.
i il poter divin terrena cosa. Questo ci mostra pian talor il monte
ossi tra lor venuto allora Di Pierio, di Pimpla e d' elicona;
o furo a quìstion Nettuno e Palla , £ ci- conduce ove le Muse e Febo
ti contrasti alcun che dal tuo solo (^i fan d>r cose a maraviglia altere,
iissima Atene il nome avrebbe. Chiara tromba sovrana, il cui gran suono
potrebbe agguagliar con mille voci Di così raro onor il mondo ingombra,
kita virtù cn* apporta seco Che mille altre cittadi, e Smirna e Rodo,
e arbor tuo? che di lui privo, Sol per gloria acquistar, ti chiaman figlio;
redovo e sol saria ciascuno? Tu 'l puoi saper; che lui compagno avesti
ura de l' uom più saldo e vero Per far l'onde sigee sanguigne e '1 Xanto^
a sostegno alcun ; se questo prenda £ far troppo aspettar la casta sposa.
isura e ragion , tra'l molto e 'l poco. Or non sa il mondo ornai, non è palese,
Udo più gira il ciel ventoso e fosu'; Che questa é la cagion che L'edra antica,
K>llo èinbando, e le fontane e i fiumi Perch'ai padre Leneo le tempie cinge,
jati dal giel, e i monti intorno Al santo poetar ghirlanda sia?
m canuto il pel, uccello e fera alamanni, Coltivasione, libro W.
vede apparir, che stanno ascosi :
il buon viator sicuro e lieto XXIX. Segni della tempesta
nevi stampar, calcar i ghiacci , e della serenità»
i questo liquor? chi ardente e vivo,
d' un lustro antico, e non offeso Non sentiam noi,
ide d' Acheloo, nel più gran verno Quando s'arma aquilon per farci guerra,
[ mezzo l'Appennin portar aprile? Suonar d' alto romor gran tempo innanz i
d dì. ^Dovea • ^ Fa peaetrare in qu^ parte di noi, dove.
26 CRESTOMAZIA POETICA
Le selve alpestri; e minacciar da lunge S*accorca e s*alza, e ne dimostra aperto .
Con feroce mugghiar Nettano i lìti? Van desio di lavarse * e dolce speme.
I presaghi delfin fuggirsi a schiera Or Timpura cornice a lenti passi
Ove il futuro mal meo danno apporte * ? Stampar l'arena, e con voci alte e fioche'
£ se dall'alto mar con più stese ali
Rivolando tornar siseute il mergo,
E con roco gridar fra cruccio e tema,
D'un non solito suon ennpier gli scogli;
O se ringorde folaghe intra loro
Sopra.il secco sentier vagando stanno;
O il montante aghiron» poste in oblio
Le native onde sue, paludi e stagni,
Consideriam fra noi volando a giuoco
Sopra le nubi altarse *; allor chi puotc
Ratto schivar il mar, si tiri al porto;
£ chi ne sta lontan, ne i voti appelli
Yeggiam sola fra se chiamar la pioggia.
Né men la notte ancor sotto il suo tetto
La semplice donzella il dì piovoso
Può da presso sentir, qualor cantando
Trae de la rocca sua Tinculta chioiAà;
Che *1 nutritivo umor, montando in cima.
De l'ardente lucerna ingombra il lume, ,
E scìnlillando vien di fungo in guisa.
Cotal si può veder tra l'acqua e i venti'
Il buon tempo seren ch'appresso viene,
A mille segni ancor. Ciascuna stella
Mostra il suo fiammeggiar più vago e lieto.
£ Castore e *1 fratel; ch'ei n'ha mestiero. £ la luna e H fratel più chiaro il volto.
Or dal notturno ciel cader vedrai, Non si veggion volar per l'aria il giorno
Quandi) il vento é vicin, lucente stella, Le leggier foglie; né sul lito asciutto
Di fiammeggiante albor lassando l'orme; Spande il tristo alclon le piume al sole:
Or secchissima fronde , or sottil paglia Non con l'immonda bocca il lordo porco .
Gir per l'aria vulamlo; or sopra l'onde Or dì paglia or di fien sciogliendo i fasci^
Leve piuma apparir vagando in giro. . Gli getta in alto: e già seggon le nebbie
Ma se 'nvér l'Aquiion son lampi e fuochi, Dentro le chiuse valli, in basso sito:
Se ■ "*
Nuotan
Che ^ ,,
£ bagnandosi i crin, grayose e molli Sentonsi i corvi allor di chiare voci
11 turbato nocchier le vele accoglie. Empier più spesso il ciel; poi lieti insieme,.
. Quanti son gli animai che ti fan segno Dì dolcezza ripien, per gli alti rami
De la pioggia che vien! L'esterno grue, Menar festa tra lor: che già le piogge
De le palustri valli al ciel volando, Veggion passate, e con desio sen vanno
La mostra aperta. Il bue con l'ampie nari^ 1 figli a riveder nel nido ascosi.
Scile vando la fronte, l'a ria accoglie. Già non voglio io pensar ch'augello e fera
La rondinella vaga intorno a l'onde Per segreto divin prevegga il tempo
S'avvolge e cerca: e dal lotoso albergo Chiaro e fosco che vien, ne sian per fato
Il nojoso garrir la rana addoppia.
Or l'accorta formica a ratto corso,
Con lunga schiera, a ritrovar l'albergo
Intende, e bada a la crescente pròle.
Di più senno o veder creati al mondo:
Ma dove o la tempesta o '1 leve umore
Van cangiando il sen tier(chè'l padre Giove,.
Or con Austro or con Borea, or grossa oc
Puossi, versoi! mattin, tra giallo e smorto Fa l'aria divenir), gli spirti'e l'alme [rara
Ualor l'arco veder, che l'onde beve. Diversi hanno ipensier;chenascoa dentro
Per riversarle poi. De i tristi corvi Dal variar del ciel. Però veggìamo,
Veggonsi attorno andar le spesse gregge, Quando torna il seren, tra i verdi rami
Di spaventoso suon l'aria ingombrando. Dolce cantar gli augei, scherzar le gregge,
Ogni marino uccello , ogni altro insieme £ più lieto apparir cantando il corvo.
Ch'aggML *' ia stagno, in palude, o 'n fiume
albergo,
Sopra il lito scherzar ripien di gioja
Veggiam sovente: e, chi la fronte attuifa
Alamanni^ CoUivazione, libro VI»
XXX. Bellezza di Apollo.
Sott'acqua, e bagna il sen; chi ne l?asciatto
* Apptfirli. fi Alzarsi.
3 D.Ua parte di Zefiro « d*Eiiro, * Abbia.
Ma, quale al maggior di la bianca aurora
Lieta mostrarsi in oriente suole ;
.* Lavarsi»
I
SKCOI*0 DECIMOSESTO 27.
*
esca rosa che pur nasce ai lira,
(e ancor come poi punge u sole ; • XXXIII. A Zefiro, • . '
er le piagge che dipinge l' óra ^ ,
vermiglie e candide viole ; Perchè spiri con voglie empie ed acerbe*
più mi parca, guardando, quello Facendo guerra a PondeaUeeschiumosei
3 ragiono ',alIor, leggiadro e bello. Zefiro, usato sol fra piagge ombrose
>ei,.che vinceanp e l'ambra e l'oro, Mover talor col dolce fiato Fcrbe?
m nel collo, ch'ogni neve oscura: Ira sì gravt*, e tal rabbia si serbe^
birlanda pur di yerde alloro . Contr'al gelato verno; or dilettose
la fronte sua candida e pura; Sono le rive, e le piante frondose,.
I, quale al suo virgineo coro £ eli fiori e di frutti alte e superbe.
lana par^r, poi che sicura Deh tornaa l'occidente, ove t'intita»
vista mortai, tra fiori e fronde Col grembo pien di rose e di viole,
1 casto sudor ne le fresch'onde. A gli usati piacer la bella Glori.
Alamanni, Odi l'ignuda State, che smarrii^
Di te si duol con gravi alte parole,.
Gaspara Stampa a CoUaìtino E pregando ti porta e frutti e fiori.
de'contì di CoUaltio. Bernard» Tatto,
lasciate. Signor, le maggior cure, XXXIV. Sopra un pappagallo che
vcacciando io questa età fiorita, eduoavasi da una dama,
iche,'o periglio de la vita,
egi, alti onori, alle venture. ^ago augelletto da le verdi piume,
questi colli, in queste alme e sicure Che, peregrino, il parlar nostro apprendi ,
campagne, dove amor nMnvita, Le note attentamente ascolta e'ntendi,
IO insieme vita alma e gradita, Che Madonna dettarti ha per rosttHne;
il Solde'nostr'occhi al fins'oscure'. E parte ' dal sua ve e caldo lume
he tante fatiche e tanti stenti De'suoi begli occhi l'ali tue diffondi;
vita più dura; e tanti onori Che il fuoco lor (se, com'iofei *, t'accendi)
per morte poi subito spenti. Non ombra o pioggia , e non fontana o
coglieremo a tempo e rose e fiori fiume,
! e flutti; e con dolci concenti Ne verno allentar può d'alpestri monti;
ìm con gli uccelli i nostri amori. Ed ella^ ghiaccio avendo i pensier suoi,
Gaspara Stampa, Pur de l'incendio altrui par che si goda.
Ma tu da lei leggiadri accenti e pronti^
XXXII. Al medesimo. Discepol novo, impara: e dirai poi:
Quirina, in gentil cor pietate è loda,
r verrebbe teco *
» partir. Signore; Quel vago prigioniero peregrino,
osse più meco Ch'ai suon di vostra angelica parola .
*■ con gli occhi tuoi mi prese Amore. Sua lontananza e suo career consola;
[qùe verranno teco i sospìr miei; E 'nciò men del mio fero bave ^ destino;
1 mi son restati Permesso'^ tutto, e 'l bel monte vicino
mpagni e grati; Vincer potrà , non che Calliope sola.-
>ci e gli omei. Da'si dolce maestra, e 'n tale scola
:drai mancarti la lor scorta ^, Parlar ode ed impara alto e divino.
ch*io sarò morta . Ben lo prego io ch'attentamente apprenda
Gaspara Stampa, Cpn quai note pietà si svegli, e come
Vera eloquenza un cor gelato accenda»
Sì dirà poi: che tra sì bell^ chiom»
«. • Apollo. ' Serbi. '
ntr\, A D« che. S Goin|«giiia. * s Parimente. Insieme. Al medesimo tempo.
3 Feci. 4 H«. 5Paroa80% ■
ViH CRESTOMAZIA POETICA
l'.'ii Ni Ih-^Ii «H'v'bt Amor già mai Qooscenda, Non era ambizion ne'petti loro;
^>(u-iUt ó uotU) e vtoenu al vostro nome. Ma '1 mentir abborrian più che la morte;
Velia Casa. Né vi re^va ingorda fame d*oro.
Se 'ì Ciel v'ha dato più beata sorte;
XXXV. A una foresta. Non sieu quelle virtù, che tanto onoro.
Da le nove ricchezze oppresse e morte.
iU»lc« selva» solitaria, amica ^ Delia Casa.
IVmitfì ueiuieri sbigottiti e stanchi;
Mi'ulr^^ dureai ne*dì torbidi e manchi, XXX Vili. Amori pastorali.
UVritdo gel Taere e la terra implica;
K la tua verde chioma, ombrosa, antica, Filli, io non son però tanto deforme
(Amicla mia» par d*ogn*intorno imbianchi, (^^ '1 vero.a gli occhi miei qaest' ac<|na
l>r vh<»*u vei^e di fior vermìgli e bianchi. Che tu, che sola puoi farmi felice, [dice,
\\a neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica; Non dovessi talor men feraaccorme '. ',
A questa breve nubilosa luce Non pascon de le mie più belle torme,
Vo ripensando, che mi avanza; e ghiaccio Ne ha più grassi agnei ' questa pendice:
(ìli «pirli ancViosento e le membra farsi. Ben già, ma non l' intesi, una cornice
I^lapiùdì te dentroe d'Intorno agghiaccio: Predisse il fato al mio voler disforme,
i^hè più crudo Euro a me mio verno ad- Io vorrei, Filli, sol per queste valli»
[ duce. Senza punto curar d'armento o gregge,
Più lunga notte; e dì più freddi e scarsi. Vivermi teco infino a l'ora estrema...
Velia Casa. Con cui parli, meschin?che pur vaneg^eT
Non vedi un lupo là fra quei due calli, .
XXXVI. A Dio. Da cui fugge la mandra, e tutta trema?
Questa vita mortal^che *n una o*n due Pastor, cheleggi in questa scorza e iir
Brevi e notturne ore trapassa, oscura [quella
K fredda, involta avea fin qui la pura jFi7/i scritto e Damon che Filli onorai
Parte di me ne l'atre nubi sue. Sappi che tanto fu pietosa allora
Or a mirar le grazie tante tue Fìlli a Damon, quant*or gli è cruda e fella.
Prendo: che frutti e fior, gelo ed arsura. Io pur la chiamo, io pur la prego; edella,
E sì dolce del ciel legge e misura. Misero!, non m'ascolta, e fugge ognora;
Eterno Dio, tuo magisterio fue '. E quanto fugge più, più m'innamora;
Anzi '1 dolce aer puro, e questa luce E mi par sempre al suo fuggir più bella.
Chiara , che *1 mondo a- gli occhi nostri L'altr'ier, menando a ber la greggia al
[scopre^ Tutta soletta a pie d'un bianco ulivo [rio, '
Traesti tu d'abissi oscuri e misti. La vidi ch'intessea fragole e fiori: *
£ tutto qiKlche'n terra o'n ciel riluce; Ma Licisca abbajò; perch' *■ ella fuori
Di tenebre era chiuso, e tu l'apristi; Da gli occhi mi sparì sì ratta, ch'io
E '1 giorno e'ISol de le tue man son opre. Rimasi, e sommi ^ ancor, tra morto e tivo.
Delia Casa.
Appena potev'io, bella Licori,
XXXVII. Sopra la città di Venezia. Giunger da terra i primi rami ancora, p
Quando ti vidi fanciuUetta foora
Questi palazzi e queste logge or colte. Gir con tua madre a coglier erbe e fiori.
D'ostro, di marmo, e di figure elette; Possa io morir, se di mille colori
Fnr poche e basse case insieme accolte, Non sentii farmi tutto quanto allora:
Deserti lidi, e povere isolette. Ne sa pea ancor che fosse amor: ma ora
Ma genti ardite, d'ogni vizio sciolte, Ben me l'hanno insegnato i miei dolori.
Premeano il mar con piccìole barchette; Già viss'io presso a te felice e lieto:
Che qui, non per domar provincic molte, , j,^^^.^ Acooyliermi. « AffoelK.
Ma fuggir servitù, s'eraa ristrette. a Vaneggi. . 4 P«r la qcal co».-
' Fu. 5 Sonmi. Mi sono. Soao.
\
SECOLO DECIMOSESTO 29
! lungemi distempro e doglio; In rimirando te, non pure acqueto,
•n questa selce e quel ginebro. Ma per dolcezza esco di vita fuore.
ro pensando (e in questo sol m'ac- Farchi,
[ queto)
igiar tosto deggio, non pur voglio XXXIX. Sopra la primavera .
l Arno a TAniene e 'I Tebro,
Ecco il fiorito aprile,
D j M o N E Che scaccia il pigro gelo;
, questa vezzosa ornata gabbia, £ zefiro gentile,
bel raperln, che sale al dito, Ch'a l'aere oscuro il velo
i manda: ed io per lui t'invito Di nebbia toglie, e rasserena il cielo,
on osa a gran pena aprirle labbia) Cantiam, Lirolrhi tutti,
1 piaccia venir, rome il sole abbia L*alma stagione amica,
portato il giorno, in quel fiorito Che ne promette i fruiti
»ve amor Tebbe per te ferito; D'ogni nostra fatica,
che muore ognor, vita riabbia. In questa piaggia dilettosa, aprica:
il vederti a lui può dare aita; Ove a noi gli arboscelli,
guardo di te può torgU morte; Scossi da i vaghi Amori,
- lo puoi tu lieto e felice. Spargeranno i capelli
N A P E ^ De. gli odorati fiorL,
o farò, Damon: così partita che s'aprono al venir de' nuovi albori .
via più tosto, e 'u via più corte Voi che del puro fondo
prisse il sol questa pendice. Abitatrici siete
Di quf ste fonti, il biondo
e jì R I N o Crin fuor omai traete:
iam, saggio Damon ; che fra quel- Che le vostre acque son tranquille e quete.
ìésso abitar candida biscia, [l'erba Venite, prego,^ o Dee
sferza del sol s'infoca e liscia, Sante, e voi Dei silvestri,
re lingue fischia alU e superba. Oreadi e Napee;
la là, ch'ella si fugge e inerba Venite co'canestri:
)0 ecespo, e viasguizzandoslrisciaj Satiri, e voi, co'pic veloci e dentri,
dietro di se lasciando striscia, Tempo è che si ritorni
rnaU da lei la polve serba. x i dolci usati balli.
D A sto N B Fuggono i brevi giorni:
temer, Carin mo; ch'aperto segno £ risonar le valli
Uà il ciel ch'a glorioso fine ^m gli augellctti, tra fior bianchi e giallit
'andranno e i miei cortesi ardori. Qaanto diletta e piace
jono io teco; e tu, se quelle spine Questa stagion novella!
tan, veder puoi l'alto sostegno, pgj^ tu, che la face
le la tua vi la, apparir fuori. Spregi di Amore, o bella
E più che orsa crudel, mia pastorella;
ito bianco monlon, che da se torna Mentre che primavera
landria la sera; pv'io l'inchiavo j^^j juo bel viso appare,
mie mani, e la mattina il cavo, j^q^ gjf superba e fera:
;hfi a l'oriente il di s'aggiorna; cjj»j^ queste dolci e chiare
i, l'aer ferendo con le corna, Verran poi dietro l'ore fosche, amare;
superbo, e più che un toro bravoj £ jj ^ua vita in breve
ririnto mio, pettino e lavo: Porteran seco il verno,
icca, di mille fiori adorùa. £ la pioggia e la neve:
lue' begli occhi, ov'ha il suo nido (^^je, oh dolor interno!
i volgi una sol volta lieto, [Amore, jg stessa avrai, com' or me lasso, a schema,
tla ti donai l'anima e 'i core* Marmitta,
felice morrò; ch'ogni dolore,
«0 Cr.ESTOMAZIA POETICA
Appena vie n tra noi, che si disperde,
aL. AlVimperatore Carlo quinto. E qaasì insieme appare e si nasconae, :
Mortai beltà, ch*a un punto è secca e verdc^
Dopo tante onorate e sante imprese, Nettuno è il padre mio,re di quesl*onde$
Cesare invitlo, in quelle parti e in queste; Né pescator è qui presso o lontano,
Tante e sì strane genti, amiche e infeste, Che più di me di nasse o refi abbonde.
Tante volte da voi vinte e difese; Chi nuota più ? chi più destra la mano
Fatta r Affrica ancella, e Tarmi stese Tiene al pescar; sia pur la notte o'lg;ioriuK
Oltre l'occaso, poi ch*in pace aveste Sia pur turbato il m^ir, sia quef o e pianof
La bella Europa; altro non so che reste * Dehvieniormai:lapioggia,il litointorno
A far vostro del mondo ogni paese. Ti chiama meco al'ombra; edioti chiamo,
Ch*assalir l'oriente, e *ni!ontr' al sole Di questo lauro di bei rami adorno:
Gir tant' oltre vincendo, che, d'altronde Poiché lasciai per te già l'esca e l*amo,
Ginata l' aquila al nido ond*ella uscio. Rota, Egloghe pescatone, Egloga FJÌ,
Possiate dir, vinta la terra e l'onde,
Qual umil vincitor, che Dio ben cole: XLIf . Le bugie.
Signor, quanto il Sol vede, è vostro e mio.
Caro. Di bugie da diverse bocche uscite.
Donne, compost' oggi è la schiera nosfrA:
XLI. Canzone amorosa di un Che, preso corpo e forma, insieme unite
pescatore. Ci siam , per farvi una leggiadra mostra.
E, per narrarvi apertamente il vero,
O sorda più del mar nata di scoglio , Qual il nostro esser sia ;
Nutrita di velen da le balene; [glio. (Ma chifia mai che creda a la bugia? )
Deh ferma il passo, e rompi il duro nrgo- Queste ch'ai lor pomposo abito altero
L'istoria de le lunghe aspre mie pene Sembrano avere i mpero
Non ti dirò; ch'annoverar sarebbe Sopra noi altre, son quelle che fuori
Tutte di Libia le minute arene: Mandar soglion sovente
Basti saper che ben mi si dovrebbe Tra l'idiota gente.
Giusta pietà da que' begli occhi onesti, A varii effetti, i principi e signori:
Onde la fiamnia al cor ne venne e crebbe . £ quant'essi han più de gli altri potere.
So che conosci Alcìppe, che intendesti Son elle ancor qui più ricche a vedere.
Quanto ardea già di me; né mai la volli: Noi, quantunque d'origine men chiara,
Così l'anima mia legar sapesti. State pur siam prodotte
Ornai ti san chiamare i sassi; i colli: Da begli ingegni, e da persone dotte.
Tante volte io ti chiamo, e così spesso Benché private. £ se fortuna avara
Son da quest'occhi il di bagnati e molli. Non ci ha fatto sì cara
Io son Sebeto tuo; se pur me stesso Veste, e sì ricca d' ostro e gemme ed oro,
Conosco bene, e tu '1 conosci: ascolta: Non per questo il valore
Iosonqueich'eradtanxi,io sonquel desso. Nostro é punto minore ,
Questa colomba che a la madre ho tolta Né d'arte o di saver cediamo a loro.
Stamannel nido, e Ira fior bianchi e gialli In carro andiam, s'esse a cavaUo; e spesso
Questa ghirlanda in mille nodi avvolta Scorriam non men di lor lungi eda presso.
Io tHio serbato, e questi bei coralli, Di quanto giace qui sotto la Imuii
Purpurei e bianchì, che del nostro mare Se si riguarda bene, ^
Colsi l'altr'ier ne'locidi cristalli. Poche cose ci son che non sien piene
Èombra, arni non é quel ch'esser pare, Di noi: ch'a raccontarle ad una ad WM,
Quel ch'ir ti fa superba: è men d'un fiore, Saria cosa importuna.
Ù» non sarà diman cnm'oggi appare. Mirate a l'arti: i medici, i mercanti,
Non vive sempre il bel vivo colore I poeti, i pittori.
Del giglio^ e in un matlin la spina perde £ fino gli scrittori
lì tesor de le rose, il breve onore. Dell'istorie, si adoruMi tutti guanti
' R«sU, De r opra nostra . £ »' ella ogma dU#tla,
SINGOLO DECIMOSESTO Si
I pur che 901 siam cosa perjTetta. In Tolontario esìlio si son messi,
hi farne di voi può più verace Nuove terre cercando e nuovi lidi,
lonne amorose? ' Nel principio dei mondo fur concessi
volte a che scandoli, a che cose, A gli animai da Dio ^i privilegi
)sta una bugia hen detta, pace ! i^ Quei doni che chiesero egli stessi,
che giova e piace Come nuovi vassalli a nuovi regi»
ido tanto, fu colui ch*a* suoi Gran popob di loro ivi convenne ;
;e hen s' estima. Quali a i comodi iotenti> e quali a i fregi.
H Dostr'uso in prima Tra gli altri la testuggine vi venne;
I* altri ad altro n* adoprassi ^ poi), E chiese il poter sempre, o vadto seggio ,
ede per care e fide ancelle 'i'rar seco la sua casa ; e *1 dono otleone.
i amanti e de le donne belle. ^^ Dimandata da Dio perche gii chieggia
^ciaa
iveggiaj
_ , , braccia
minor pregio i lor padri hanno; Tor questo peso tutti gli anni miei,
l'a piede vanno, Che non poter schifar quando mi piaccia
loc' oltre si distenhe il grido ; Un mal v icin . Che du oqne dir potrei
più de le volte De' tempi nostri, se da quei d' Adamo
1 restar sepolte Già s^ebbe tema de* vicini rei ?
>lgo iguaro, ov'ebber prima il nido; Tansillo, Podere, capitolo /.
lè son con poca cura nate,
iltre son gobbe, altre sciancate. XLIV. Incomodità e danno deWaver
ual lingua sì pronta, o quale stile, cattivo vicino in villa,
i , eh* a parte a parte
e voglia dir V industria e l'arte, Nessun potria pensar quel che grimporti
'esti anzi al fin derisa e vile? L*aver ( se prima non ne viene a prova)
lima gentile Buoni vicini o rei, deboli o forti,
trova, fu mai, che facesse 11 reo vicin mi noce, il bui^n mi giova;
in guerra cosa Col povero ho speranza d* al largar me ,
t e gloriosa, ^ K*l ricco fa ch*uom passo mm si mova,
l nostro valor non si vale.«sf? Se*l poder compro per talor qui tarme,
la turba pur: che ben s* inganna Sebo mal vicino, a capoal letto,al6aiicOy
ique il nome di bugia condanna. La notte e'I dì convienmi tener 1* arme.
dui. Sia fertil qi auto uom vuol; se a destro
[omancd
XLIII. La testuggine, QualriteAutolicostammioqaalcheCacco,
. . -,^_ „__ ^ Non vale il mio poder la metà manco ?
FA TOLETTA ^^y^ ^ Pomona, a Cerere ed a Bacco,-
t che1 poder sia nostro,non solo esso ^^^ ^^^^ *^\ minacce né d'accusa >
bbiamo e mirare e squadrar bene , ^^^ eh* empia in terra altrui la corba oti
cor le terre che gli stan da presso: , ^ [ sacco,
ile, se quelle splendon, ne danspe- ]^^ S^^^a villa d* ogn* intomo chiusa,
crteua, che sia buon il clima, [ne, ^^ diligenxa d* uomini e di cani
si ancor l^ uom che. vicin si tiene. Contro le insidie che *lvicia vostro usa.
lai siano i vicini inquirer prima Gallina che da l'uscio s'allontani ,
.alberghi oi poderi abbiam noi tolti, P^n non vi riede: e chiami pure e pianga
imento assai più eh* uom non stime. ^ villanella e battasi le mani,
polfei contar popoli molti Aratro o giogo orastroo marra o vanga,
r fuggir vicini ladri infidi, Qnal sia di ferramenti o di legnami,'
da piò contrade insieme accolti, ^^^ fidate che fuori si rimanga.
i la patrie lor, da i dolci nidi ^r ^^^^ viti, or pali, or tronca rami,
>l ni««« Or albero, per foco o per altri «si ; ^ '
M CaESTOMAZIiPOETICV
ÌSe lascia intatti i prati, né gli strami. Né basta a l'allrui invidia de dioMiidì:
Fura i legami ancor ne*gusci chiusi: Ond'è che tanto renda il poder tuo,
Ne de'frutti primier ne de*sezzai Che è tal che un manto il copre che ^i
Sostien che 'tpadron doni, o persegli usi. [spandi?
Nel suo terren non mette pie giammai^ Ma, accasandol, piùd^unoepiùdiduo
Che danno non incontri; e guardia e cura Dicean che con incanti e con malie
N'abbia a sua posta e d*ogni tempo assai. Le biade altrni tirava ai terren suo.
Chi, per sua colpa o per sua rea ventura. Venne al giudizio il destinato die ,
S'accosta a rei vicini o si raffronta, Che si dovea por fine a le tenzoni^
Sempre ha Foste a le siepi ed a le mura. E scoprir l'altrui vero e le bugie.
D'un signor greco e saggio si racconta 11 buon iiom, ^rdifender sue ragioni,
Che, facendo una sua possessione Al tribunal de'giudici prudenti
Por sotto Tasta, al prezzo che più monta, Non menò nò dottori né patroni.
Comandò che gridasse anco il precone Recò tutti i suoi rustici strumenti,
Ch'ella avea buorì vìcin: quasi ciò stimi £ tutti i ferri onde il terren s'impiaga,
Non men che l'altre qualità sue buone. Ben fatti, e per lungo uso rilucenti; -
Tansiìlo, PoJere, capitolo IL ^"«i glassi buoi, sua gented'oprar nga.
Questi, dice (già posti in lor presenta^,
XLV. Necessità della industria; va- Son gl'incantesmi miei, l'arte mia maga.
lore e bcnefizii della medesima. Le vij^ilie, il sudor, la diligenza
Trar qui non posso, come fo di questi:
Da che gli uomini incielo e in paradiso, Benché de l'una io mai non vada senza.
L'un furò 'ì foco, e l'altro colse il pomo, Subilo, senza dar luogo a protesti
Volgendoinpiantoilproprioel'altruiriso,' Ed a calunnie, o porvi indugio sopra,
Fé Dio compagni eterni al miser uomo Dichiararon lui buono e quei scelesti,
1 morbi, il mal, le cure e le fatiche; E la sentenza fu, che più può l'opra
E fu '1 furto punito, e l'ardir dòmo. Nel terren, che 'I dispendio ch'ivi fessi;
Onde,abbiaquantoyuol le stelle amiche, E tanto vai pder quanto uom v'adopra.
Bisogna ch'uom patisca in tutte etadi^ D'oprar dunque in sul campo uom mai
£ con sudor si pasca e si uudriche ^. [non lassi.*
Ma vi son poi le differenze e i gradi: Che '1 frutto e 'l ver tesor sotterra posto.
Cui più, cui men ne tocca. E tuttavia TansUlo, Podere, capitolo II,
Son color che n'han poco, e pochi e radi.
Vuol Dio che stato sotto il cielnonsia XLVL Lodi della vita rustica.
Ov'uom s'acqueti; e men chi ha miglior
[sorte; In villa al gran dispendio si pon briglia:
Ne senz'affanno abbia uom quel che desia. H più de Pore in opra si dispensa;
Un saggio contadin, venendo a morte, E pochissima noja vi si piglia.
Acciò che i figli in coltivar la terra Poco mal vi si fa, men vi si pensa;
S'eserciiasser dopo lui più forte; E se hanno le città più passatempi,
Figli, lordisse, io moro: ed ho sotterra Hanno anche di perigli copia immensa.
E ne la vignali più de'beni ascoso; Cercan gli uomini d'oggi il passartempi;
Ne mi sovvien del cespo ove si serra. £d io, che son d'opinion diversa,
Morto il padre, i fratei senza riposo Vorrei cosa che fosse arrestatempi.
A zappare e vangar tutto il di vanno, L'ambizione, al viver santo avversa.
Ciascuno del tesoro desioso. Che *1 più de'nostri dì fa men sereni,
La vigna s'avanzò dal primiero anno; In villa raro alberga ne conversa.
£ 4 giovanetti inteser con diletto O troppo fortunati, se i lor beni
Del provido vecchion l'utile inganno. Conoscesser color che si stan fora '
Aveva un buon Romano unpoderetto, Tra colti poggi, e valli, e campi ameni!
Dal qual traea più frutto, che da i grandi Cui dà benigna terra d'ora in ora
Non traean quei da cauto o di rimpetto. Quel che altrui fa bisogno agevolmente:
'^latenJast il padrone^ > Katriclùt ' Fuori.
SECOLO DECIMOSESTO 55
Ne suoli di tromba i ¥0111 Ivi scolora: Il mio cor, che languendo egro si duole,
E se non han g.l'inchioi de la genie, E de le cure sue spinose e felle
Ne men han chi fi turba e chi gli scuote Dopo mille argomenti una non svelte,
Dal riposo del corpo e de la mente. Non ha, se non sci tu, chi pi ù*l console '.
O felice colui che intender puote Tu ne sterpa i pensieri, e di giocondo
[.e cagion de le cose di natura, Obblio spargi le piaghe: e tu disgombra
Che ai più dì que'che tìvoo sono ignote; La nebbia onde son pieni i regii chiostri.
£ sMto il pie si mette ogni paura £ tu la verità traggi dal fondo,
De*fati e de la morte, rh'è sì trista; Dov'è sommersa: e,senza yelo od ombra.
Né di volgo gli cai, uè d*altro ba cura! n Ignuda e bella a gli occhi altrui si mostri.
Ma più felice chi, del mondo vista Torquato Tasso,
La parte sua, non vi s'appoggia sovra,
Aitato dal saper ch'indi s'acquista; XLVIII. Alla duchessa di Ferrara:
Ma in villa, ch*è sua tutta, si ricovra; in tempo di carnevale: dalla pri-
E de gli anni e de i di ch'haspeso indarno, gione .
A. sé stesso ed a Dio parte ricovra.
Cosi potess'io tra Sebeto e Sarno Sposa rogai, già la stagion ne viene
Menare ornai la vita che m'avanza, Che gli accorti amatori a'batli invita,
Con le ninfe del Tevere e de l'Arno, E ch'essi a'rai di luce alma e gradita
Da le quai fei sì lunga lontananza: Yei^ghian le notti gelide e serene.
E de'signor sgannato di qua giuso, - Del suo fedel già le scerete pene
Fondar nel Re del cielo ogni speranza. Ne'casti orecchi e di raccòrre ardita
Deh sarà mai, pria che giù cada il fuso iia verginella; e lui tra morte e vita
De gli anni miei, ch'a pie d'una montagna Soave inforsa, e 'n dolce guerra il tiene.
Mi stia tra colti ed arbori rinchiuso; Suonano i gran palagi, e i tetti adorni,
£ con la mia dolcissima compagna, DI canto: io sol di pianto il career tetro
Qnal Adamo al buon tempo in paradiso, Fo risonar. Questa è la data fede?
Mi goda l'amil tetto e la campagna, Son questi i miei bramati alti ritorni?
Or secoal'ombra,or sovra il prato assiso , Lasso! dunque prigion, dunque feretro
Or a diporto in questa e in quella parte , Chiamate voi pietà, donna, e mercede?
Temprando ogni mia cura col suo viso; Torquato Tasso.
EpODgain opra qnelch'ban postolo carte
Calo e Virgilio e Plinio e Colum'lla , XLIX. Sopra un cagnolino,
E gli altri che insegnar sì nobii arte;
£di mia manoinuf>sli,e pianti, e livella Pargoletto animai, di spirto umano.
La spessa de'rampolli inutil prole. Bianco come la fede onde sei pegno;
Che fan la madre lor venir men bella: Ch'in sì bel grembo di seder sci degno,
£ con le care figlie, e (se '1 Ciel vuole) E prendi il cibo da sì bella mano;
Spero co' figli, a tavola m'assidi, Teco albergo cangiar tenta, ma invano,
Lastatea i luoghi freschi, il verno al sole; Quel can che splende nel celeste regno;
£ di mia man fra lor parla e divida E prende il cielo e le sue stelle a sdegno
L'uvee le poma; e s'io mi desti o corche ^ Mentre te mira e l'onor tuo sovrano.
C'Jn loro io mi trastulli e scherzi e rida? Forse ne le tue forme Amor converso
TaiisUlo, Podere, capitolo III, Scherza teco così, come già fece
Quand'oppresse a Didone il casto seno.
XLVII. Al Tempo, Ma co' teneri morsi a lui ben lece
Stringer di quella man l'avorio terso;
Vecchio ed alato dio, nato col sole Pur non ne passa al cor fiamma o veleno^
Ad un parto medesmo, e con le stelle; Torquato Tasso.
Che distruggi le cose e ri nno velie ^,
Menare per torte vie vole e rivole ^;
' Corchi. Corichi. alliaQovelli. 'Consoli.
- Vo"i e rivoli.
LroPAUPi; Crestomazia, li. a
54 CRESTOMAZIA POETICA |
Usa t'ho per trovarlo, ed uso, ogni arte.
L. Amore che fa nido. Cercai tutto il mio ciel di parte in parie,
K la sfera di Marte, e Taltre rote
Tu parti, rondinella, e poi ritorni E correnti ed immote:
Pur d'anno in anno; e fai la state il nido. Ne là suso ne*cieli
£ più tepido verno in altro lido E luogo alcuno ov*ei s'asconda o celi.
Cerchi sul Nilo, e 'nMenfi altri soggiorni. Tal ch'or tra voi discendo,
Ma, per algenti o per estivi giorni, Mansueti mortali.
Io sempre nel mio petto Amore annido; Dove so che sovente ei fa soggiorno:
Quasi egli a sdegno prenda in Pafo e *n Per aver da vni nova
[Gnido Se '1 fuggitivo mio qua giù si trova.
Gli altari e i tempii di sua madre adorni. Ditemi: ov'è il mio figlio?
£ qui si cova, e quasi augel s'impenna; Chi di voi me l'insegna^
E, rotta molle scorza, uscendo fuori, Vo'che, per guiderdone,
Produce i vaghi e pargoletti Amori. Da queste labbra prenda
E non gli può contar lingua ne penna; Un bacio quanto posso
Tania è la turba: e tutti un cor sostiene, Condirlo più soave.
Nido infelice d'amorose pene. Ma chi mei riconduce
Torquato lasso. Dal Volontario esigilo,
Altro premio n'attenda,
LI. Amore e la zanzara. Di cui non può maggiore
Darlo la mia potenza,
Mentre in grembo a la madre Amore Se ben in don gli desse
Dolcemente dormiva, [un giorno Tutto il regno d'Amore.
Una zanzara zufolava intorno E per Istige i' giuro
Per quella dolce riva. Che ferme serverò l'alte promesse.
Disseallor, desto a quel susurro, Amore: Ditemi: ov'è il mio figlio?
Da SI piccioia forma Ma non risponde alcun? ciascun si tace?
Com'esce sì gran voce e tal rumore, Non l'avete veduto?
Che sveglia ognun che dorma? Fors'egli qui tra voi
Con maniere vezzose, Dimora sconosciuto;
Lusingandogli il sonno col suo canto , £ da gli omeri suoi
Venere gli rispose: Spiccato aver dò' * l'ali,
E tu picciolo sei; £ deposto gli strali,
Ma pur gli uomini in terra col tuo pianto, E la faretra ancor deposto e l'arco,
E 'n ciel desti gli Dei . Onde sempre va carco,
Torquato Tasso* E gli altri arnesi alteri e trionfali.
Ma vi darò tai segni,
Lll. Amore fuggitivo. Che conoscere ad essi
Facilmente il potrete,
Scesa dal terzo cielo. Ancor che di celarsi a voi s'ingegni,
lo che sono di lui re[!;iua e Dea, Egli» benché sia vecchio
Cerco il mio figlio fuRgìtivo, Amore. £ d'astuzia e d'etadc,
Quest' ier, mentre scdea Picciolo e sì, che ancor fanciullo sembra
Nel mio grembo scherzando, Al volto ed a le membra;
O fosse elezione o fosse errore, E 'n guisa di fanciullo.
Con un suo strale aurato Sempre instabil si move.
Mi punse il manco lato; Ne par che luogo trove * in cui s'appaghi;
E poi fuggì da me ratto volando, Ed ha gioja e trastullo
Per non esser punito: Di puerili scherzi:
Né so dove sia gito. Ma il suo scherzar è pieno
» lo, che madre pur sono. Di periglio e di danno.
E son tenera e molle, ' Dee. Deve. • Trovi.
icate sbadirà,
ìeDte si placa; e nel suo viso
juasi io un punto
àgrime e '1 riso.
: ha le chiome, e d*oro;
[uelia guisa appunto
3rtuua si pinge,
SECOLO DKCIMOSESTO 55
Datemi, prego, del mio figlio avviso.
Ma voi non rispondete .
Forse tenerlo ascoso a me volete?
Volete, ah folli, ah sciocchi.
Tenere ascoso Amore?
Ma tosto uscirà fuore
Da la Lingua e da gli occhi
ìghi e folti in su la fronte i crini, Per mille indizii aperti:
ì V _. ^* I. .... IVI ..u»: • j^ •:
uda ha poi la testa
opposti confini.
>r del suo volto
le fuoco è vivace.
fronte dimostra
asci via audace.
chi infiammali, e pieni
ingannevol riso,
sovente in biechi» epursotlV'chio,
di furto, mira;
I i con dritto guardo i lumi gira.
ngua che dal latte
le si discoqnpagni,
mente favella, ed i suoi delti
i tronchi e imperfetti;
inghe e di vezzi
IO il suo parlare;
le voci sue sottili e chiare.
npre in bocca il ghigno;
iganni e la frode
quel ghigno asconde,
tra fiori e fronde angue maligno.
i da prima altrui,
cortese e umile
mbianti ed al volto,
)Over peregrino, albergo chiede <
azia e per mercede:
oi che dentro è accolto,
a poco insuperbisce, e fassi
modo insolente.
)l vuol le chiavi
de Taltrui core;
:acriarne fuore
Tal ch'io vi rendo certi
Ch'avverrà quello a voi, ch'avvenir suole
A colui che nel seno
Crede nasconder l'angue;
Che co'gridi e col sangue alfin lo scopre.
Torquato Tasso,
LUI. Costumi degli uccelli.
Ma come annoverar potrò narrando
De'cari augelli le sì varie vite?
L*cstrane gru dentro l'adunco piede
Portano '1 sasso onde si folce e libra
Tra l'aure incerte l'agitato volo,
Mentre, ne'giorni nubilosi e brevi,
Lasciand'addietro il Termodonte o l' Ebro,
Passano i larghi mari, e 'n su l'apriche
Sponde soglion vernar de l' ampio Nilo.
Tal per sayorra in mar, tra' venti e l' onde
Altre rive cercando ed altre parti,
Regge '1 suo corso la spalmata nave.
Queste han di notte senlincUe e scorte,
Che,mentre l'altre in placida quiete
Dormon sicure, van girando intorno,
£ le notturne insidie, e i venti e l'aure
>'Spian da tutte le parti, impigre e pronte:
£ poi, fornita quella guardia, e '1 tempo
Di lor vigilia, a suon quasi di tromba
Deslan gli addormentati; e gli occhi al
[sonno
Danno per breve spazio: e 'n quella vece
Altri succede al faticoso ufficio.
Una precede le altre, e quasi avanti
tichi albergatori, e 'n quella vece L'alte insegne precorre: e poi si volge
nuova gente;
la ragion serva,
legge a la mente,
ivien tiranno
te mansueto,
egue ed ancide
i s'oppone e chi gli fa divieto.
ih'io v'ho dato i segni
li atti e del viso
>stumi suoi;
; puf qui fra voi,
T^cì tempo dato; e la sua sorte, e '1 loco
Che si conviene al duce altrui concede.
Dimostran mollo di ragione e d'arte
Le cicogne: e'n tal guisa, al tempo istesso.
Quasi a spiegale insegne, in queste parti
Vengon da piìi lontano ignoto clima.
£ le nostre cornici amica guardia
Lor fanno intorno, in ampio stuol con-
Eson fidata scorta al lungo volo [giunte;
Contra la forza de'nemici augelli.
£d in quella stagione in loco alcuaq
56 CRiùSTOMAzrA poet;c\
Non ci appar la coroice: e poi ritorna Là dove l'uom ricovra; e per asanza
Tinta le piume d'onorale piaghe, Al conversar uman cosi gli avvezza.
E del già dato ajulo i segni mostra. È mirabile ancor l'ingegno e l'arte ,
Deh chi descrisse lor si certe leggi Ond'a se stessa le sue proprie case
Di si pietoso officio? o chi minaccia Fa, senz'aita d'architetto o faliro:
Si grave accusa o pur sì giuste pene E le festuche pria prepara e sceglie,
A chi gli ordini infermi e '1 proprio loco E le cosparge di tenace fango
Ver viltatc abbandona in guerra o 'n Per conj'iungerle insieme. E se co'piedi
[campo? Non può in alto portar tenero limo,
Quinci prendete esempio, egri mortali; L'ali d'acqua si sparge, e poi di polve
K l'uomo impari da gli augei volanti Arida e leve; ond' ella fa di nuovo
Quai de gli ospiti sian le giaste leggi: La fangosa materia a l'umil casa.
Né chiuda avaro albergator superbo Con questa quasi colla aggiunge insieme
Le dure porte a'poregrini erranti Le già scelte festuche; e di lor forma •
A mezza notte, o lor dineghi il cibo; 11 nido a'figli. A cui se gli occhi accieca,
Se per gli estrani augelli i nostri augelli Pungendo, alcuno; ella '1 perduto lume
Non riousau d'espor la vita in guerra, A'ciechi rende con la medie'arte.
E de'perìgli altrui si fan consorti. L'alcione, del mar picciolo augello,
Ma la pietosa Provvidenza e cara, Forma di palla in guisa il dolce nido.
La qual de le cicogne è vecchia mastra. D'arido fior che '1 mare in se produce.
Destar ben può de'tìgli il dolce amore E i pargoletti figli a mezzo '1 verno
Verso gli antichi loro e stanchi padri. Da la tenera schiude e frale scorza
Quelle d'intorno al genitor languente, Ne l'arenoso lito, in cui depone
A cui per lunga età cadere a terra De Tova il caro suo portato peso.
Sogliono i vanni e le minute piume, E questo awien quando da fieri venti
Stanno pietose; e le già afflitte membra. Il mare a terra si percuote e frange;
E nude di pennute e lievi spoglie, E biancheggiando, di canuta spuma
Scaldano al volator lassato e grave Sparge le molli arene e i duri scogli.
Soavemente, con le proprie penne; De l'alcione al desiato parlo
E gli portano '1 cibo ond'ei si pasca. È sopito 'l furor d'orridi venti,
E sollevano ancora e quinci e quindi Son quete l'onde tempestose, e 'ntorno
Conl'aleil tardo veglio; e 'n questa gXiisa, Sgombre le nubi e serenato il cielo:
I^e disusate membra a l'uso antico In sì tranquillo e sì felice aspetto
Già richiamando, danno ajuto al volo. ♦De'fidi augelli a la progenie arride.
Ora prendiam lodalo e caro esempio E 'n selle prima di sì lieti giorni
Di materna pielate; e non si dolga * Suol covar l'uova la pennuta madre^
Di povertate o di miseria alcuno, Ne gli altri sette nutre i nati figli:
Ne della vita sua disperi e pianga; Ed a questi ed a quelli ha imposto il nome
Mentr'ei riguarda il magistero e l'opra Da l'alcione il navigante esperto;
De la pi^itòsa rondinella indu«lre. Ed al candor di lucido sereno
La rondinella, di minuto corpo, Da tutti gli altri gli distingue e segni .
iV5a di sublime, egregio, e chiaro affello, Lh tortorella, dal su'amor disgiunta,
Povera e bisognosa, il proprio nido Non vuol nuovo consorte e nuovo amore,
Ella medcsma pur compone e finge,* Ma solitaria e mesta vita elegge
Prezioso vie più di gemme e d'auro; In secco ramo; e'n perturbato fonte
Perchè d'ogni tesoro è vile il pregio La sete estingue: e del marito estinto
Allato a quell'albergo ove s'annida Così rinnova la memoria amara.
iLa sapienza. E ben è saggia e scaltra, A lui sua castità conserva e guarda,
Mentr'ella del volar mantiene e serba A lui di moglie ancora il caro nome:
La vaga liberiate, e nutre e pasce Perchè solver non può l'iniqua morie
1 pargoletti, ancor teneri, figli Le sante leggi di vergogni, e i patti
Sicuri da l'insidie e da gli assalti A cui s'astrinse volontaria in prima.
De gli altri augei, sotto i sublimi tetti L' aquila in allevar la nobil prole
I
SECOLO DECIMOSESTO 57
•iù d* altro disdegnosa e 'ngiustar Alta rocca a l'imperio, a Giove il tempio?
i tre figli, i due porciiole e scaccia \V Tor/j nato Tasso ^Moado creato, giornata V.
i aspri colpi de' suo* duri vanni;
rzo alleva, a cui non manchi '1 cibo LIV. Amore degli animali verso
lol rapire il predator volante. i proprii figli.
ì altra cagion più bella e giusta,
rarizia del nutrir la spinge; Amate i padri, o voi pietosi figli;
vero giudiclo onde riprova, E voi, pietosi padri, i figli amate;
i lei non convenga, indegno parto. Che natura il v'insegna, e ven costringe.
; volge i suo' figli inverso '1 sole. S'ama la leonessa, orrida belva,
li in aria ne l'adunco artiglio ; I pargoletti suoi; se '1 fero lupo
I che non d«'china a' raggi ardenti Difende 1 lupicini, e 'nsino a morte
ercossa vista e'I dehil guardo, Per lorcombatte;avràsuoinatiascherno,
trepido nel sol l'ailìsa e ferma, Più crudel de le fere, il crudo padre?
lo a prova; e gli altri aborre e sdegna, Tanto rigor, taot'oiioe tanto obblio
:om^inde^i di reale onore, Di natura sarà nel petto umano?
uel suo generoso e gran rifiuto. O del materno amor soave e dolce
i scacciati entro '1 suo nido accoglie Forza, che pieghi la feroce tigre,
i che rompe Tossa, e quinci *l nome E da la preda, a cui vicina e stanca
e (od aquila sia bastarda, e nata Corre anelando, la rivolgi indietro
QÌtor deforme, od altro augello) ; A la difesa de' suoi cari parti !
lascia perir d'orrida fame, Com' ella trova depredato e sgombro
:o' suo' figli, lor nutrisce e serba, li suo covil de la gradita prole,
itti quei ch'hanno l'artiglio adunco, Repente corre, e le vestigia impresse
eh* i figli timidetti il volo Preme del cacciator che seco porta
Q primiero, spiegan l'ale appena, i.a cara preda. E quel rapido innanzi
lai sicure ancora e 'ncerte penne; Fugge, portato dal destrier corrente :
>iagon tosto dal paterno nido : E per sottrarsi a la veloce belva [ pò),
[cimo al partir è tardo o lento, (Ch'altra fuga non giova, od altro scam*
'ali sue percosso e ripercosso Con auesta fraude d'ingegnoso ordigno
litando U caccia il fiero padre. Delude la rabbiosa, e sé difende.
. verso i figli suoi l'amore e 'i zelo Perchè di trasparente e chiaro vetro
cornice assai di laude è degno: Una palla le getta innanzi a gli occhi:
n atto di pietosa e fida madre, Onde, schernita da la falsa immago,
:na nel lor primo ardito volo La si crede sua prole ; e ferma il corso ,
:bil prole; e lor ministra il cibo E Pimpeto raffrena ; e '1 dolce parto
a stagion, perchè s'avanzi e cresca. Brama raccor nel solitario calle,
bbo anco dir come ti svegli a l'opre E riportarlo a la sua fredda cava :
noro augellin l'acuta voce, [desta E rivenuta pur dal falso inganno
unge intuona , e '1 Sol richiama, e De le mentite forme, anco ritorna
regrin, e '1 buon cultor ne' campi, (Ma più veloce assai, ch'ira l'affretta)
» al suo faticoso aspro viaggio, Dietr'a quel predator, eh' innanzi fugge;
a secar le già mature spiche ? E gli sovrasta omai rabbiosa al tergo.
come ne rompa il dolce sonno, IVIa quel di nuovo, col fallace objetto
nviti a vegghiar con fida guardia , De lo speglio bugiardo, affrena e tarda
do augel che già sottrasse al risco 11 corso de la tigrf ; e si dilegua,
an città, del mondo alta regina, Né da la madre per obblio si perde
scoprendo la notturna fraude. La sollecita cura e 'i pront' amore:
barbaro crudel, ne l'ombra occulto, Ma l' infelice si raggira intorno
>er oscure vie saliva in alto A quella vana e 'ngannatrice immago,
el suo trionfale altero monte. Quasi dar voglia a'proprii figli il latte.
;ià sorse in macstate augusta E 'n questa guisa la schernita belva
La cara prole, e la vendei tu ancora
r>^
C^ìESTOM\ZIA POETIGV
Perde in un tempo, cVc bramata e dolce. Quand* ei mirò dal gran Francesco ' o|)
E se 'n tal guisa suol amar la tigre,
O la consorte del leon superbo
del famelic'orso, i propri! figli ;
Qual meraviglia fia s*amar vedrassi
La mansueta ed innocente agnella,
K la cerva selvaggia e fuggitiva,
Il dianzi nato, ancor tenero parlo?
Fra molte pecorelle in ampia mandra
11 scmplicelt'agnel, scherzando a salti,
Esce dal chiuso ovile ; e di lontano
Ri riconosce la materna voce.
E ricercando del suo proprio latte
J dolci fonti, affretta il debil corso:
E dove sian le desiate mamme
[ porre
I Collegati a' suoi, già incauti e lassi ;
Che ne gli ordini lor passando avanti,
Sparsi e turbati fu da* Greci erranti *.
Come carca di prede armata nave,
Che trascorrea del mar tranquillo il seno
Quand'ebbe destra l'aura e più soave,
E queta Tonda intorno, e 'l cicl sereno;
Poiché si turba, e minaccioso e grave
Austro gl'innalza incontra il mar tirreno,
Teme, nel prender porto, occulto scoglio,
Ne può sforzar de' venti il l'ero orgoglio ;
Così parca quest'aste allor, confusa
Dal suo timore e per li duci incerti.
Vote del proprio umore, ei se n'appaga, Altri di terra ben munita e chiusa.
Ne sug;:[e l'altre più gravose e piene. Altri più fida in suoi guerrieri esperti :
Ma le tralascia; e '1 suo dovuto cibo II magnanimo re fuggir ricusa
Sol da la madre sua ricerca e brama. 1! periglio e l'onor de'Iochi aperti;
La madre il dolce e pargoletto figlio. Né vuol con l'oro aprir la dubbia strada,
Fra mille e mille, al suo belar conosce. Ma con la sua fatale invit-ta spada.
In questa guisa, di ragion sublime Porta e riporta invano il fido araldo
Ogni difetto un largo senso adempie, Minacce e vanti, e 'nvan promesse e pre-
Che per natura in umil greggia abbonda, [ ghi j
Forse acuto vie più del nostro ingegno. Ch'ogni core al suo prò costante e saldo,
Ma nel suo partorir solinga cerva Non avvvien che si mova alquanto o pie-
Mostra viepiù d'accorgimento e d'arte, Cghi.
D'altr'animal in cui sia parte o seme Già scioglieva i torrenti il sol più caldo,
Di providenza, e di ragione industrc.
Però piuttosto a la pietade umana
I quali il verno par che stringa e leghi ;
E '1 Taro distendea turbato e presto
De'suoi cerbiatti credfe il nuovo parto , 11 corso allor fra quel nemico e questo.
Ch' a le fere tremende; e l'aspre rupi,
E le selvagge lustre, e i lochi incultì
Fugge la paurosa; e dove scorge
Dc'pìedi umani le vestigia impresse,
Press' a le vie da lor calcate e corse,
Ivi 5Ìnura il suo portato espone;
O ne le stalle si ricovra, e scampa
Gli artigli e i denti dì selvaggia belva;
f ) dura cuna in rotta pietra elegge
Là dove s'apre un solo e picciol varco,
E i pargoletti suoi difende e guarda.
A destra il re lenea gli eccelsi poggi,
Spiegando al ciel la trionible insegna;
Ed a qualunque a lui d' incontro alloggi
Già signoreggia d'alta parte e regna.
L'altro, se vuol passar, convienche poggi
Su l'erte sponde: e '1 suo tardardisdegna,
Né stima il dubbio letto e '1 giro obbli-
[ quo
Del fiume, o'iloco a tanta guerra iniquo.
1 Padri in alta impresa e gravi e tardi,
Ch'indugiando acquistar Provincie e fama ,
Torquato r«wo, Mondo crealo^ gio/vt. T/. Esteser fra gli Argivi e fra i Lombardi
11 giusto imperio che s'onora ed ama ' ;
\y . Ln battaglia del Taro, fra le Lcnlaro il freno a' suoi guerrier gagliardi;
genti di Carlo ottavo, re di Fran- Ed a quella di gloria ardente brama :
eia , e quelle de* Confederati ita- E parve il gran Francesco in mezzo al
[campOi
E ne* delti e ne l'opre, acceso lampo.
liani.
Gì un t'era dove il Taro al Po sen corre
Il re, cui d'aspri monti orridi sassi,
O città chiusa d'alte mura, o torre,
O schiere armate non serraro ì passi:
' Fraacesco Gonzaga^ marchese di Mantova;
generile dui Veneziani.
2 D.igli stradiolti dei Veneziani.
^ Vuoi dire il senato veuelo.
SECOLO DECLMOSESTO 39
Dicea: partirà dunque ornai sicuro Ritardò*! fiume il corso, e *i novo limo
Questi che fugge Italia ; anzi la porta Fé dubbii i passi, e le vestigia incerte.
Presa oltra 1* Alpe ; ove aspro giogo e Languendo, al trapassar, vacilla il primo
[ duro Sforzo, cui rapid'onda in se converte.
Già le prepara, e leggt iniqua e torta? L'arme vibrar Tassalitor da Timo
Quasi ladron notturno, al cielo oscuro, Per le rive non può scoscese ed erte:
Che serrato non trovi od uscio o porta, Ma d'alto il difensor percuote a basso :
Porterà le corone e gli aurei fregi Talch'è varco di morte il duro passo.
E tante prede di spogliati regi ? Spuma il torrente, e di sanguigno flutto
E potrem noi soffrir che pur ritornì, Gonfio, vie più veloce al Po discende.
Di là da' suoi nevosi orridi monti, Ma virtù soffre alfine e vince il tutto,
Ove le sue vittorie, e i nostri scorni, K per contrasto avanza e più risplende;
£ gli oltraggi d'Italia altrui racconti? £d uscirla di Stige al lido asciutto.
Ne sarà chi *1 ritardi, o chi *1 distorni ;^ E da quell'onde ch*atra fiamma accende,*
Ne chi l'assalga, o '1 fuggitivo affronti; Onde, poggiando, alfin le rive ingombra:
Perch' ei salvi sue prede, e quella turba, £ *n tre lati si pugna, e 'n mezzo a Tom-
Che, poco ripesando, altrui perturba ? [ bra.
Star non potran fraTAlpie fra Pirene, Fra le piante impedito, iniquo e scarso
Qnai fere chiuse entro selvaggi chiostri? Campo ha '1 valor de*nostri, e meno ap-
Ma parran turbo di volanti arene, [ pare :
gran diluvio, sopra i campi nostri? Ma di lor sangue, ond' è 'l terreno sparso,
Tronchiamo al ritornar Tardità spene; Non fur quell'alme gloriose avare:
£ qni ciascuno il suo valor dimostri; Quando Francesco a gli animosi apparso,
E Titalico onor, ch'è quasi estinto, Vento sembrò , che M ciel perturbi e 'i
Per voi risorga, vincitor di vinto. [ mare,
Numero lor non vi spaventi, o forza E volga a forza a le contrarie sponde.
Impetuosa; che poi langue e manca. Contra '1 corso primier, le nubi e Tonde.
Carchi di preda più che d'armi, a forza AI primo ch'incontrò, l'invitta lancia
Faràn qui guerra: egià lor furiaèstanca; Trapassa il petto e poi fra gli altri fere \
Già di fuggir, non di pugnar, si sforza, Tanto che s'apre il passo al re di Francia,
Già presa è dal timor la gente Franca. Fra i colpi e l'armi de l'avverse schiere.
Prendiam la Francia or ne l'Italia al varco, £ s' a' meriti altrui giusta bilancia ■
Col re, che non sostiene il proprio incarco. Ila '1 sommo Ra de le celesti sfere,
Passiam per questo fiume, il qual fre- Quel dì, ch'ei tanto fece, e più sostenne,
[ mendo, Corona d'alta gloria a lui convenne.
Da la vittoria i suoi scevra e diparte ; In poco spazio fé mìrabìl cose
Ch'io sono vosco al guado,e vosco ascendo: Incontra Carlo e 'l suo drappcl gagliardo.
Seguiran gli altri, de la gloria a parte. Che dirò prima o poscia? A morteci pose.
Così diss'egli, e con un suono orrendo Trafitto da sua spada, il gran Bastardo ;
Fiammeggiar lutti i folgori di Marte , E qual de gli altri al suo valor s'oppose.
Ed in quel tempo risonar le trombe ; Parve a fuggir la morte e lento e tardo ,*
Onde avvien che la terra e '1 clelrimbom- £ spogliata lasciò la fronte e *l lato
[ he '. Di sue forti difese al re turbato.
Scendeanoi Franchi intanto,* e, 'n guisa Voi, Muse, voi corone e rime ordite
[ d'ale, rPerchè'lmiocantoatalrimbomboèroco),
Steodeansi ì primi a quel corrente fiume; Cantando voi com'ei le schiere ardite
E'I granl'rivulzio, a cui di gloria eguale Percosse , ruppe e sparse in alto loco.
Pochi Tetà famosa oppor presume. Laddove uscir da la profonda Dite
Facca la scorta al re, già lasso e frale, Pareano i fiumi del sulfureo foco ;
Ch'or vincea sua natura e suo costume, E, giunto in mezzo a la sonora fiamma.
Ma i nostri pria varcar dal lato destro Quell'incendio cessò, che'l mondoinfiam-
In quel guado sassoso^ e quasi alpestro. [ ma.
• RiniDombi. ' Ferisce.
40 CRESTOMAZIA POf'.TlGA
Tolse i fulmini a Francia , e tolse a Passato il terzo di, notturno e cheto
[ Carlo Mosse le genti il re per l*aria bruna; .
In piccol tempo i suoi guerrier più forti. K tenner quasi il suo partir secreto
Ella medesma ' sa cV il vero io parlo ; Gli alti sìlerizii de la bianca luna ;
Benché si glorii d'onorate morti; E, gemendo, ctdeo ' senza divieto
Clic potè appena al suo valor sottrarlo : La sua vittoriosa alta fortuna.
Cotanto variar venture e sorti*, Restavan gli egri abbandonati in guerra,
Francesco in gran periglio ivi si scorse, Ne morti gli copria l'estrania terra.
E *nvitto cadde, e vincitor risorse. Ebbero i nostri onor di tomba e d'arca,
D'atro sangue la terra ancor si tigne E dorati metalli, e bianchi marmi;
Là 've pugna il Trivulzio incontra l'alto E '1 colpo de l'avara invida Parca
Sanse verino, e '1 Fortebraccìo astrigne Fu lagrìmato in più sonori carmi.
D'altro lato e 'l travaglia in fero assalto: Non si mostrò Venezia ingrata o parca
Ne pur le rive, tepide e sanguigne, [to; A l'ouor di Francesco, almerto, a l'armi:
Cangiato hanno in vermiglio il verde smal- Corse il suo nome oltre Apenni no ed Alpe,
Ma, de l'orrida strage il Taro immondo, Ne fur mete a la fama Abita e Calpe.
Armi volge e cavalli, e preme al fondo. Torquato Tasso, Genealogia
Tema ed orrore in mezzo , e lutto e della casa Gonzaga.
[ duolo ,
E morte intorno trionfar si mira. LVI. Intorno a un ritratto di
La vittoria tra lor con dubbio volo Torquato Tasso.
Sospesa pende, ed ora a'Franchi il gira,
£ talor passa nel contrario stuolo; Amici, questi èilTasso(iodicoU figlio)
Ed a l'onor d'Italia intenta aspira; Che nulla sicuro d'umana prole *;
Ed a quella del mare alta regina ', Ma fé parti più chiari assai del sole,
£ più de gli altri al suo Gonzaga inclina. D'arte; di stil, d'ingegno e di consiglio.
Ma sin da prima la ritenne e torse Visse in gran povertade, e in lungo
Il leggier Greco, a le rapine intento ; [^siglio;
Che da la pugna a depredar trascorse Ne'palagi, ne' tempii e ne le scuole:
Del tesoro del re l'oro e l'argento, Fuggissi; errò per selve inculle e sole;
E le corone di Ferrando ^; e 'n forse Ebbe in terra, ebbe in mar pena epeiriglio.
Da poi più tenne il tardo ajuto e lento: Picchiò l'uscio diMorte; e pur la vinse,
Ch'oltre le rive attese, e sol comparve; Or con le prose, or con i dotti carmi;
Ma de l'altrui vittoria invido parve. Ma Fortuna non già, che'ltrasseafondo.
Alfin da la battaglia il re de'Franchì Premio d'aver cantato amori ed armi,
A più sicuri poggi i suoi ritrasse, E moslro ^ il ver, che mille vizii estinse,
Di ricca preda già spogliati, e stanchi; È verde fronda. E ancor par troppo al
Come pur nulla incontra i nostri osasse. [mondo ^ !
L'altro, benché fori una al valor manchi, Costantini.
A le sue genti assai ferite e lasse
Nulla mancò; ma le raccolse insieme, LVII. A un uccellino.
E passò 'l guado a più sicura speme.
Ei piange il suo nidolfo, e piange an- Vago augellin gradito,
[ Cora Ch'a me dinanzi uscendo,
De l'orba sua milizia i lumi estinti; Di ramo in ramo ti ricovri e passi,
E '1 re di varie morti anco s'accora: E, quasi in dolce invito,
E questi e quei son vincitori e vinti. Cari accenti movendo,
E poi, sorgendo, la vermiglia aurora Per questo bel sentier mi scorgi i pasji;
Non gli ritrova a l'alta impresa accinti ; r r a t
Ma'n consiglio si spende il tempo dubbio; a ciofdi centrar malrimonio, e da quello
E ciascun uova tela avvolge al subbio. aver figli. » Mostrato.
' La Francia. ^ Venesia. *• Questo verso e del Tasso medesimo, dal
' Di Ferdinando re di JVapoli* quale il sonetto fu ritoccato.
I
SEGOLO DrCIMOSESTO ^l
Felice te, cui dassi
Menar i giorni e Tore LVIII. Alla luna.
in così bel soggiorno.
Che spira d'ogn'intorno, Perchè con sì sottile acuto raggio.
Con meraviglia altrui gioja ed amore. Cìntia, a spiar per l'ombra folta passi
Or qual albergo al mondo Dove Filli mia bella or meco stassi
Potresti aver più dolce e più giocondo? Sotto questo frondoso antico faggio?
Folti boschetti e lieti, Forse,cercato il tuo pastor, ch'oltraggio
Coi dolce aura ognor fìede, Ti fa, tardo vèr te movendo i passi;
Dal Sol ti prestaa refrigerio ed ombra; Qui gli occhi ancor, per ritrovarlo, ab-
E dentro a'ior secreti [ bassi,
Ciascun t'invita e chiede £ sospettosa in ciel fermi il viaggio?
Allor che '1 sonno ogni animai ingombra. Vano è 'l timor: se pur timor ti prese
n digiun poi si sgombra In sul primo scoprir de'furti miei,
Per campagne feconde. Me credendo colui clic 'I cor l'accese
l>ì qnal cibo più curi: (^hè per Endimion fuor del mio laccio
E se di ber procuri, Filli non uscirla; ned io torrci
Con man cava lor fresche e lucid'onde Gioir, Diana, a te più t^sto in braccio.
Ti porgon liete e pronte Celio Ma^no-
Le vaghe ninfe p^^nor del vicin fonte.
Deh l'ali avessi anch'io, LIX. Pensiero di morte vicina.
Quàl tn, da girne a volo,
Librando in aria il mio terrestre peso: Me stesso io piango , e de la propria
Ch'appagherei '1 desio [ morte
Quasi ad un guardo solo, Apparecchio l' esequie anzi eh' io pera;
Di tulio quel ch'a gli occhi or m'c conteso . Ch' ognor in vista fera .
Poi me n'andrei giù sceso M'appardavanli,e'lcor di tema agghiaccia;
Per la propinqua valle. Chiaro ìndicio che già l' ultima sera
£ per questo e quel colle. S'appressi, e 'ì fin di mie giornate apporle' .
E colà dove estolle Né piango perchè sorte
Quel monte al ciel le sue frondose spalle; Larga e benigna abbandonar mi spiaccia:
Dietro a cui) mentre scende. Ami or con più che mai turbata faccia
Già '1 Sol mezzo si cela e mezzo splende. Fortuna provo a farmi oltraggio intenta.
Rimanti pur, Canzon, con questo au- Ma se in colai pensier l' aqima immersa
Qui^ fra letizia e gioco: [gello Geme, e lagrime versa.
Che men dolce ti fora ogni altro loco. £ del suo amalo nido uscir paventa ;
Natura il fa; che per usata norma
L' imagine di morte orribil forma.
Non fuggir, vago augello; affrena il volo, l^sso me, che quest'almo e dolce lume ,
Ch' io non tendo a' tuoi danni o visco o Questo bel ciel, quest'aere onde respiro,
Che, s'a me libertà cerco e quiete, [relè: Lasciar convegno; e miro
Por te non deggio in servitute e in duolo. Fornito il corso di mìa vita ormai:
fien io fuggo a ragion nemico stuolo E V esalar d' un sol breve sospiro
Di gravi cure in queste ombre secralc; A' languid' occhi eterna notte adduce:
Ove sol per goder sicore e liete Né per lor mai più luce
Poch'ore teco, a la città m'involo. Febo, e scopre per lor più Cintia i rai.
Qui più sereno e '1 ciel, più l'aria pura, K tu lingua, e tu cor, ch'i vostri lai
Più dolci l'acque; e più cortese e bella Spargete or meco in dolorose note ;
L'alte ricchezze sue scopre Natura. E voi, pie , giunti a' vostri ultimi passi;
O mente umana al proprio ben rubella! Non pur di spirli cassi
Vede tanta sua pace, e non la cura; Sarete, e membra d'ogni senso vote;
£ stima porlo ov'ha flutto e procella. Ma dentro a la funesta oscura fussii
Ceiio Magno, T Apporli.
42 CRESTOMAZIA. POETICA
Cangiati in massa vii di poWe e d'ossa. Servo a se, noto altrui, caro a me stessa.
O di nostre fatiche empio riposo, Onde umii corsi ov*io sentii chiamarmi,
£ d'ogni uman sudor meta infelice ! A più nobil cammin volgendo il piede.
Da cui torcer non lice Così a l'ardente fede
Pur orma ; ne sperar pietade alcuna. Pari ingegno e valor fosse concesso,
Che vai perch' < altri sia chiaro e felice pria si degno peso a me commesso:
Di gloria , d*avi, o d* oro in arca ascoso, Che saldo ' aìmen sarebbe in qualche parte
E d' ogni don giojoso L'infinito dover che Palma preme.
Che natura può dar larga, e fortuna; Quinci in quest'ore estreme
Se tutto è falso ben sotto la luna, Ella con maggior duol da me si 'parte:
E la vita sparisce a lampo eguale. Ch'ove a l'obbligo scior la patria invita,
Che subito dal cielo esca e s'asconda? Non pon ^ mille bastar, non ch'una vita.
E s' ove è più gioconda, Dunque s' ora il mio fil trónca la dora
Più acerbo scocca morte il crudo strale? Parca, quanti ho de' miei più cari e fidi
Pur ier, misero, io nacqui; ed oggi il crine Amor cortese guidi
Dineve hosparso, e già son giunto alfine. Al marmo in ch'io sarò tosto sepolto;
Né per sì corta via vestigio impressi E la pietà che in lor mai sempre vidi
Senz'aver di mia^orte onde lagnarme >: Qualche lacrima doni a mia sventura.
Che da l'empia assaltarme^ E se pur di me cura
Vidi con alte ingiurie a ciascun varco. Ebbe mai Febo, anch' ei con mesto volta
Contro laqual da pria non ebbi altr'arme, Degno mostrarsi ad onorar rivolto
Che lagrime e sospir da l'alma espressi: Un fedel servo, onde. la morte il priva.
Poi de' miei danni stessi Prestin le Muse ancor benigno e pio
L' uso a portar m' agevolò l' incarco. Officio al cener mio:
Quinci a studio non suo per forza l' arco £ su la tomba il mio nome si scriva ;
Bivolto fu del mìa debile ingegno, Acciò, se il tacerà, d'altro onor casso,
Tra'l roco suon di strepitose liti: La fama, almen ne parli il muto sasso.
Ove i di più fiorili [ gno; Andresti e tu più eh' altri a£Glitto e
Spesi: e par che il prendesse Apollo a sde- [smorto
Che, se fusser già sacri al suo bel nome, A versar sovra me tuo pianta amaro,
Forse or di lauro andrei cinto le chiome. Mio germe unico e caro;
Ma qual colpa n'ebb'io, se'i Cielo av- S'in tua tenera età capisse il duolo.
[ verso Ahi, che simile al mio destino avaro
Parche maisempre a'bei desir contenda? Provi:ch'a pena anch'io nel mondo scorto*
E virtù poco spleuda Piansi, infelice, il morto
Se luce a lei non dan le gemme e l'oro? Mio genilor, restando orbato e solo.
Ne quanto il drillo e la natura offenda Misero erede; a cui sol largo stuolo
S'accorge il mondo in tal error sommerso? D'affanni io lascio, in pura povertade.
Al qual anch' io converso, Chiudendo gli occhi, oimè ,da te lontano,
De le fortune mie cercai ristoro: Porgi, o Padre sovrano,
Ben che parco bramar fu'l mio tesoro," Per me soccorso a l'innocente etade:
Con l'alma in sé di libertà sol vaga, Ond'ei securo da'miei colpi acerbi
E d'onest' ozio più che d'altro ardente; Viva, e de l'ossa mie memoria serbi.
Resta talor la mente, Celio Magno,
Quasi per furto, infra k Muse paga;
Che de' prim'anni miei dolci nodrici, LX. Apparecchio di un pranzo
Fur poi conforto a' miei giorni infelici. ^ rustico.
Un ben, eh* ogni mal vinse, il Ciel mi
C diede, Entrato nel tugurio, e giù deposte
Quando degnò de la sua grazia ornarmi Le lurid'arme sue ^, tutto si diede
L'alta mia patria ^ e farmi , Saldato. a Ponno. Possono.
* Che, ^ Lagnarmi. ^ CjnJoUo,
3 Assallarmi. 4 Vcneaia, 4 Gli stromeati da lavorare la terra.
SECOLO DECIMOSESTO 45
A prepararsi il consueto cibo. Aspergendola sempre a snolo a snolo.
£ prima ciol fncil la dura selre E per non tralasciar cosa che d*(Mpo
Spesso rìpercotendo, il seme ardente Fosse per farla delic.ita e cara;
De la fiamma ne trasse; e lo raccolse Mentre fumava ancor, sovra v'infuse
In arido fomento; e perchè pigro Di butirro gran copia; che dal caldo
Gli pareva e iangoent^, il proprio fiato Liquefatto, stillante, a poco a poco
Oprò per eccitarlo; e di frondosi Penetrò tutto il peuctrabil corpo, [vaso,
Nudriilo aridi rami. E quando vide Condotta al fin quest' opra, e posto il
Che in tutto appreso avvalorossied arse. Così caldo com'era, appresso al foco ,
Cinto d*un bianco lino, ambe le braccia Provido ad altro attese. £ volto il piede
Spogliossi fino al cubito; e lavato Là *v' egli larga pietra eretta avea
Che dal. sudore ei s'ebbe e da la polve Sotto una grande e tortuosa vite,
Le dure mani, entro stagnato vaso. Che copria con le fronde un vicin fonte,
Che, terso, di splendor vincea l'argento, D'un panno la coperse, in guisa bianco,
Alquanto d'onda infuse, ed a la fiamma Che l'odor del bucato ancor serbava.
Sovra a un punto locollo ove tre7>iedi Quinci il picciol vasel sovra vi pose
Di ferro sostenean di ferro un cerchio. Ove il sai si conserva, e *1 pan, che dolce
Gittovvi poi, quando l'umor gli parve Gli era e soave, ancorché negro e vile.
Tepido, tanto sai, quanto a condirlo Di molte erbe odorate e molti frutti
Fosse bastante: e, per non stare indarno, Carcolla al fin, che l'orticel cortese
Mentre l'onda boliia, per fissa tela Ognor dispensa.* e da l'armario tolse
Fece passar, di setole contesta, La ciotola cajpace, e '1 vaso antico
Di Cerere il tesor, che in bianca polve Del vìn, cui logro avea l'uso frequente
Ridotto avea sotto il pesante giro H manico ritondo, e rotto in parte
De la volubil pietra; indi partendo Le somme labra onde il liquor si versa.
Con tagliente coltel rotonda forma Preparato già il tutto, ed ornai stanco
Di grasso cacio, che da'topi ingordi Del lungo faticar; poi cbe le mani
£i difendea dentro fiscelle appesa Tornato fu di novo a rilavarsi.
Al negro colmo, col forato ed aspro Acrostossi a la mensa; e tutto lieto.
Ferro tritollo. E cominciando ornai Cominciò con gran gusto a scacciar lunge
L'acqua d'intorno a l'infiammato fianco Da se l'ingorda fame, e l'importuna
Del vaso a gorgtigliare, a poco a poco Sete, spesso temprando il vin con l'onda
S'adattò con la destra a spargervi entro Che dal fonte scorrea, gelida e pura. '
La purgata farina, non cessando Baldi, Egloghe,
Con la sinistra intanto a mescer sempre
Li farina e l'umor con saldo legno. LXI. La madre di famiglia.
Quando poi tutta di sudor la fronte
Aspersaegliebbe, e '1 bianco e molle corpo Lasciatoaveal'autunnotl giusto impero
Cominciò a diventar pallido e duro; A l'aspra tirannia del crudo verno,
Aggiunse forza a l'opra, e con la destra Che le chiome scotendo ispide e bianche,
A la sinistra man porgendo aita, Spargea di neve i colli e con l'orrendo
Per lo fondo del vaso il legn i intorno Fiato sembrar fea di cristallo i fiumi;
Fece volar con più veloci giri: Talché ncm era a gli augcUetti schermo
Fin che vedendo omai quella mistura La piuma, ed a le fere il folto pelo:
Nulla bisogno aver più di Vulcano, Ma quei di qualche quercia, od olmo, o
Preso un bianco taglier di bianco faggio, Si vedean ricovrar nel cavo tronco: [salce
Fecene sovra quel rotonda massa: Queste, arricciate e rabulfate il dorso,
E ratto corso là dov'egli avea Ripararsi fuggendo entro il più chiuso
Molti vasi disposti in lunghe schiere, E cupo sen de le montane grotte:
Un piatto sovra tutti ampio e capace Deirtro le calde stalle, armenti e gregge
Indi tolse, ed il terse; e con un filo Stavansi ruminando il secco fieno,
Ritroncando la massa in molle parti, Che '1 provido bifolco apprestò loro
Il piatto ne colmò, di trito cacio Sotto il coverto letto al m'glior tempo.
Ai CRESTOMAZIA POETICA
Insommaognun.per non provar l'estremo Pria dunque ti dirò come ta deggia
Rigor de la ^lagion, chiuso si stava Portarti come moglie, ed adempire
Od in riposto speco, o 'n caldo albergo. L'uffizio che s'aspetta a buona moglie.
Or io fra gli altri, Aresio e 'Ibuon Mon- Fra le principal cose che parere
[lano, Fanno acerba la vita di coloro
Ambedue d'età grave, ambo consorti Che maritati sono, è la discordia,
Ne l'opre de la vita, avendo sazio La qual, se ben taloi; vien da'mariti
Con povere vivande e bnive cena Strani, crudi e superbi, spesso nasce
Il naturai desìo, faceau corona Anco da noi troppo leggiere e stolte
Con la lor famiglinola a picriol foco: Ed ostinate, che, non conoscendo,
E in tanto i dolci figli ivan facendo Né conoscer volendo il nostro stalo.
Inganno al sonno, che fra '1 troppo cibo Non vogliam secondarli, anzi al contrario
Vie più che fra '1 digiun, furtivo serpe^ Sempre mostrarci a lor ritrose e dure.
Perchè di paglia Tuno o bianco salcc La prima parte dunque de la donna,
Lunga treccia tessea, per farne il giro Che brama vita fortunata e lieta.
De l'estivo cappel; l'altro di giunchi È Tesser mansueta, e con dolcezza
Fabricava fiscelle, ove dovea Saper portar l'imperio del marito.
Stringer in duro cacio il molle htte: La seconda è, ch'ella rimetta a lui
De le figliuole poi questa li chioma De le cose di fuor tutto il pensiero,
A la rocca traea, rotando il fuso; Né si curi più là di quel che chiude
Quella con lungo canto iva allettando 11 giro de la casa: esser tua cura
Il pargoletto al sonno entro la runa. Deve i.l fuso, il lelajo, la Conocchia,
Ed era ornai de la nojosa notte La lana, il lin, le gallinelle, l'uova;
Scorsa non poca parte, e cominciava II dar legge a le serve, e '1 poner mente
A dormir dolcemente il vecchio stanco, Che nulla manchi a i piccioletti figli.
Quando la saggia Aresia in questa guisa Perchè non altramente fora brutto
A la maggior sua figlia a parlar prese: A la donna trattar consigli ed arme,
Cara figliuola mia, perchè tu sei Cose che sol s'aspettano a'mariti.
In quella e tate omai che vi fa peso Di quel che fora obbrobrioso a l'uomo,
Sembrare a'genitori, e non sostegno. Se, non si ricordando d'esser nomo.
Per non mancare a quell'amor che sempre Lavar volesse i panni, i vasi, e 'l filo
Ti portai da le fasce, or che tuo padre Star al foco torcendo, e ordir le tele.'
T'ha promessa per sposa ad Aristeo Quando fosse però che ti chiedesse
Quivi nostro vicin figlio d'Eurilla, Compagna ne'consigli, io non t'esorto
Voglio innanzi le nozze^ ed ora appunto A ricusarlo, anzi ubbidirlo in modo
Che mi sowien, mostrarti alcune cose Che consigliando, di seguir tu mostri
Che tu debba osservar quando sarai Non il consiglio tuo, ma il suo parere.
In casa sua padrona e madre e moglie. S'avverrà poi, sì come spesso avviene,
E vuo'seguir in ciò leco mia madre. Che fra '1 consorte e te contrasto accaggia,
Che meco fé l'islesso uffizio prima Non vuo' che tu il bandisca, e ti lamenti
Che moglie io divenissi; e sì mi sono Con le vicine tue, con le comari;
Utili state le parole sue, Che non ad altro fin fatta è la casa,
Che mai di lei non mi ricordo, ch'io Ne per altro ha la casa e mura e porte,
Non le preghi riposo e pace a l'alma. ^e non perchè non sian de'falti altrui
Attendi dunque e nota. Il nostro sesso. Giudici e spettator le genti esterne.
Se col viril si paragona, è sesso Io voglio, olirà di ciò, che d'ogni ingiurìa
Che tien assai de l'imperfetto e vile: Ti dimentichi affatto; che la moglie
Onde^s'a quel non s'appoggiasse, appunto Che di tutte l'ingiurie si ricorda,
Foìra qual vite scompagnala e sola. Mostra d'esser non moglie, ma più tosto
Che senza portar frutto in terra serpe. Fierissima nemica: io chiamo il cielo
Come dunque le viti a i salci, a gli olmi In testimonio, e te figliuola, ch'io.
Si sogliono appoggiar, così le donne Benché potuto avessi, al mio Montano
51 deoQo appoggiare a i lor mariti. Mai non rinfacciai uuìia: impara dunque
SECOLO DECIMOSi:STO 43
Anco tu a far Tislesso. Un altro vizio Da tutti, e da color che non sapeano
Regnar suol fra noi donne , e questo è Di qiial casa si fossero, tenute
[ l'odio Per donne disoneste: indegna cosa
Che per lo più si porta a padri, a madri. Coprir il hel natio con la bruttezza
A fratelli, a sorelle, e *n somma tutte De le bellezze finte. Or dimmi un poco,
Le genti del marito: vizio infame , Figlia, quale più vago, unfiore, un pomo
Vizio indegno di donna, che di donna Preso dal proprio ramo col colore
Aver procuri il nome: or bench* io stimi Che lor comparle la natura e '1 sole,
Te saggia si, che senza il mio consiglio Ovver un altro, benché da buon mastro
Tu sia per schivar ciò, pur tei ricordò, Col pennello imitato? io credo certo
Perchè tu sia più cauta; e più mi giova Ch'ogni >aggiouoiT)y che coVolori intende
Di dirti oltra il bisogno, che lasciare D'acquistar fama dipingendo, tanto
Cosa veruna a dietro. Onora ed ama Stimi di meritar lode maggiore,
£ riverisci e suocere e cognati, .Quanto meglio imitar sa la natura.
E pòrtati con loro in quella guisa Or^ se color natio vince il dipinto,
Che tu vorresti eh' altri si portasse Se perfetta maestra è la Natura;
Teco, sendo tu suocera e cognata. Perchè creder vorrem ch'in noi s'accresca
Sovra tutto a temer t'esorto, o figlia, La beltà naturai con la dipinta?
La fama rea, che s'una volta sola Sian dunque i tuoi belletti e i lisci tuoi
Si sparge per le bocche, in vaa si tenta La pura arqua del fonte, onde ti lavi
Di ricovrar la buona: in guisa tarde £ la faccia e le mani ogni mattina.
Son le lingue al ben dire, e preste e pronte Non ti biasmcrò già se tu li specchi
A i biasmi, a i disonori, a i vituperi. Qualche fiata : che lo specchio al fine
Onde, pur fuggir ciò, non vuo'che solo C'>sa è da comportar, lutto che spesso
Secretezza tu cherchi (che di rado Accresca in noi la vanità natia.
Giova esser cauta a donna disonesta). Tanto sia detto intorno a gli ornamenti,
Ma che tu viva si, ch'indi proceda E 'i viver come moglie: alquanto avanti
Il parer a le genti onesta e buona: - Trapassar mi convien, poi che le nozze
Buona e onesta sarai, quando non tanto Ordinate non fur, perche le donne
Prezzerai gli ornamenti e la bellezza, Sol divenisser mogli, che ciò fora
Quanto i'esser modesta e vergognosa. Spezie di servitù, ma perchè quinci
Queste son quelle lodi, o cara figlia, Ne divenisser madri: il figlio è frutto,
Che non fuggon con gli anni, anzi qual oro (Se noi sai) de le nozze, e questo frutto
Non temon de la ruggine e del tempo. £ dolce sì, che la dolcezza sua
Siche, se queste gemme tornemuno, Può temprar mille amari, ond'è condita
Poco curar dovrai di quelle gemme La gravidanza e '1 maritale stato.
Che le giovani vane hanno in più stima Lascio chea noi, che padri e madri siamo^
Spesso, che l'onor vero e 'l vero bene. Reca estremo contento il veder nati
E se ben il tuo grado non ricerca £igli de'nostri figli, e molto tempra
Che d'ostro t'orni e d'oro, essendo nata La doglia del morir, riconoscendo
In stato umil, pompa però soverchia Noi stesse ne'nipoti in cui speriamo
Fora la tua, se superar volessi. D'aver morendo una seconda vita.
Col povero vestir, l'altre che sono Però, se fia che Dio ti faccia madre,
A te di grado e di bassezza eguali. Odi quai sian di madre diligente
Oltra il vestir, d'uu'altra cosa ancora Le parti. Nato il figlio , a me non piace
Debbo avvisarti, che non poco importa. Che 'l costume tusegua ingiusto ed empio
E questo è che giammai tu non ti creda Di quelle donne eh' a' figlinoti loro,
Che la bellezza che ne dà Natura Che nel venire portar, negano il latte.
S'accresca co i belletti e concolori, [chia, Ben vediam tutto il dì molti animali
Che nulla è meno il vero: io che son vec- Gli altrui parti nudrir, ma non vediamo
Ho conosciuto molte, che, volendo, Però mincara'propri: or qual piùalpestre
Benché belle per se, parer più belle Fera è de l'orsa? e pur verso i suoi figli
Con questi lisci, eran mostrate a dito Tenera è sì, che la salute loro
46 CnKSTOMAZIA POETICA
Stima assai più che la sua propria vita. Abbandoni le piume; che il fidarsi
In tutto nega dunque d*esscr madre £ Tesser sonnnaccbiosa son due cose
Chi nega a'iigli il latte, e 'n tutto nega Che mai non partoriscon se non danno.
J)'csscr donna colei che d'ogni fera Non so che dirti più, perchè mi pare
È centra i propri tigli assai più fiera. D*aver detto abbastanza, ed a te tocca
Impara dunque ad esser donna e madre , D'osservar quanto udisti, e ricordarti
Donna e madre pietosa : io mm vorrei Che chi consiglio ascolta e non sen vale,
Però che per soverchia tenerezza Senza suo prò da sezzo alfìn sen pente.
Gli allevassi vezzosi e delicati ; Qui tacque Aresia; e perchè già s'odia
Perchè, se ciò disdice a'cittadini. Cantar per tutto il vigilante augello
Come a noi starà ben, che nati siamo Che de la mezza notte altrui dà segno,
A continue iàtiche e non abbiamo E già mancato in tutto a l'unta e negra
Riposo mai ne '1 giorno, né la notte? Lucerna era il liquor che nudre il lume,
I maschi sian tua cura, in fin che il passo Del foco avendo le reliquie estieme
Movan più fermo, e possan con la verga Sotto il tepido cenere coverte,
Cacciar al pasco il mansueto armento; Senza più dimorar, le membra al sonno
Che da quel tempo in su del padre dee In preda dier sovra l'usate piume.
Ec>ser uffizio Pinsegaargli quello Baldi , Egloghe.
Ch'a lor s'aspetti, e castigargli, quando
Pertinaci ei gli truovi o negligenti. LXII. Segni della tempesta
De le femmine poi la madre sempre e della serenità.
II pensier aver dee, ne pur lasciarle
Giammai d'no passo, se gelosa è punto La luna e'I sol mirasti: or volgi il guardo
De l'onor proprio, e ciò fin che cresciute A'più minuti lumi, e i segni impara
A l'età più matura, il padre prenda Che ti mostra fedel l'antica notte ;
Cura di maritarle, a cui s'aspetta , La notte, in cui pietate allor si desta
Non a la madre, il ricercar partito Che gl'infelici naviganti scorge
Conveniente al grado ed a la dote. Fra Tonde errardispersi; e il mesto snono
Perchè poi l'esser data ad Aristeo, Le fere ' il cor de'lagrimosi accenti.
Che per uomo di villa è ricco assai, Se dunque osserverai ch'ella ti scopra
Farà che tu terrai famigli e serve; Il suo stellato aitar di nubi scarco
T'insegnerò come portar ti deggia Uve l'altro sercn * d'acquoso velo
Con lor, se brami d'acquistarne il nome Sia ricoperto, affretta al fido porto,
Di padrona amorevole e prudente. Mentre cede al governo ancor la vela,
Sarai dunque con lor per mio consiglio Biedi ; che , se noi fai , del mar, che a
Non aspra, non crudele e non superba, [ scherno
Né troppo anco piacevole; che quello Avesti, andrai misera preda, e 'ndarno
Partorisce odio estremo, ed è cagione Dirai felice e fortunato a pirno
Di licenza quest'altro, e di disprezzo: Quel cauto marinar che allor non sciolse,
Dunque al mezzo t'appiglia, e giungi in- Né por si volle a sì palese risco.
L'esser con lor piacevole e severa, [siemr Ma se mentre è il Centauro in mezzo il cielo,
Avvertisci anco di non esser mai L'omero avrà di breve nube carco ,
Scarsa con lor del meritato cibo, E fia l'Aitar, come già dissi, ardente;
E del dovuto premio, essendo queste D'Austro non s'abbia tema,* anzi da'regni
Sole e prime cagion di far che i servi De la lucida aurora Euro s'attenda.
Non curino tesor di libertade. Fie ^ ancor d'irato ciel non dnbio segno
Non ti fidar di lor; che nulla è peggio Quando le chiare stelle a poco a poco
Del fidarsi de'servi, de'quai s'uno Perdendo andranno i luminosi rai :
Fedel tu ne ritrovi, é sorte, e quasi E se quando la terra abbraccian l'ombre,
Contro natura: abbi pur sempre l'occhio Cadere altra di lor vcdrassi, seco
A le cose più care; e se non vuoi Lungo traendo e sfavillante solco,
Esser fraudata, n<m lasciar che alcuno » Ferisce. a Cioè il resto del cielo»
Di lor dopo te vegghi, e di te primo s Fi». Sarà.
SECOI.0 DECIMOSESTO 47
ri venti intempestivo assalto I due figli di Leda, amiche stelle,
tella parte moverassi dove Sì che se quando a te mostran cortesi
, cadendo, il lucido sentiero. La luna, il sol, le stelle, il mar e '1 cielo,
izi il soffiar de'fnriosi venti ' Contemplerai; rare fiate incerto
nmove l^ettuno, e col muggito Sarai di quei ch*£olo e Giunon prepari,
igc rimbombar le curve sponde: Baldi, Kfauiica, Ub. IL
dal mar, che minacciar già sembra
està, Talrone; e più che punte, LKIII. La condizione dell* agrieol"
cciando si va tranquilla parte, tore e quella del navigatore,
) sereno ciel ratto volando;
onsi incontro al vento ir le palustri Taccia dunque ilcultor, nèsi querele <,
le a schiera, e per l'eccelse cime Giudice me, né misero si chiami
i altissimi monti in lungo filo Perchè il suo faticar correndo in giro
idersi le nubi; e frondi e piume Per Pislesso senticr sempre ritorni;
per Taere errando. 11 vento acquoso E perchè spesso al sole ed a la neve
si allor che '1 ciel lucidi lampi Fra soverchi disagi ei geli e sudi;
li alberghi di Borea od' Euro od'O- £ che talor di sue fatiche estreme
[ stro II frutto caglia ^ e la speranza indarno :
. accende; e quando a*laghi intorno Gh*4 gran torto si duol, se Pocchio volge,
e veloce vola; e mormorando * E dritto mira il periglioso slato
{uaci anitrelie in su le sponde De l'audace nocchiero. Egli se '1 giorno
i stagni e de'fiumi in strana guisa 5uda premendo il faticoso aratro,
m lavarsi, e van tuffando il capo O d'arbosrel di questa in quella riva
le gelid'acque. In secca arena Translato tronca i troppo audaci rami;
I allor la cornice, e Tonda chiede Respira ai fine, e quando il sol si parte
el con roca voce: i bassi fondi Par dar loco a la notte, i buoi disciolti
lar lasciando il polpo, in su le rive Da le arate campagne a Tumil tetto,
"Otondee piccioletle pietre Che già vede fumar, l'orme rivolge:
)i tenaci pie saldo s'attiene : Ove col cibo che apprestato gli ave '
tose alcioni in su gli scogli. La sua casta compagna, egli riprende
'argolelti lor, distesi i vanni, Il perduto vigore; e 'ntanto in seno
)1 godonsi i rai tepidi e chiari: Gli riportan scherzando i dolci figli
anoadoraador, guizzando, il curvo Le pargolette membra: onde egli obblia
i lievi delfin; perchè, presago Le passate fatiche. £ benché d'oro
Dpestail nocchiero, o fugga, os'armi Non splenda il suo ricetto, e non s'estolla
1 il marino orgOj^lio.Or chi p( trebbe Sovra colonne di lucenti marmi;
r i segni ad un ad un, che il cielo Benché sovra alti pie di sonito argento
»stra pria che '1 mar si turbi? ed anco Candidissime faci ei non accenda,
ch'egli è turbato; a fin che sorga II cui splendor de le superbe sale
'amato seren ne' petti altrui A gli occhi scopra le ricchezze e l'arte ;
la speme? Di tranquillo e piano Lieto è però •' si le corone e i manti,
segni possiam quando le nubi Ricco in sua povertà sprezza e non cura,
^endo vansi a poco a poco, e chiare A lui ridono i prati: a lui sol versa
)nsi in ciel le più minute stelle: Giacinti e rose la surgente aurora ;
lo la -grave ed importuna nebbia A lui, dolce cantando, i primi albori
valli si posa e 'ntorno al mare Sa'utan gli augellctti; e i fonti e i faggi
idosene umìl, lascia ^^erena Porgon chiari i cristalli, opache l'ombre,
i alti monti le selvose cime. Ove l'aride labbra immolli, ed ove
:n lucido e chiaro il tempo adduce Posi dormendo il faticato fianco,
lia di Taumante, il ricco lembo Altramente a colui, vivendo, avviene ,
;nti ornata e coloriti fregi. Che ricchezze adunar brama fra l'onde.
tro indizio ancor di certa pace Perché lasciata la mogliera e i figli,
szo a le tempeste orride e nere ' Quereli, '& Cada, 3 Ha.
4S
CRESTOMAZIA I^OETICA
Quasi dal patrio nido a forza spinti ,
Se stesso esposto a volontario errore,
Erme penetra e sconosciute areni:
D'ogni nube paventa; e mai non dorme
D'altissima paura il petto scarco :
Arde a l'estivo tempo; e benché d'acque
Sia d'ogni intorno cinto, inilarno brama
Fresco rimedio a la focosa sete:
Da'colpi de la morte un picciol legno
Gliefralescudo:e,quelch'èviepiùgrave,
Bare fiate avvien ch'ei ne riiwrle '
Mercè che sembrial gran travagliopguale.
Non vo' però che tu , benché d'estrema
Fatica sia quest'arte, e di periglio,
Perciò paventi; e neghittoso viva
Tutta l'etate tua povero e vile:
Perchè spesso in cangiar contrada e parte,
Cangia nom fortuna; e 'n region lontana
Trova tesor che nel paterno nido
Avria forse aspettando atteso indarno.
Sii pur saggio e prudente, e col consiglio
Rompi fortuna rea: perchè a colui
Solo il pregio si dee, che ardito e forte
Biede superator d'ogni periglio.
Non vedi tu che i celebrati eroi,
Per fabricarsi gloria, ebber tenzone
Co'mostri e con l'inferno? e chela fronte
Solo a colui l'illustre fronde cinse,
Che sudò vincitor ne'campi elei ?
Pon mente al Lusitan, che, ben che il regno
Aggia * colà 've 'i Sol cade «e l'onde,
Tal col proprio valor calle s'aperse,
Che, Cerne addietro e '1 carro de gli Dei
(Mete non degne a l'animoso corso)
Di gran lunga lasciato, incontro al sole
Voltò così, che fra gli estremi Eoi
Potè spiegar le vincitrici insegne.
Baldi, Naulica, lìb, IH»
20. Brevità della vita.
De la sua fìnta imago
Fatto Narciso vago.
Appresso a lue id 'acque.
In odorato fior converso giacque.
Ben s'assomiglia a fiore,
Che tosto langue e muore,
» Riporti. a Abbia.
Chi, per voler r^slcrna
E caduca beltà, lascia l'eterna.
Giovine oggi mi finge
La man che mi dipinge:
Dimani, ahi! fredde brine
M*ingombreran l'antico mento e 'l crine.
Ogni cosa com'ombra
Veloce il tempo sgombra;
E i nomi insieme e l'opre
Muto silenzio e cieco oblìo ricopre.
£aidi,
2 1 . Per la cetra di Virgilio .
Quella cetra gentil, che in sa la riva r
Cantò di Mincio, Dafni e Melibeo <
Sì, che non so, se in Menalo o 'n Liceo,:
In quella o in altra età simil s'udiva;
Po'cliè con voce più canora e viva
Celebrato ebbe Pale ed Aristeo,
E le grand'oprc che iu esilio feo
Il gran figliuol d'Anchise e de la Diva; .
Dal suo pnstoreio una quercia ombrosa
Sacrata pende, e se la muove il vento.
Par che dica superba e disdegnosa :
Non sia chi di toccarmi abbia ardi mentii^
Che se non spero aver man sì famosa,
Del gran Titiro mio sol mi contento.
Di Costanso,
22. Per la morte del figlio
in età tenera.
De l'età tua spuntava appena il fiorCf
Figlio, e con gran stupor già producea
Frutti maturi, e più ne promettea
L'incredibil virtute e *l tuo valore;
Quando Atropo crudel mossa da errori
Perchè senno senile in te scorgca,
Credendo pieno il fuso ove attorcea
L'aureo tuo stame, il ruppe in sì pocVort:
E te de la natura estremo vanto
Mise sotterra, e me ch'ir duvea pria tto:
Lasciò qui in preda al duo! eterno, alpiao-
Ne saprei dir se fu più iniqua e ria,
Troncando un germeamato e caro tanto,
non sterpando ancor la vita mia.
Di Costanso,
SECOLO DECIMOSETTIMO
Per vittoria riportata da Gio-
ni de* Medici contro i Turchi.
e 1* indegno acquisto
d'oriente il popol crudo ,
on gregge il Cristo
ie di speme e di vafore ignudo ;
he pur, Tempia superbia doma,
.>nan !a fronte Italia e Roma.
Isàr gli empii Giganti
mpo al ciel 1* altere corna; al fine
;ori sonanti
ler trofeo, tra incendii e tra ruinc:
le fulminata empia Babelle
che più yicin mirò le stelle,
ibra^a al vasto regno
ne angusto ornai V Istro e T arene:
) Titano y a sdegno
carsi parea palme terrene;
in obblio qual disdegnoso il cielo
a l'alte vendette orribil telo,
ega di penna d'oro,
omene cortese, ala veloce ;
lon lieto e canoro
taliche ville alza la voce ;
jli omai ne gli agghiacciati cori
il cantò tuo guerrieri ardori.
a l'umido ciglio.
Esperia, d' eroi madre feconda ;
smo armato il figlio
*de l' Istro in su la gelid'onda,
tc' regni de Tacque immenso scoglio,
scudo al furor nel tracio orgoglio,
rio successo avverso
goaìiimo cor virtù non languc ;
lal di sangue asperso
a teste e furor terribile angue,
1 de la gran madre il figlio altero ',
cadendo, ognor più invitto e fiero,
mmortal fiamma ardente
a è là su i luminosi campi,
to sonar si sente
aventoso tuon, fra nubi e lampi,
r di bassi regni aura v' ascende
►rtal fasto, e Tire e i fochi accende
ateo*
usoPARPi, Crestomazia, U.
So V incudi immortali [ Bronti.
Tempran T armi al gran Dio Steropi e
Ivi gli accesi strali
Prende, e fulmina poi giganti e monti:
Ivi, né certo in vano.
S'arma del mio signor T invitta mano.
Quinci per terra sparse
Vide Strigonia le superbe mura :
Quinci ei ne Tarmi apparse
Qual funesto balen fra nube oscura;
Ch' alluma il mondo, indi saetta, e solve
Ogni pianta, ogni torre in fumo e 'n polve.
Oh qual ne' cori infidi
Sorse terror quel fortunato giorno!
I paventosi gridi
Bizanzioudì, non pur le valli intorno ;
£fin ne T alta reggia, al suo gran nome,
Del gran tiranno inorridir le chiome.
Segui: a mortai spavento
Lunge non fu già mai mina e danno.
Io di nobil concento
Addolcirò de' bei sudor T affanno ;
10 de la palma tua, con le sacr'oude,
Cultor canoro, eternerò le fronde.
Chiabrera,
LXV. Per vittoria ottenuta dalle ga-
lee dì > Toscana contro quelle di
Allessandria.
Voi dal tirreno mar lunge spingete
I predatori infidi ;
E ne' golfi sicuri
De T imperio ottoman voi gli spegnete.
L' Egeo sei sa, che d' Alessandria scerse
Dianzi ululare i lidi,
Quando in ceppi sì duri
Poneste il pie de le gran turbe avvejrse,
E sotto giogo aceirbo
11 duce lor superbo.
Oh lui ben lasso! oh lui dolente a
Che in rcglon remote [ morte !
Non più vcdrassi intorno
L'alma beltà de la gentil consorte.
Ella, in pensar, piena di ghiaccio il core,
Umida ambo le gote,
5d CRESTOMAZIA POETICA
Alto piàngeva un giorno E di leon dbdegno
Il tardo ritornar del suo signore : Non è da risvegliar, perchè t'assaglia. ',
£ così la nudrice Meco non vo' che vaglia
Parlava a l'infelice: Si sconsigliata voce : ;
Perchè t'affliggi in van? Tangoscia^af • £d ella Gedeon già non commosse
A che tanti martiri? [frena: Quando scese feroce
Deh fa ch'io tra' bei rai Ne l'ima valle , e Madian percosse.
La cara fronte tua miri serena. Ei, gran campo raccolto -
Distrugge i rei Cristian, però non riede Di numerose schiere,
ì
Il signor che desiri.
Ma comparte oggimai
Tra' suoi forti guerrier le fatte prede;
E serba a tue bellezze
Le più scelte ricchezze.
Così dìcea: ne divinava coAe
Egli era infra catene
Là 've con spessi accenti
Mandasi al ciel di Ferdinando il nome.
O verdi poggi di Firenze egregia,
O belle aure tirrene,
Ed o rivi lucenti;
Sì caro nome a gran ragion &i pregia:
lieti a gran ragione,
Gli tessete corone.
Che più bramar da la bontà superna
Tra sue grazie divine ,
Salvo che giù nel mondo
Sia giustìzia e pietate in chi governa ?
lo non apprezzo soggiogato impero.
Benché d'ampio confine ,
Se chi ne regge il pondo
E di tesor, non di virtude, altero:
Ambizione è rea :
"Vero valor ci bea.
(
Vegghiava a scampo del natio paese;
E da lunge non molto [
Spiegavano bandiere
Gli stuoli pronti a le nimiche offese.
Ed ecco a dir gli prese
Il Re de l'auree stelle:
Troppa gente è con te: parte scd vada:-^
Crederebbe Israel le ^-
Vittoria aver per la sua propria spada.
Quivi il fedel campione
Di gente coraggiosa
Sol trecento guerrier seco ritenne:
Poscia per la stagione
De l'aria tenebrosa
Le squadre avverse ad assalir seD venne.
Poco il furor sostenne
La nemica falange :
Ei gli sparse e disperse in un momento.
Febo eh* esce dal Gange,
Le nebbie intorno a se strugge più lento.
Così gli empii sen vanno
Se sorge il gran Tonante,
De la cui destra ogni vittoria! dono.
Il Trace è gran tiranno;
Ma sue forze cotante
Ckiabrera, Né di diaspro né d'acciar non sono.
Forse indarno ragiono?
LXVI. Per altre vittorie delle galee Ah no; ch'oggi «ospira
toscane contro i Maomettani.
Quando il pensiero umano
Misura sua possanza
Caduca e frale, ei sbìguttisce e teme :
Ma se di Dio la mano,
Ch' ogni potere avanza,
Ei prende a riguardar, cresce la speme.
Ira di mar che freme
Per atroce tempesta.
Ferro orgoglioso che le squadre ancida,
Non turba e non arresta
Vero ardimento, che nel Ciel confida.
Sento qua giù parlarsi :
Un pìccioletto regno
A vasto impero perchè dar battaglia?
Alpe non può <Tollarsi ;
.,1
Algier de' legni suoi l'aspra sventura;
E Prevesa rimira #
De' bronzi tonator nude sne mura.
Popolo sciocco e cieco,
Che militar trofei
Speri da turba iniguerreggiar maestra;
Quali squadre ebbe seco
Sanson tra' Filistei,
Quando innalzò la formidabil destra? '
Ei da spelonca alpestra
S' espose in larga piaggia ■ ^
A spade ed aste di suo strazio vaghe;
Quasi fera selvaggia . ^ /'
Data in teatro a popolari piaghe. •
Ma sparsi in pezzi i nodi >;>
Onde si trasse avvinto,, . •. ■ ■?''
D' acerba guerra suscitò tempe»tft& ^^ li
miseri modi
ejcci.to vinto
Ea di sua man fé manifesta.
' ora funesta,
i non s> armò gente;
faretra egli avventò qnadrella:
>rò solamente
:stinto a&inel frale mascella.
in chi lo soccorse
> Gaza, là dove
vissime porte egli divelse;
do sen corse,
tdibili prove ! )
)rtò su le montagne eccelse ?
1 : Dio che lo scelse,
ilgidi rai
irò il fece ed illustrollo allora:
SECOLO DEQMOSETTIMO &l
: Che scotendo cimier, miaacci ardita,
Che da lo sguardo fier versi farori, '
E che d*onor ben vaga, '
Esponga il petto a memorabil piaga.
Chiabftrat
LXVIII. In morte di FaJbrixio '
Colonna.
nca già mai
Irma, e delgrau Dio le leggi adora.
Deh qual mi fìa concesso
Stil di tanto dolore,
Onde accompagni il core
Ne r alta angoscia oppresso ?
O Febo, o re de 1* immortai Permesso *;
Se v'ha musa pietosa
Ch* ove morte ne fura
Anima gloriosa.
Usi di lagrimar 1* aspra ventura;
Ella dal ciel discenda,
Chiabrera, £ meco a pianger prenda.
Lasci la bella luce
l. Per altre vittorie de* Toscani La bella Diva ; e mesta
tro i Turchi , con liberazione Bechi cetra funesta :
wUti Grieiiani schiavi. Poi che morte n'adduce
A lamentar de' Colonnesi il duce ;
mo, si lungo stuol, lieto in sem- Nobile pianta altera,
[ biansa. Svelta da* nembi e doma
tuoi piedi s* atterra, oggi dal seno, Sul fior di primavera ;
: franco lo fai, letizia spande. Forte sostegno a rocca alta di Roma,
ben conservar la rimembranza Folgoreggiata a tecra
*sto giorno : e tu di lui non meno ; Con lagrimevol guerra.
sante vulte in terra anima grande nato in lieta sorte,
à comparte Di genitor felici ;
^migliarsi a Dio ritrova l*arte. Come tristi, infelici,
"zadunque, omio re, l'alto pensiero Còrser tuoi giorni a morte!
;li scettri tuoi splendono chiari. Fervida destra, coraggioso e forte
Sangue di stirpe antica,
Sempre di schiere armate ,
Sempre di pugne amica;
Già non dovea su la più verde etate ■■
Dura morte involarte '
Senza prova di Marte .
Ahi, che se a te pia lente
Giungean Tore del pianto,
Forse perdea suo vanto
Un di Tempio Oriente!
Ma dove il suo ferir vien più dolente^ •
Morte colà più punge,
£ più gli strali ha pr9ntiv^<:i
Così, d'Italia lunge, .^.t.
O bell'alba d'Italia,. on^ tramonti; >
E si vien teco a meiìo< f •'
crespi il crine, eche di nardo odof i* Tanta 4«i $Uo tereiloi ■■•■'' '-r. ,'-i >■ h
\!ÀàMtW!k^etìÙìSk\Àsi&^wky, ' iParoaso, ■>•>>>"» {ajycgjittlt -mI/v
! di torri e che di mura eccelse
! quel che tu governi impero,
'di r Alpi, o pur difenda i mari :
i suoi nidi in lui Cerere scelse;
le genti industri
Minerva ne le scuole illustri.
contrastati, se ne van repente
!gi al vento. Ecco la terra argiva
! tra' ceppi, e di catene è carca.
aspro Quirin l' inclita f^ente,
3 di palme eterne alma -fioriva,
landò superba ogni- monarca ;.
xtanto e vinse
la spada infalicabii cinse*
nata vista, e di mirarsi indegna,
tu che di gemme orni le dita.
r>2
Cruda, barbara scoi a
Ch'altrui biasma i sospiri,
Ci s'altri i suoi martìri
Coi lagrimar consola.
A me iiou srenda in cor sì ria parola:
Che dolce è far querele
Colà dove n'oifese
l)ura morte crudele;
Kd è di nobil core atto cortese
Dare amorosi accenti
A le più chiare genti.
Certo s'alma è fra noi
Del tuo morir men pia,
Certo, Fabrizio, obblia
I tuoi sì chiari eroi.
Ma vide in armi pria Ravenna, e poi
Vide Adice in periglio,
Se de la vostra gloria
Per forza e per consig'io
Deggia Italia tener breve memoria;
O anime reine
De le virtù latine.
Stan lungo d'Ambre i lidi
Di Prospero gli allori,
Mille armati sudori,
Mille onorati gridi:
K poco dianzi in Campidoglio io vidi
Nuovi titoli egregi;
£ giù da'nobili archi,
Scorno a'barbari regi,
Pender faretre insanguinate ed archi,
£ mille spoglie appese
Al più gran Colounese.
Caro, giocondo giorno, .
Quando a l'amiche voci,
Quando a i bronzi feroci
Tonava il cielo intorno;
CRESTOMAZIA POETICA
Fatti querele e pianti!
]
Chi(d>rer»^
LXIX. Sopra il sorriso di unahslk.
I
Se bel rio, se bell'aure tta
Tra l'erbetta
Sul mattin mormorando erra;
Se di iìori un praticello
Si fa bello;
Noi diciam: ride la terra.
Quando avvien che un zefiretto
Per diletto
Bagni il pie ne l'onde chiare,
Sicché l'acqua in su l'arena
Scherzi appena;
Noi diciam che ride il mare.
Se giammai tra fior vermigli.
Se tra gigli
Veste l'Alba un aureo velo,
£ su rote di zaffiro
Move in giro;
Noi diciam che ride il cielo.
Ben è ver: quando è giocondo.
Ride il mondo;
Ride il ciel quando è giojoso:
Ben è ver: ma non san poi
Come voi
Fare un riso grazioso.
Chiabrera,
LXX. Sopra Amore.
Del mio Sol son riccìutegU
I capegli;
Non biondetti, ma brunetti:
Son due rose vermidiuzze
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E d'auree gemme e di ghirlande adorno, Le gotuzze;
Su candido destriero,
Trionfator romano
Traea sua pompa aitero
A la reggia di Pietro in Vaticano:
Dolce pompa a mirarsi,
E dolce ad ascoltarsi.
Allor tu pargoletto,
Emulator paterno,
D'alto valor eterno
Le due labbra, rubinetti.
Ma dal dì ch'io la mirai
Fin qui, mai
Non mi vidi pra tranquilla:
Che d'amor non mise Amore
In quel core
Né pur picciola favilla.
Lasso me, quando m'accesi.
Dire intesi
Ch'egli altrui non affliggca.
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11
Tutto infiammasti il petto.
Ma morte il tuo valor prese in dispetto. £ che tutto era suo foco
Dunque a la patria riva Riso e gioco,
Gente barbara e strana E ch'ei naique d'una Dea.
Non condurrai cattiva. Non fu Dea sua genitrice.
Oh conversa in dolor gioja romana! Com'uom dice:
Oh glorie, oh aostrl vanti Nacque in mar di qualche scoglio:
SECOLO DECIMOSETTIiMO 55
iu quelle spume Ma di cose pregiate e di tesoro;
£ gemmati monili ed auree marche,
Balsami ed ambre sol serbansi in loro;
Cos'i sotto bei membri e belle forme
Chiuder non si suol mai spirto difforme.
Marino^ Aclone^ canto XFÌ»
)cna e cordoglio,
ér ch'ei pargoleggia,
iQciulletto;
rgolfggiando,
tdo,
;ia core in petto,
ira, quale sdegno!
IO
dica; e mi minaccia,
serpentello,
o,
n vuol ch'io mi taccia?
tu che gravi affanni
mi
[ in seguitarti?
ique lagrimoso,
), ho da lodarti?
LXXU. Il giuoco degli scacchi.
Fermo tra lor con quest'accordo il patto,
Kcco d'astuto ingegno e pronta mano
Garzon, che sempre scherza e vola ratto:
Gioco s'appella, ed è d'Amor germano.
Questi su l'ampia tavola in un tratto
A recar venne un tavoliero estrano,
Che di fin oro ha la cornice, e '1 resto
Tutto d'avorio e d'ebano è contesto.
Sessantaquattro case in forma quadra,
Inquartate per dritto e per traverso,
Dispon per otto vie serie leggiadra,
Ed otto ne contien per ciascun verso.
Chiabrera* Ciascuna casa in ordine si squadra
Di spazio ((guai, ma di color diverso;
t bellezza de l corpo s uale e»- Ch'alter piamente a biancoe brun distinto,
giunta a bellezza dell'ani- Qual te/go di dragon, tutto è dipinto.
i costumi. Scambievolmente al bianco quadro il'
[nero
Succede, e varia il campo in ogni parte.
Or qui potrai, quasi in agon guerriero.
Disse la Dea, veder quanto può l'arte; >
Dieo di guerra un simulacro vero,
Ed una beila imagine di Marte;
Mover assalti, e stratagemmi ordire,
me a quel bel ch'entro si copre, £ due genti or combattere or fuggire,
lianze esteriori e l' opre. Ciò detto, versa da bell'urna aurata
così, che di natie fiammelle Sul tavolier di calcoli due schiere,
di color vago s'inostra, Che di tornite gemme effigiata
! tempre ancor luride e belle Mostran l'umana forma in più maniere,
ispoodente a quel che mostra. L'una e l'altra falange è divisata
ne il sol, la luna e l'altre stelle Là dì candide insegne, e qui di nere:
i oggetti de la vista nostra, Son di numero pari e di possanza,
i occhi però visibil fede Differenti di nome e di sembianza,
ne maggior che con si vede. Sedici sono e sedici; e siccome i
)rea beltà chiaro argomento Vario è tra loro il color bianco e *1 bruno,
i non men bella alma gentile^ £ varia han la sembianza e vario il nome.
è luce, che dal sommo Sq^
L rischiarar career terreno,
raggi compartir si suole,
i risplende e dove meno,
no di leggiadro atti o parole,
:rcè del suo splendor sereno;
ndizii dinotando e cento
lere in sé forma simile;
lo dilicato e lento,
stallo timido e sottile,
r di fuor gl'interni lumi
li e candidi costumi.
ne le ricche nobil'arche,
tefia vii SI tengoa carene,
Così l'ufficio ancor non è tutt'uuo.
Havvi regi e reine, ed ha le chiome
Di corona real cinte ciascuno: ;
V'ha sagittarii, e cavalieri, q fiinti^
£ di gran rocche onusti alti cle£in4i.>
Ecco son già gli eserciii disposili;
. Già ne'sjU 60vra}U.>e già n£ gl'iiu > ■
, Son divisi i quaflii^^ pieliti ipostiv
Stan ne l'ultima linea i et %>Mvgdl\>
.1 •-. ♦
^4 CRESTOMAZIA POETICA
K quinci e quindi entrambo a fronte op- L^iin e Taltro confio del campo tocca.
[posti II cavallo leggier per dritta lista,
1^ quarta sede ad accupar Tan primi; Come gli altri, l'aringo nnqua non fende;
Ma '1 canuto signor , ch'è l'un di loro, Ma la lizza altraversa, t, fiero in vista,,
Preme Toscura, e tien l'eburnea il moro. Curvo io giro e lunato il salto stende ;
La regia sposa ha ciascun re vicina: ^ sempre, nel saltar, due case acquista^
Un l'ba dal destro lato, un l'ba dal manco. Quel colore abbandona, e questo prende^
4icn campo a se conforme ogni reina; ^a la donna rea! vie più superba.
La fosca il fosco tien, la bianca il bianco. ^e*suoi liberi error legge non serba.
jNe la fila medesima confina Per tutto erra costei, lungeedapresso,
Gemino arcier da questo e da quel fianco: ^ P^ò di tutti sostener la vice;
Questi la rissa a provocar sen vanno, i>aivo che 'n cerchio andar non V è per-
E de la real coppia in gnardia stanno. Saltellar, volteggiar le si disdice: [mtsaov
Non lontani, a cavallo, han duo cam- Privilegio al dcstrier solo concesso,
[ pioni Corvettando aggirarsi altrui non lice.
In pugna aperta a guerreggiar accorti. Nel resto poi, se non ha intoppo al corsOf
£ ne r estremità de' duo squadroni Noil trova al suo vagar meta ne morso.
L'indiche fere gli angoli fan forti. Move l'armi più cauto il re sovrano.
Otto contr'otto, assiston di pedoni In cui del campo la speranza è tutta: .
Jn ordinanza poi doppie coorti, Che, s'egli prigionier trabocca al piano,
Ch'a'primi rischi de la guerra avanti L'oste dal canto suo riman distrutta.
Portano i petti intrepidi e costanti. Quinci per lui ciascuno arma la mano,,
Pugnasia corpo a corpo; e fuor di stuolo, l'er lui s'espone a perigliosa lutta;
Quasi in steccato, ogni guerrier procede: ^^ ^%^^* spettatorde la contesa,
8'un bianco escedi schiera, eccoch'a volo Cinto di guardia tal , non teme offesa.
Da la contraria uscir l'altro si vede: Poco intende a ferire, e per Papcrlo
Ma con legge però che più d'un solo In publica tenzon raro contrasta ;
Mover non possa in una volta il piede: Non è questo il suo fin, ma ben coverto,
E van tutti ad un fine; in stretto loco, I^a l'insidie schermirsi assai gli basta.
Con la prigion del re, chiudere il gioco. Pur, se contro gli vieu duce inesperto,
£ perch'egli più tosto a terra vada, Sa ben anco trattar la spada e l'asta ,
Tutti col ferro in man s'aprono i passi. Colpisce e noce: e poiché *i seggio lassi,
Chi di qua. chi di là sgombra la strada: Di più d'un quadro il termine non passai
Pian pian men folta la campagna fassi. Manno, Adoue^ canto XF.
A l'uccisor, s'avvien ch'alcun ne cada,
Del caduto avversario il loco dassi. l^^XlW.Ilconte di Culagna combaàu
Ma , campato il periglio, eccetto al fante, in duello con Titta di Cola .
Lice indietro a ciascun ritrar le piante.
Del marciar, del pugnar, nel bel con- Armato il cavalier * di tutto punto,.
[flitto, £ compartito il suolo a i combattenti.
Pari in tutti non è l'arte e la norma: Diedeilsegno la tromba, etutti a un pOAli
A'arca una cella sol sempre per dritto Si mossero i destrier come due venti.
Contro il nemico la pedestre torma: Fu il cavalier roman ^ nel petto giunto:
Se non che,quandoalcun nevico trafitto, Ma l'armi sue temprate e rilucenti
Si feriscon per lato, e cangian forma; Ressero; e '1 contea quell'incontro slraao
K ponno nel tentar del primo assalto La lancia si lasciò correr per mano.
Passar duo gradi, e raddoppiare il salto. £i fu colto da Titta a la gorgiera, .
Può da tergo e da fronte andar la torre. Tra il confin de lo scudo e de l'eimettOi
Porta a destra ed a manca il grave incarco; D'una percossa sì possente e fiera,
Ma sempre per diametro trascorre, Che gli fece inarcar la fronte e '1 petto.
Ne sa mai per canton torcere il varco. Si schiodò la goletta, e la visiera
Sol per sentiero obliquo il corso sciorre S'aperse, e diede lampi il corsaletto:
il dato a quel ch'ha le saette e l'arco.* Yolaro i tronchi al ciel de l'asta rotta;
Fiancheggiandosimove; e, mentre scocca * Il conte dì Gulagna. a xiiu di Cob*
1
1
J
*
1
SEGOLO DECIMOSETTIMO 55
le staffe e brìglie il conte allotta. Venga la soprayTesta: e quella viene;
Iota la ybiera, il conte mira, Né san cosa trovar di che segnata
e rosseggiar la sopray vesta: Sia, né ch'a sangue assomigliar si possa»
^ m voce fioca; aita presta. Gonobber tutti allor distinta e vera
'rotto a quel suon cento persone, La ferita del conte e la paura.
BEO morto il cavano d'arcione. Egli accortosi alfin di che maniera,
lortano a la tenda, e sopra un letto S*era abbagliato, 1* ha per sua vantura ,
iminciano Tarmi e i panni a sciorre. £ ne ringrazia Dio, levando al cielo
mrgo cavar gli fa l'elmetto: Ambe le mani e '1 cor, con puro zelo.
rete a confessarlo in fretta corre: E a Titta e a la moglier sua perdonando,
gli amici suoi morto in effetto Si scorda i falli lor sì gravi e tanti;
gono; e ciascun parla e discorre E fa voto d'andar pellegrinando
:on era da porre a tal cimento A Roma a visitar que'luoghi santi,
)m privo di forza e d'ardimento. £ dare intanto a la milizia bando,
L Titta, poi che l'avversario vede Per meglio prepararsi a nuovi vanti:
torto riportar ne le sue tende, Così il monton che cozza, si ritira,
^gia il campo a suon di trombe, e £ toma poi con maggior colpo ed ira.
[ riede Tassoni, Secchia rapita, canto XI.
la parte sua lieta l'attende.
so è sì» che di valor non cede LXXIV. Gli itudii poetici,
irte stesso: e de l'arcion discende:
ive pria che disarmar la chioma, £' si diletta di compor de i versi,
disce un corriero in fretta a Roma. £ vorrebbe, se può, farsi poeta:
ive ch'un cavalier d'alto valore Ha tentato fin qui studii diversi,
ielle parti; uom tanto principale, Ma sol dentro al poetico s'acqueta :
orse non ve n'era altro maggiore, Di vocaboli scelti e modi tersi, [ ta ,
'a lui fosse di possanza eguale; D' unquanchi e quinciy senza fine o me-
) avea di provocarlo core, Ha fatto con l'ingegno pellegrino
>render con lui pugna mortale: Un libro grosso com' un calepino,
esso, de gli eserciti in cospetto, Scjuademai libri, e spolvera gliautichi,
ea passato al primo incontro il petto. £ gh postilla se rYescon dotti ;
ià\ il corriero a Gaspar Salviani, £ gli assapora, come fusser fichi,
1 de l'accademia de'Mancini; Distinguendoli in datteri e brugiotti:
le desse l'avviso a i Frangipani Le perifrasi osserva e i casi oblichi,
T di Nemi, e a i loro amici Ursìni, Gl'idìfotismi, e gli entimemi addotti,
;avalier del Pozzo, e a i due romani Metaplasmi, sineddochi ed ellissi,
si ingegni, il Cesi e '1 Cesarini,* E gli accenti e gli articoli e gli affissi.
)pra tutti al principe Borghese, Vergiiio tutto ha per Io senno a mente,
imon Tassi^ di Pavul marchese: £ come peverada Orazio inghiotte ;
e tutti disser poi ch'egli era matto, Ovidio al suo giudizio è negligente;
do s'intese ciò ch'era seguito. Persio fa poca strada, e va di notte;
ito avean spogliato il conte affatto , Lucrezio ha de l'antico, e non sì sente;
irror de la morte instupidito; Lucan tira attraverso orribil botte;
a cercando due chirurgi a un tratto £ aspro Silio; e non han frasi buone
pò onde dicea d'esser ferito : Stazio e Properzio; e Plauto fa '1 buffone,
trovando mai rotta la pelle, Mill'altri documenti, e mille e mille
linciar le risa e le novelle. Altre osservanze egli ha notato e nota -
;onte dicea lor: Mirate bene : £ i comenti rivede e le postille;
è la sopravvesta è insanguinata: £ gira il cervel suo come una ruota;
1 dite così per darmi spene; E per usanza sta (come l'anguille
;ià l'anima mia sta preparata. Fitte la notte e '1 dì dentro la mota)
56
CRESTOMAZI
Fra gl'incliioslii sepolto e fra le carte;
E sempre a la natura aggiunge Parte.
Così dunque, signora, avete udito
Chi sia *1 garzone, e quali i suoi diletti.
La casa ov'abit' egli e *l mio marito,
V. quella là che ne discopre i tetti.
E chi vuol fare a lui piacer gradito,
Dicali * in poesia vaghi concetti:
Che per un madrigale o una canzona
Si faria servidor d'ogni persona.
A la vecchia gentil Venere chiede:
Questo tanto desio di poetare,
Ch'è nel vostro figliuolo, onde procede ?
ISatura forse- ve lo dee tirare;
O forse esempio altrui; che ciò che vede
La gioventù di subito vuol fare;
Ovver lo sprona, e non può stare a segno,
A farsi imilator forza d'ingegno.
La vecchierella allor: Signora mia,
Quest'occulta cagion che voi chiedete,
Come nascesse de la poesia
Nel petto al mio figli uol cotanta sete ,
Io, che non istudiai filosofia,
Non saprei dirvi; e mi perdonerete:
Ma ben vi conterò come da prima
Cominciass* egli a canzonare in rima.
Quattordici anni ei non avea finiti,
Che un dì me l'adocchiò mastro Tamiri,
E piacquegli tra gli altri a lui graditi.
Fino a spargerne lagrime e sospiri.
Con ragioni, con preghi e con invili
Mei messe * in su i poetici rigiri;
Ed a me disse; Allegramente, o vecchia:
Questo vostro figliuolo ha buona orecchia.
Vo'che noi gl'insegniamo afarde'ver-
E restar vivo ancor dopo la morte. C si,
Studiato avea costui libri diversi,
E facea gli Appigionasi a le porte;
Ond'io subitamente mi conversi
A commettere il figlio a le sue scorte,
E glielo diedi in cura, e lo pregai
Che far me Io volesse un uom d'assai.
In nove giorni (o sovrumani efiPetli
De la scienza infusa dal maestro!)
Componea de l'ottave e de'sonetti.
Con vivezza d'ingegno agile e destro:
E non istiracchiava i suoi concetti
Come quando si carica il balestro :
E congiungendo l'arte al naturale.
Dava speranza un di farsi immortale.
Morì la gatta in casa nostra; ed esso
La seppellì ne Porto, appiè d'un fico,
£ l'epitaffio a lei quel giorno stesso
X Dicagli, s Mise.
\ POETICA.
Compose in manco tempo ch'io no! ^ico'
Ed io, che'l vidi immantinente impressa
Ne l'esposta corteccia al sole aprico,
E lessi i carmi suoi; per meraviglia
Restai stretta di spalle, alta di ciglia.
Me ne ricordo; e vo'che fu gli scoli, -
Che veramente son cosa garbata,
a Giace qui, tra '1 bassilico e la mcnta^-
Bella micia defunta e sotterrata.
Da Morte fu la sua bravura spenta.
Perocché i topi ne l'avean pregata :
Ma temon anco, al trapassar del fosso,
Che, così morta, alornon salti addosso.»
Tamiri in questo mentre avea composto
E distinto un poema in libri sei,
Dove a rappresentare ei s'era posto
La guerra de' Giganti e de gli Dei,
E '1 valor de ì Giganti avea preposto,
Celebrando i Fifaiti e i BrTarei.
La favola era sciocca, e gli episodi
Stiracchiati e sovèrchi in varii modi.
Non ti maravigliar se di quest'arte •
Nel favellare io ti parrò maestra :
Che io ne trovai per casa alcune carte,
E me le riserbai ne la òanestra;
E di nascosto, trattami in disparte
Tra la sponda del letto e la finestra,
Me le studiava, acciò non mi vedesse
Il mio figliuolo, e me lo rilogliesse.
La favola era doppia ; e non avea
Ne ricognizì'on, ne riuscite
Al contrario di quel che si credea:
Le parli eran difformi , e disunite :
Né util né piacer se ne traea ;
E così terminata era la lite,
Qual abbia di lor due ' la precedenza;
Mentre il poema suo ne riman senxa.-
Non si riconosceva a nessun segno-
Regola né precetto in queli* ordito;
Che senza imitazione e senza inge^o,
In nessuna sua parte era pulito.
In vece di pietà movea lo sdegno, -
E'I timor di nonnulla in core ardito*
Le parole eran barbare, eran dure.
Dissonanti, ed incognite, ed oscure.
Sciocca l'età virile , e non curante '
Ne di reputazion né di decoro,
E la vecchia fingea sempre arrogante.
Incauta, ardita, e prodiga de l'oro;
Saggia la gioventù, pigra, e costante,
Querula e mesta in procurar tesoro:
E facea, confondenao le persone ,
11 servo ragionar come'l padrone»
^ L' utile o il piacere.
SECOLO DECIHOSKTTIiMO
57
linaU era la tela, e piena
iverisimili e interrotte.
a fuor di tempo aura serena,
'occasiou tempesta e notte;
li orti, e fertile T arena,
i carboni, e nere le ricotte;
le, e frasche, e vanità leggiere,
iverisimili per vere.
)er non istar più sn i generali,
ociò cosi la sua canzona:
;osto; e per li venti australi
pioyer un dì fra vespro e nona ;
bnclie ov'eran fitti i pali,
Giganti di sì gran persona ,
era medesma eran simili
ri più grandi, a i campanili,
giungevano lor fino a' ginocchi
erri, pio, querce e castagni ;
appavan su, come finocchi;
sorso bevean paludi e stagni,
rupole i nasi; e fuor de gli occhi,
iti, rotondi; orrendi e magni
mpa uscia, come la notte fa
na quand' abbrucia le città.
d'aglietti ovver ii cipolline,
mazzi di monti a otto a otto;
vano l'alpi e le colline
'i poggi, e le mettean di sotto,
che valicava ogni confine,
lar si facea mastro Nembrotto ,
i^a gli armenti come noi
i de l'uva, e s'ingollava i buoi,
r, che le maremme d^ animali
lìsfatte in' una settimana,
ore e* * becchi, esche lor frali,
orna inghiottite e con la lana ;
.aro a gridare a gl'immortali
r de la magion sovrana,
> le piattelU: O messer osti,
roba ; e, se vuol costar, costi.
i, che la cucina e la dispensa
ornita di pane e di legna,
pascer il cielo, e poco pensa
ar quella canaglia indegna :
^ per fame in su la vota mensa ,
;ridavan; canchero ti vegna:
sente, e, pur badando a' suoi,
e ad alta voce : Or veng'a voi.
!H:hietano alquanto; ma, veggendo
san comparisce, e son canzone,
nai comportar più non potendo,
di man la briglia a la ragione,
on contrari cielo assalto orrendoi
a Essi,
Tirando sassi sena discrezione -
£ già verso Saturno e verso Giove
Per di sottu a Tiosù gragnuola piove.
Gli Dei, da le percosse sbigottiti,
Si cominciano armar dal me^zo al basso.
Zoppica M.irte, e chiama cbi l'aiti:
Che nel manco tal lon Tha colto un sasso.
Ebe portò racconci e ricucili
Al suo signor, con frettoloso passò.
Due grandi stivaloni di vitello,
Opra di mastro Nardo Scarpinello.
Tira sassi Fi'alte a tre a tre,
A cinquanta a cinquanta Briareo ;
Ne portano a cataste ove non n' è.
Sopra gli omeri lor Tizio e Tifeo :
Grande sfrombola sua d' intorno a se
Gira e rij^ira il poderoso Anteo ;
£ sì forte una volta sfrombolò.
Che Saturno in un gomito arrivò.
Grida il povero vecchio: Aita, aita:
Mercurio a Giove caricali balestro:
Sul Capricorno allor Pallade ardila
Cavalca, e saltar fallo agile e destro:
Porta a Giunou l' ancella scimunita
Gran quantità di rape in un canestro.
Dicendo che non trova altro per fretta,*
£ in giù la Dea raponzoli saetta.
£rcole da la mazza i ragnateli
Subito leva, e volgesi a i Titani :
A le bravure sue tremano i cieli,
Botola i sassi, e fa paura a i cani.
Scioglie da i capei d'or Diana i veli, -^
Senza fante aspettar, con le sue mani ;
R tra le chiome sue, mentre s' allaccia
L'elmo, fa de le corna una focaccia.
Bracciolini, Scherno degli Dei, canto XII.
LXXV. MomOf o il maldicente.
Era nato del Sonno e de la Notte
Un certo Momo, libero nel dire
Tanto, che spesso con le spalle rotte
Or qua or là li ^ convenia fuggire :
Che le parole chiamano le botte,
Chi non le sa frenare e custodire:
Ne mai pari a costui nel mondo yisse
Per sollevar sedizioni e risse.
Gli Dei, perch'ogni dì ne'ior banchetti,
Messi su da costui, lingua perversa.
Per lo capo tiravansi i panchetti,
Piatti e boccali, e'I nettare si versa;
Lo fecero sbandir per due trombetti
De la lor reglon lucida e tersa :
'Gii.
^ CRESTOMAZIA POETICA
ludi, lungi costui, lunga stagione Per entro al limitar, eoo la nifin destra
Steron lassù senza mai far quistione. Grave d' alto martello, e cou un chiodo
Sbandito Momo, ad abitare ei prima Ch'ella batte a l' ingiù su la finestra
Si mise in mare: e vi durò ben poco: Conliccandol per sempre, acuto e sodo,
Che la lìngua mordente più che lima, Sta la Necessità, dura maestra,
Anco accendeva in mezzo a L'acqua il foco; Da cui s' apprende in tròppo acerbo modo
Onde mandò da Talta parte ed ima Che fuggire o difendersi non vale
Nettunno un suo Tritone umido e fioco, Dal colpo inevitabile e fatale.
Che'l pigiò con le pugna, e poi sul collo Con la Morte del pari a mano a mano
CoMenti il prese e fuor del mar gettoUo. "Va lo Spavento , in abito da donna.
Momo scaraventato, a i neri numi Con le orecchie di lepre ode lontano:
De r inferno avviossi : e poi che giunge Di cangiante color, breve ha la gonna.
Sopra le ripe de* sulfurei fiumi, Sopravvenirli ' orribii caso e strano
Caronte il natte, e ne lo fa star lunge. Teme e trema, abbracciando una colonna.-
Torna il misero escluso a i chiari lumi La colonna rovina; onde ei perisce t
De l'aria; e col suo dir, che morde e punge, £ fuggir si vorrebbe, e non ardisce.
Non trova né capanna unqua né tetto Di negletti legati, e di ritorti
Che ricovero a lui presti o ricetto. Testamenti derisi alte montagne
Però, d* ogni città, d'ogni abitato Giacciono per le bgge e per le corti,
Paese a prima giunta il maldicente Tenaci men de i paviglìon di aragne:
Riconosciuto essendo e discacciato. L'eredità di mille vecchi accorti,
Come la peste, da tutta la gente; Per cui dentro si ride, e fuor si piagne,
£i per necessità 5*è ritirato Corre a brodetto, e si consuma e sbratta.
In un deserto, ove nessuno il sente, A la barba di lor che T hanno fatta.
£ biasmando pur sempre a bocca piena , Mille preghiere,o che la Morte vegna,
Or cou l'aria contende, or con l'arena. O che si parta, errar veggionsi al vento:
In una grotta ei s'è venuto a porre. L'avaro indarno a frenar lei s'ingegna,
Dove sta solo, e tutto 4f sbadiglia : Chegià non rende il suocammin più lento;
Che la sua compagnia ciascuno aborre. La sollecita quei che si disdegna
£ durar non può seco la famiglia: Di vii moglie mal presa, a suo talento;
Durar non può, perchè a le ingiurìe eicorre £ la chiama con speme e con desio
Senza dislinzlfone e senza briglia; 11 povero nipote al ricco zio.
£ minacciando e servitori e fanti, Ma fa la Morte orecchio di mercante;
Chiamali il primo dì becchi e furfanti. Gira a tondo la falce, e non risponde:
Bracciolini, Scherno degli Deij canto XIV. Ulisse le insegnò, quando costante
Passare ardì tra le sirene l'onde.
LXXYL La casa della Morte, Sì fa beffe di medici, e di quante
Kicette ogni speziai mesce e confonde ;
Posta è la casa in una gran pianura, £ di color che ne' pianeti leggono
A cui si va per cento strade e cento; Le vite, e in terra i colpi suoi non veggono.
£ tutte SOn con diligente cura Bracciolini, Scheroo degli Dei, canto XV.
Pulite più d' ogni brunito argento:
Soffia da cias» un lato, e sempre dura, LXXVII. Sopra i rimoni della
Spirando dietro a i viandanti, il vento; coscienza.
£ l'aura fresca a l'odiosa porta
I pie correndo e sdrucciolando porla. Io ' diedi a la giustizia mille morsi
Tondo è il ricco edificio: e di diamante Co* denti aguzzi di mio 'ngegno scaltro:
Le mura, sono a ciascheduno specchio lo stiracchiai le leggi , e là le torsi
Che si conduce al domicìlio avante, Ove pendeva il peso a' mìei 'nteressi ;
Bapido o lento, o giovanetto o vecchio. £ inverso quelli senza freno corsi :
L'uscio ha per entro un dul^bio calle erran- £saltai l' empio, e l' innocente oppressi;
Qual di più antri incavernalo orecchio; [te . Sopravvenirgli.
Che rende lui, con ammirabìl uso, s introduce il poeta a parlare un uomo ar-
5^/z^y^aJ'cntrarcaperto, aruscirchiuso. ricchiLo con caiiive arti.
. SECOLO DECllffOSETTlMO 69
£ ia ógni magistrafOy e in ogui ufHzio,
Di mU'ngìustizie alte vestigia impressi. LXXVIU. Sopra Vipoerisia.
Queste far le mie industrie, e l'artifizio
Che librò in aria il mio sublime volo, È un uom che ne Testerno
Assicorandol d*ogni precipizio. E tuttu pio, tutto devoto: e tengo.
È un po*di mal con molto ben consolo: Che da ciò non dissenta anco i*iuternok
Che col corso divoran la Salaria [ chi. Il litigar ch*ei fa, non so se scordi ^
£ PAppia, il buon cocchier flagella i fian^ Da quel lasciare il sajo a chi '1 mantello
Vagheggia il colle tusculano e Paria Ci toglie, che i) Vangel par che ricordi.
Schiva del Lazio la ben posta villa, Oh non ci obbligaa nulla: perchè quello
Or a l' ardor, ed or al gel contraria. £ un consiglio, che, non osservato,
L'-umor che Bacco a* verdi colli stilla Non rende Tuomo a Dio però rnbello.
De la Tolfa e d'Orvieto, empie i cristalli, Sta ben : me lo so anch* io: ma chi '1
£ la verdea, che d'dr puro scintilla. l>eato *
La lauta cena i più ricchi metalli Vuol far quaggiù; conviengli esser com*
Contengono: e s'incurva la famiglia D'una sola materia in ogni lato, [posto
Ovunque arrivi ', e gli occhi in quella ^ H capo che sia d'or, non fa composto
[avvalli. Col pie di crela; il dimostrò a Nabucco
A quanto al bel desio Velher consiglia, H suo fantoccio, che cadde ben tosto.
Soccorre il diligente camericro, 11 far da bacchettone, e badalucco
Che a tai bisogni il buon compenso piglia. Di venut'oggi; e il popol vi si getta
Se in questa vita puote alcun pensiero Q«'alor da qualcun altro umore è stucco.
Lugubre penetrare, e farvi nido, Ma perchè tal bontà non è concetta
Dical ognun ch'abbia '1 giudizio intero. Per entro a'cuor, ne' fatti non risponde,
Dillo pur tu ': te solo appello e sfido Com'in certe apparenze, si perfetta.
De la tua coscYenza al tribunale: ^pief!»^ ^^ proprie e l'accattate fronde
Senz'altro testimou, di lei mi fido. L'arbor che in qualche ramo sol s'innesta;
£lla non può mentire: ella è il fiscale Ma selo'nsertoin mezto al tronco asconde,
Che per parte di Dio premia e gastiga D'un verde sol s'inghirlanda la testa,
£ntro la nostra mente il bene e '1 male. E un sol umor ne'suoi rami diffuso,
Ella dirà se goda, o se t'afHiga D'una sol boccia tutt'i frutti appii^stà.
Tuo cuor, o se ti sturbi o rassereni; Ben resterà del suo creder deluso
Se viva in pace o in travagliosa briga. Chi tutte l'opre aspetta d'un sapore
Ella dirà le ruote e le catene. Da' santi che ci stampa il modern'uso.
Le corde e i ceppi e gl'infuocati bronzi; Bade vnlte addivien che quell'umore
E ad una ad una annovrerà^ tue pene. C^c tutti gli altri eccede, si reprima: .
Dirà r nitrici fiamme ove tu abbronzi; Sicché se un uom d' un altro appar mi-
Dirà qual verme entro l' udito interno, [gliore,
Stnia^ mai rifinar, sempre ti ronzi. Non è che più di quel la spoglia <^ima
Quest'è il prìmo servito che l'inferno Di se stesso riporti ',• ma s'abbatte ^
Ti porta: acciò t'avvezzi a le vivande Ch^ in tal umor manco vclen s'imprima.
Che si cucinan giù nel fuoco eterno. Tahin fa '1 bravo, evolentier combatte
Senti '1 fetor che da quelle si spande; Con chi non si rivolge; che se 'l dente
Sen li l'amaro ch'ogni dolce inficia: Cri i è niostro , per fuggir le gambe ha ratte .
Onde sospiri in van per quelle ghiande ^^u f^ii'l casto perchè ne i lombi haispente
Il coi sapor sol innocenza immela. ^^ faci; e quel vigor che '1 senso instiga,
Soldani, Satira I. ^^^ ^^"o g'^ce in te freddo e languente.
• Io arrivi. « Cioè nellafamigUa, j, JJ" ^"^^^^ più maligna ti gastiga;
» Parla il poeta in persona propria! * ^^'^^^ «-'*»« ^^^ « accende entro le vene,
4 Aonov^erà. » Discordi. a Santo.
3 Vinca sé stes<o« A ^'^NveoR-^^ tshan^
00 CKKSTOMAZIA POETICA
Ma par che l'apprensiva solo afflìga. E taccia il gregge che dietro si tira.
Quest'èl'ambizion,cheal*uomnonviene Questi il filosofar rinchiude e lega
Per cosa che sia annessa al suo lignunlo, 'ira i cordovani ov*c stretto il maestro;
Come Venere è '1 ciho che '1 sostiene; E quel che fuor rimane, esser ver nega.
Ma par chVIla abbia il letto e il nutri- Or s*io mi sento in gambe esser ben destro
In un falso discorso, che ci mostra [mento A varcar quei confin, pcrch al mio piede
Per rea! sussistenza e l'ombra e il vanto. Poni il peripatetico capestro?
Que:
Prendi
E finche non l'abbatti, alcun non dica Chi si dà quest'impacci e queste noje,
Che tu sia santo: tienli santo allora La verità non ha già per oggetto;
Che con lei non avrai briga o fatica. Ne vuol tener in prezzo quelle gioje
Anzi non ti tener: che quando ancora Che essendo false, gli fa gran dispetto
Abbattuta tu l'abbia, e che non pregi Chi arreca de le vere, e le sue smacca,
11 fasto, che cotanto il mondo adora; Mostrando al paragone il lor difetto.
Può esser nondimen che tu 'l dispregi O mente umana! e che è quel che intacca
Con altro fasto, e la giornea t'allacci Tua natia libertade? un sogno, un'ombra,
Tropp'alto,e troppo eslimi i propri pregi. Un po*di fumo, ch'a nulla s'attacca.
'N un sacco rattoppato, in quattro slrac- E una opinion, che '1 volgo ingombra
Ne l'umiltà, nel disprezzo del mondo [ci, Di tua scienza, e il ver seco ne porta,
Sovente la superbia ha teso i lacci. E d'un più bel^piacer l'alma ti sgombra.
Quel ghigno mansueto, quel giocondo Ardisci a non saper: qnest'è la poipta
Parlare, e quella faccia*sì tranquilla, Che può introdurre in te quell'aurea iace,
Celan mostri più fieri giù in qiiel fondo. Che *l vero gaudio a l' intelletto apporta.
Che ne'latranti fianchi non ha Scilla; Che se al popol ?isibil non traluce
Scilla, che i legni e i naviganti ingoja H tuo saper, non per questo s'attristi
Là dove il mare in sasso convertilla. Tuo cuor, ma segua un più costante dnce.
Guarti \ come da febbre onde si muoja, Jo/rfawi, Satira [
Di toccar ad alcun di questi santi
Cosa che un po'gli sturbi o rechi noja. LXXX. Sopra gli onori e le grandez-
Alcun non sia .che in quegli umor pec- ze del mondo y e la felicità della vi"
Chedlcemmodisopra,gli attraversi; [canti ta privata.
Se comperar non vuol liti a confanti.
Quel si picca di dotto: vagli a'versi; Scioglie dal lito ìspan ligure abete,
Fa che, non solamente le parole, Che d'immensi tesori,
Ma che i pensierda'suoinonsien diversi. Prede al mar destinale, il ventre ha carco:
Nega, se nega, eh' e' riluca il sole; Come scitico strai spinto da l'arco,
Di cosa alcuna non formar concetto ^ela fra i salsi umori,
Né più qua ne più là di quel eh' e' vuole. Gravido i tesi lin d*aure quiete.
Adunque devo il mio franco intelletto. Ecco improvviso il ciel balena e tuona;
Che né pure anco il Cielo hainsuabalia. Da l'antro Eolo sprigiona
A l'arroganza altrui render soggetto? La turba impetuosa; orrida cresce
< Sì, se non vuoi che un campanel ti sia L'cnda, cui più d'un vanto agii.? e mesce.
Appiccato di dietro, eh' Epicuro Sospiroso il nocchier cala le vele,
Tu segua, o altra sorte d'eresia. E con provvida destra
Soldani, Satira II. Era le cieche'procelle il timon gira:
Ora l'indica pietra, ora il ciel mira.
LXXIX. Soprala libertà del Ma null'arte maestra
filosofare. ' Giova contra il furor d'Austro crudele:
Egli de le tenaci ancore adonche
Taccia e s'acqueti il barbon di Stagira Già le ritorte ha tronche:
Quando questo volume « si dispiega: Onde al nocchier, ne l'ultimo perìglio^
' Guardali, ^ Il volarne della aalara. Somministra il timor saiM) consiglio.
SECOLO DECIftiOSpyfTlMO GÌ
le miserie soe prodigo ci fatto, Usciva a pascer l*agne ,
del mar le voglie; Su la costa del monte, o lungo il rio;
le merci entro le vie profonde. £d ei d'arpa gentile al suono intanto
e veggonsì alior notar per Tonde Dolce snodava il canto,
esiose spoglie, £ consacrava, tn mezzo agliantriombro-
m da l'india avida gente ha tratto; Al motor de le sfere inni festosi. [si,
i ori intenti e de*tilati argenti Ecco, re diSionne il ciel Telegge
ludibrio i vénti: In mezzo a le foreste,*
legno, che parca pur dianzi assorto, ^' di sacru liquor Tunge il profeta.
di lor, se ne ricovra in porto. ^ prudenza ineffabile e segreta
ite, so ben che *1 procelloso regno De la mente celeste!
i Nettuno impero, A. le bell'opre tue chi può dar legge?
r non vuoi con temeraria prora: Cangiar la verga inscellro in un momento,
mar del mondo ha i suoi peri gli au- ^ di rettor d'armento
i senza mistero [cora; farsi rettor d'eserciti e d*imperi !
roTvido nocchier l'arte t'insegno. Così va: molto avrai se nulla speri,
lusinghier desio, che sì t'alletta, Testi,
bra da l'alma; e getta
e speranze ingannatrici: e l'alma LXXXI. Sopra il medesimo
tempeste sue troverà calma. argomento.
n hanno (ed a me *1 credi) altro che
go e spezioso ['1 nome Non aura popolar, che varia ed erra,
^e che '1 mondo insan grandezze ap- N(m l'ulto stuol di servi e di clienti,
siamicodestin,propriziastella; [pella. Non gemme accolte, o cumulati argenti,
l'ostro luminoso Petto mortai pou ' far beato ìu terra,
nga un giorno il Vatican le chiome: Beato è quei che, in libertà siiura,
rado eccelso, infra gli onori immensi, Povero ma contento i gioriii mena; .
ra faranti i sensi; il che, fuor di speranze e fuor di pena,
ù lieto sarai di me, che, privo Pompe non cerca, e dignità non cura,
li splendor, fra queste selveor vivo. Pago di se medesmo e dì sua sorte,
r che grandini acerbe, onebbieoscu* Ei di nemica man non teme offesa,
li angusti miei rampi [re. Senza ch'armate schiere, in sua difesa,
ler non miri a dissipar le spiche, Stian de l'albergo a custodir le porte.
:hc d' autunno, in queste piagge a- Innocente di cor, di colpe scarco,
a imbrunir a i lampi [priche, Ei non impallidisce e non paventa
mperato Sol l'uve mature; Se tuona Giove, e se saette avventa
[ueto i' dormirò fra le nud'erbe. Del giusto (.iel l'inevitabil arco,
tri sotto superbe Segga chi vuol de'sospirati onori
ne d'oro, ov'albergar non ponno Su le lubriche cime; offrirsi veggia
a stagion la sicurezza e '1 sonno. Quanti colà dove l'Idaspe ondeggia,
più de l'alma mia caro a me stesso, Per la spiaggia eritrea, nascan tesori:
)mpi le mie paci, A me conceda il faretrato Apollo
>l tuo duol turbi i miei dì sereni. Che da la corte a solitaria riva
lascia i sette colli, e qua ne vieni, Io passi un giorno: e là felice i'viva,
dove a le mordaci Col plettro in mano e con la cetra al collo:
non è di penetrar concesso. £ poi che pieno avrà con la man cruda
ie '1 Ciel ti destina alte venture, Il fuso mio l'inesorabil Cloto;
teste selve oscure Rustico abita tor, a tutti ignoto,
rovarti saprà. Più d'A.rgo ei vede, Se non solo a me stesso, i miei dì chiuda.
5S0 innalza più chi men sei crede. Testi.
^torello ebreo l'ore spendca: Poco spazio di terra
)r ch'in oriente il di uascca, ' Pouao. Possono.
62
CRESTOMAZIA TOETICA.
Lasciali ornai rambitìose moli
A le rustiche marre, a i curvi aratri:
Quasi che muover guerra
Del ciel si voglia, a gli stellati poli,
S'ergono mausolei, s'alzan teatri;
£ si locan sotterra
Fia su le coglie de le morte genti
De le macchine eccelse ì fondamenti.
Per far di travi ignote
Odorati sostegni a i letti d'oro,
Si consuman d'Arabia i boschi interi.
Di marmi omai son vote
Le ligustiche vene: e i sassi loro
Men belli son, perchè non son stranieri:
Fama han le più rimote
Rupi colà de P Africa diserta;
Perchè lode maggiore il prezzo merta.
Cedon gli olmi e le viti
A Tedre, a i lauri; e fan selvagge frondi
A le pallide ulive indegni oltraggi:
Sol cari e sol graditi
Son gli t.mbrosi cipressi, e gli infecondi
Platani, e i mai non maritati faggi:
Da gli arenosi liti
Trapiautansi i ginepri ispidi il crine;
Che le delizie ancor stan ne le spine.
Il campo ove matura
Biondeggiava la messe, or tutto è pieno
Di rose e gigli, di viole e mirti:
La feconda pianura
Si fa jiovo diserto; e il prato ameno
Boschi a forza produce orridi ed irti:
Cangia il loco natura;
E de{ moderno ciel tal è Tlnflusso,
Che la sterilità diventa lusso.
Non son, non son già queste
Di Romolo le leggi; e non fur tali
O de*Fabrizii o de*Caton gli esempli.
Ben Toi fregiati aveste,
de Palma città numi immortali,
Qnal si dovea, d*oro e di gemme i templi.
Ma di vii canna intesle
Le case furo, onde con chiome incolte
1 consoli di Roma uscir più volte.
quanto più contento
Vive io Scita, a cui natio costume
Insegna d'abitar città vaganti!
Van, col fecondo armento,
Ove più fresca è Terba e chiaro il fiume.
Di liete piagge i cittadini erranti:
Dan cento tende a cento
Popoli albergo: ed è delizia immensa
Succhiar rustico latte a parca mensa.
Ifoj, dJ Larbara genU
Più baritari e più folli, a giuèto «degno
La natura moviamo, il mondo e Dio;
E ne Tozio presente
Istupidito è sì l'incauto ingegnoi.
Che tutto ha l'avvenir posto in obbUo;
Quasi che riverente
Lunge da i tetti d'or Morte passeggi,
£ il Ciel con noi d'eternità patteggi.
Testi.
LXXXIII. Sopra l'Italia.
Ronchi, tu forse a pie de l' Aventino
del Celio or t'aggiri. Ivi tra l'erbe
Cercando i grandi avanzi e le superbe
Reliquie vai de lo splendor latiuo.
£ fra sdegno e pietà, mentre che miri,
Ove un tempo s'alzar templi e teatri.
Or armenti muggir, strider aratri;
Dal profondo del cor teco sospiri.
Ma de l'antica Roma incenerite
Ch'or sian le moli, a l'età ria s'ascriva:
Nostra colpa ben è ch'oggi non viva
Chi de l'antica Roma i figli imite ' .
Beo molt' archi e colonne iu più d* un
[segBo
Serban dei valor prisco alta memoria;
Ma non si vede già, per propria gloria
Chi d'archi e di colonne ora sia degno. .
Italia, i tuoi sì generosi spirti
Con dolce inganno ozio elascivia han spcn-
£ non t'avvedi, misera, e non senti [ti.
Che i lauri tuoi degenerare in mini?
Perdona a i detti miei. Già fur tuoi stu-
D urar le membra a la palestra, al salto; [di
Frenar corsieri; in bellicoso assalto
Incurvar archi, impugnar lance e scudi. ■
Or, consigliata dal cristallo amico,
Nutri la chioma, e te l'iocrespi ad arte;
K ne le vesti, di grand'ór cosparte,
Porti de gli avi il patrimonio antico.
A profumarti il crine Assiria manda
De la spiaggia sabea gli odor più fioi; i
£ ricche tele, e preziosi lini,
Per fregiartene il collo, intesse Olanda.
Spuman ne le tue mense,in tazseaante,
Di Scio pietrosa i pellegrini umori;
£ del Falerno, in su gli estivi ardori^
Doman l'annoso orgoglio onde ^late.
A le superbe tue prodighe cene
Mandau pregiati augei Numidia e Fasi;
E fra liquidi odori, in aurei vasi,
Fuman le pesche di lontane arene» i-
* Imiti.
SECOLO DECIMOSKTTIMO 65
imii fosti già tu quando vedesti Con rigor saggio a più degn!opre aTvezKa.
)li aratori in Campidoglio, Non è minor fortezza
ruvidi fasci, in umil soglio II rintuzzar di duo begli occhi il lampo,
mirasti i dittatori agresti. Ch'il debellar di mille squadre un campo;
le rustiche man che dietro alptau- Che vai condursi avanti
iavan pur dianzi i lenti buoi, [stro Al carro trionfante, in lunga schiera,
rti il regno, e gli stendardi tuoi Incatenate, le provìncie e i regni;
fando portar dal borea a Taustro. Mentre che ribellati
li tante grandezze appena resta S'usurpino dei cor la reggia intera,
a rimembranza: e mentre insulta Mal grado di ragione, affetti indegni?
or morto, a la virtù sepulta, 6*in te stesso non regni,
baro rigor preme e calpesta. Se soggetta non rendi a te tua voglia, ^
irhi, se dal letargo in cui si giace Guerrier non sei, se non di nome e spoglia,
[scuote l'Italia, aspetti un giorno Sovra il lucido argento
menta mia lingua) al Tebro intorno De le porte superbe impresse Armida
npato veder il Perso o 'i Trace. Di famoso campinn l'arme e gli amori.
Testi, Con cento legni e cento
Fende il leucadio seno; e non diffida
KJ\, Ubaldo a Rinaldo fuggito Piantar in riva al Tebro egizii allori:
dal palazzo di Armida, Ma fra i bellici orrori.
In poppa che di gemme e d'dr riluce,
de la maga amante L'adorata beltà seco conduce,
lutata magion lasciata avea Con l'armata Ialina
degni pensier Rinaldo inteso; Cozzan del Nilo i coraggiosi abeti:
lino volante Pari è il valor, e la vittoria è incerta,
adico oceàn Tonda correa, Ma la bella reina
t'altri nocchier cammin conteso. Ch'atro mira di sangue il seno a Teti,
! l'incendio acceso Volge i lini tremanti a fuga aperta:
'a ancor ne l'agitata mente E dietro a l'inesperta
valier qualche reliquia ardente. £ timida compagna Antonio vola;
le l'amata riva, £ l'imperio del mondo Amor gl'invola.
i Ioatan fuggia, non senz'aiFanno Or qual darti 4>oss'io
lo sguardo immobilmente fiso. Di traviato cor più vivo esempio,
eì che mai viva Di quel ch'a te l'idol tuo stesso espresse?
odono pur dianzi. Amor tiranno Te cerca il popol pio,
^nrava ognor presente il viso: Te chiama a liberar dal tirann'empio
a lui, che conquiso La sacra tomba, e le provinrie oppresse:
tsio, per pietà si venia meno, £, quasi in oblio messe
un caldo sospiro uscia dal seno. La fé, la gloria, in vii magton sepolto
con ricordi egregi Tu resterai, idolatrando un volto?
»sto incominciò del cor turbato ^ Aspra, Rinaldo, alpe«tra
:o Ubaldo a tranquillargli i sensi. È la via di virtù: da'regni suoi
;eiiìe di regi; Vezzi, scherzi e lascivie han bando eterno,
r del 1 race; a cui riserba il fato Accoppia a forte destra
d'Asia i trofei; che fai? che pensi? Anima continente ; e i prischi eroi
quei mal accensi Sitemi di gloria in tuo paraggio i'scerno.
che versi; e pria ch'acquisti forza, Quell'è valor superno
Rima rinascente affatto ammorza. Ch'in privata tenzoii col'proprio affetto
:rtedi al vulgo insano, Sa combattendo esercitare nn petto,
è gentil fallo in cor guerriero, ^ Testi.
fi scusa a peccar è gran bellezsa:
nsiglie più sano LXXXV. La nobiltà e la «trtù.
iniatra virtóte^ filiali pensiero
Superba nave a fahhcicat VqA.^eq&x^V
64 CRESTOMAZIA POETICA
Dal Libano oclorato i cedri tolga £ (-ieca è quella man che fuor lì tir».
Tudustre fabbro; e sciolga Sola Virtù, del Tempo invido a scherno^
Lucida vela di tessuto argènto; Toglie i'uom dal sepolcro^c'lserbaia vita.
Seriche sian le funi, e con ritorto C'>n memoria gradita
Dente l'ancora d'or s'affondi in porlo: Vive del grande Alcide il nome eterno,
Non per tanto avvcrràchemenoondose Non già perchè iigliuol fosse di Giove,
Trovi le vie de'lempestosi regni; Ma per .mille ch'ei fece illustri prove.
E «'preziosi legni Ei, giovinetto ancor, in doppio calle
Le procelle del mar sian piìi pietose; Sotto il pie >i mirò partir la via.
Ne che fona maggior l'argenteer vele A sinistra s'apria
Abbiau contro il furor d'Austro crudele. Agevol il sentier giù per la valle-
Che giova a l'uom vantarperanuie lu- Fiorite eran le sponde; e rochi e lenti
[Stri Quinci e quindi scorrean liquidi argenti.
De gli avi generosi il sangue e '1 merto, Ripida l'altra via, scoscesa, alpestra,
E in luug'ordine e certo Salia su per un monte; e bronchi e sassi
Mostrar sculti dipinti i volti illustri; Ritardavano i passi.
Se '1 nobile e M plebeo con egual sorte Generoso le piante ei volse a destra:
Approda a'iili de l'oscura morte? E ritrovò il sentier de l'erto colle,
Là dove i neri campi di sotterra Quanto piùs'innoltrava, ognor più molle.
Stige con zolfo liquefatto inonda, Onda fresca, erba verde, aura soave
E, con la fetid' onda, Godean Tcoceise e fortunale cime.
De l'inferna città l'adito serra; Quivi tempio sublime
5tassi nocchier che con sdrucita barca Sacro a T Eternità, cjn aurea chiave,
La morta gente a l'altra sponda varca. Virtù gli aprio: quindi spiegò le penne.
Ivi il guerrier del rilucente acciaro ^ luogo in ciel fra gli altri numi ottenne.
Si spoglia; ivi il tiranno umil depone Testi.
Gli scettri e le corone;
E l'amato tesor lascia l'avaro: LXXXVI. Caducità dell'uomo
Che *l passegger de la fatai palude e delle opere umane.
Nega partir se non con l'ombre ignude.
O tu, qualunque sei, che gonfio or vai. Trita è la via che ne conduce a Stige:
Più de gli altrui che de'tuoi fregi adorno; Noi per l'altrui vcstige,
Dopo l'estremo giorno, E per le nostre altri verran. Bellezza,
Più cortese nocchier già non avrai; Pudicizia, virtù Morte non prezza.
Ma nudo spirto, ombra mentlica e mesta. Vezzosa Elena fu sì che poteo *
Varcar ti converrà l'onda funesta. Mover de l'Asia a i danni.
Orgoglioso pavone, a che ti vante ' Sol per lei racquislar. Sparta e Micena?
Del ricco onor de le gemmate piume? .E pur tanta bellezza alfìn cadco *,
Gira più basso il lume E 'l tempo ingordo e gli anni
De'tuoi fastosi rai: mira le piante. Viva ne lascian la memoria appena.
Copriran breve sasso, angusta fossa, Vii polve e poca arena
Le lue superbe sì, ma fra«:id'ossa. Son or Penelope, Lucrezia e Laura;
Da preziosa fonte il Tago usceildo, E *1 grido del lor nome è un soffio d'aura.
Semina i campi di dorata arena; Dura necessità seco ne tragge*. •
Ma, qual ruscel ch'a pena Ciò ch'in terra e di vago,
Vada con poche slille il suol lambendo. Sasso o bronzo sia pur, l'età divora.
Sen corre al mar; ne più fra i salsi umori Chi di Rodi or m i mostra in su le le spiagge
Raffigurar si pofi ® gli ampli tesori. La celebrata imago
De i tiranni a le reggie, ed a i tuguri Del dio ch'in oriente il dì colora?
De'rozzi agricoltor con giusta mano Chi de la casta suora
Picchia la Morte. Insano Ne le paludi de Tefesio suolo [solo?
È chi spera sottrarsi a i colpi duri. Or m' addila il bel tempio, o un marno
Grand'urna i nomi nostri agita e gira, Nocchieri o voi, se la riviera aprica
' Faati: B Poaao, Possono. ' Poiè. « Cadde,
SKCOLO DKCI MOSETTI MG
6&
Abbandonaste e i colli
U* faman dì Vulcan gli atri camini ;
O se di Creta, al gran tonante amica,
(i di Tiro, o da i molli
Regni di Citerea scioglieste i lini ;
De i fortanati pini
Deh raffrenate il volo in quella parte
Che da T Ionio mar l*£geo diparte.
Trascorrete con l'occhio i fluiti amari;
Cercate di Nettuno
£ Tana e l'altra sponda: ov'é Corinto?
Ove il gèmino porto, e di due mari
Il commercio opportuno ,
Onde il Tebro a' onor quasi fu vinto?
Ei, col suo nome, estinto
Ora sen giace ; el lido inculto e vóto
Al pescator d' Acaja appena è noto.
Testi,
LXXXVII. Invito a un cortigiano.
Or che da noi,signor /partendo il maggio
La notte accorcia, e ne rallunga il giorno;
£ con ardente e fervido passaggio,
Fa da i gemelli al cancro il Sol ritorno;
Or che, percosse da l' estivo raggio,
Sembrano biondeggiar le biade intorno;
K dove ombreggia il pino, e l'aura spira,
ia sparsa greggia il pastorel ritira;
Fra queste spiagge solitarie i'vivo,
A'nojosi pensier sottratto e tolto :
Qui, con le muse mie scherzando, scrivo
Or d' una bella chioma, or d' un bel volto:
£del lazio e del tosco e de Targivo
Paese i cigni ad imitar rivolto,
Le lor carie trascorro, e da' migliori
Colgo fortivamenfe or frutti or fiori.
Qui di vane speranze aura fallace
Gonfiar non può l'ambiziosa mente;
Qui de r invidia, a cui virtù soggiace,
Il tosco o non arriva o non si sente;
Ma in oziosa e riposata pace,
Qual già ne l'aurea età la prisca gente ,
Si passa il dì ; ne mai tra i fiori e l' erbe
Vengono ad abitar cure superbe.
-S'armi contro il suo relaGallia altera.
Colma di risse, e di tumulti pregna ;
Contrasti Carlo a la potenza ibera,
£ la natia sua libertà man legna:
Pur che con rauco suon tromba guerriera
Fra queste piagge a rimbombar non vegna,
Poco o nulla a me cai s' in altra parte
Trionfa morie al guerreggiar di Marte.
Nostre guerre sonqm, per la foresta
LcoPABDi, Crestomazia. IL
JNlirar duo lori in bella giostra urtarsi;
£ ritornar con la coreuta testa
Duo cuzzator montoni ad incontrarsi.
Spcltalrire la gregeia intorno resti,
Sì che de' pascili suoi sembra obbliarsi ;
E ne ride il pjslor, che sopravviene
Cantando al suon de l' incerate avene.
Deh, se la corte, e i tuoi pensier maggiori
Non invidian, signor, la gloria mia;
Fa ch'onorato un dì da' tuoi favorì.
Rustico abitator quanlunque, i'sia
Involato a'nojosi e gravi ardori
De la città ; ne disdegnar che dia
Ad ospite sì grande e sì gentile
Villereccia magione albergo umile.
Qui sul meriggio, allor che più cocente
Febo dal ciel suol saettare i lampi.
S'ode un'aura spirar si dolcemente,
Che de l'arsa stagion mitiga i vampi ;
E poiché tramontando a l'occidente
Torna di Tcti a gli arenosi cimpi,
Un musico usignuol che l'aria moke.
Fa del pari il veggliiar e il dormir dolce.
Qui non vedrai de' persici apparali
Lussureggiar le pompe; e sopra i lini
Da fuso babilonico filati,
Fumar cibi stranieri e peregrini:
Non da lontano pescator cercati
Novi saran per noi parti marini;
Ne fra liquidi odori, in aureo vaso,
Le mense onorerà l'augel di Faso.
Godrai di mensa rustica e selvaggia
Semplici condimenti. Avrai di fiori
Sparsi i candidi lini: e de la piaggia
Colli per te saranno i primi onori.
Fian preziosi cibi o lepre eh' aggia'
Preso il mio veltro infra i solinghi orrori,
qualche augel che per V aerea via
Fulminato da me col piombo sia.
Qui non vedrai sparse ne'frutti, a scher-
De l'ardente stagion, nevi gelate; [ no
E trionfar su per le mense il verno
Disprezzalor de la più calda eslate:
Qui non vcrran di Creta o di Falerno
O de l' alpestre Scio l' uve beate;
Né fra capace argento i geli alpini
Agghiacceran per noi massici vini.
Scorre con tortuosi incerti giri
Non hmtano da me ruscello errante ,
Limpido sì, ch'in lui ritratto miri.
Come in terso cristallo, il Ino sembiante:
Fanno a' gelidi suoi vaghi zaffiri.
Intrecciate fra loro, ombra le piante:
' Abbia.
06 CRESTOMAZIA POETICA
£i serpeggia per l*erba; e, tra le sponde, La schiera de l*Eumeni(1i spietate,
Con FOCO mormorio palpitan l'onde. ' Per condurre a Piuton l'alme danntte.
Qui nel più freddo e più gelato fondo Molti giurar ( sieno bugiardi , o'sia
Bacco per te s*attufferà. Godrai II timor che per vero il falso miostri )
Ciò che il terren domestico e fecondo Che visto avean per quell'orribil via
Può da le viti sue produr giammai. Uscire e ritornar le Furie e i mostri:
Non di metallo rilucente e biondo Disser che sospirar quinci si udia
Splendida coppa e preziosa avrai, Il vulgo condannato a i neri chiostri,
Ma trasparente vetro, ove tu miri E Cerbero latrar, fremer Caronte,
Or brillar i rubini, ura i zaffiri . ^ E gorgogliar de la gran Stige il fonte.
Vieni dunque, signor; e non t'aggravi Vive morta a i piaceri in questo speco
Bozzo abitar e solitario tetto : Una donna, una Furia , anzi una morte;
Ch'i nojosi pensier' , le cure gravi Ch' ha pestifero fiato, e guardo bieco,
In rustica magion non han ricetto. ^ Crespa fronte, atra bocca,e guance smorte:
Ben ne la corte, e sotto a l'auree travi, Intrecciano i capei, con ordin cieco,
Timidissimo ognor veglia il sospetto; Di varie serpi orribili ritorte;
E ne l'ampie città volando vanno E, strisciando per gli omeri, contrasta
La bieca invidia e il fraudolente inganno. La vìpera , il ghelidro e la cerasta.
Testi. Di sembiante deforme, e d'anni antica,
Nacque di cieco padre occhiuta figlia:
LXXXVIII. La Gelosia, E pur figlia d' Amor, d'Amor nemica,
Per eccesso d'amor l'Odio simiglia.
Dove V alta Pirene al ciel confina , Cerca il suo male , e '1 suo dolor nutrica ;
£ le fiamme del Sol tempra con gelo, Non approva e non vuol quel che consiglia;
Giace una valle, a cui la bruma alpina Non vuol che si ami, e va sol dove siami;
Tesse d'aspro cristallo orrido velo. D'ombre si pasce; e Gelosia si chiama.
Primavera non mai qui s'avvicina. Nulla ardisce, assai (lensa, e tutto tenta;
Qui non mai pura l'aria, e chiaro il cielo; Tropp'ode, troppo mira, e troppo crede:
Ma con dubbio splendor nubi interrotte Una larva i'ajEÀigge e la spaventa :
Danno in lume di giorno ombredi notte ' . Non si appaga del vero, e sempre,il'chiede;
L'ispido verno a la deserta valle Accusa insieme e scusa; e si tormenta
Lega i ruscelli, ed incatena i fonti; De l'altrui ben; dà fede, e non ha fede;
£ l'elei annose incurvano le spalle Arde ed agghiaccia , e sempre in sé dis-
A sostener d' antiche nevi i monti. [ corda;
Offrono al peregrin lubrico calle Cent' occhi ha cicca, e cent' orecchie ha
L'acque, fatte a lor stesse argini e ponti; [ sorda.
Trema il pie di chi mira, e par che tardo Quivi intorno il Pensier tacito vaga.
Fra SI rigidi oggetti agghiacci il guardo. E i suoi vani sospetti offre a la mente ,
Non trascorrono mai le piagge algenti, E le menzogne adorna, e in lor si appaga,
Se non smarriti, i timidi pastori; Condanna il vero e la ragion non sente.
Ne mai rompono augei, turbano armenti Quivi geme il Timor; quivi s'impiaga
Il profondo silenzio a i cupi orrori. La Discordia la man col proprio dente;
Bapaci belve, orribili serpenti Quivi la bieca Invidia il cor si rode; ^
Son de la cieca valle abitatori; Quivi l' Error , lo Scandalo e la Frode.
E si odono fra i boschi e fra le rupi Pallido batte il Pentimento il seno ;
Fischiare i draghi, ed ululare i lupi. Macilente il Dolor piange e sospira;
Botto in più balze un dirupato sasso E lo Sdegno, di rabbia e d*odio pieno,
Circondata di spine apre una grotta Vibra la spada, e la facella aggira.
Terribil sì, ch'altri tentar col passo Colmo il bicchier d'acheronteo teneno
Non osa ii varco, ove mai sempre annotta. Folle Disperazion lieta rimira t
Ma crede ognun ch'indi si cali al basso Essa il tosco prepara , essa lo piglia.
Begno d* Averno, e eh' ivi sia ridotta Questa de l'empia vecchia è la famiglia. \^
* Espressione copfoime al cattivo gusto dì Grazìani, Concpiisto di Granata,
quel secolo, CMitto XK*
SECOLO DECCMOSETTIMO
69
inimal per la celeste mensa
de cnsa donò da lui raccolta,
pe, fra gli altri, a la real dispensa
certo suo miele, il qual di fresco ]
colato avea con cura immensa.
;sto piacque così, chei numi a desco
li furon tra lor quasi a le pugna;
fa per il vìn Io stuol tedesco,
a avida l'umor succhia la spugna:
leccaro i Dei le dita in guisa,
(rean scarniti i polpastrelli e Pugna,
indi da Tape informazion precisa
ero di quel miei; la cui ricetta
n che fosse a lettre d*oro inrisa.
pe rispose che di rosa schietta
icato l'aveva; e che da questa
a al miei quella dolcezza eletta:
ve nel miei che volga «mente appresta
rava in confuso il fior d'ogni erba
I nasce ne gli orti, o a la foresta,
stupiron gli Dei che sì superba
zza fosse entro la rosa ascosta,
Der le spine appare aspra ed acerba,
lor da Tape ogni virtude esposta
i la rosa; e seguitò narrando
ibiltade e il pregio in che ella è posta:
:endo che il sapnr tanto ammirando
n lei derivato, in un con l'ostro,
iettare che Amor versò ballando,
somma Pape in quel beato chiostro
rosa inalzò, che fé stimarla
bontade e di bellezza un mostro,
ove attento de Tape udì la ciarla;
pò in premio di quel miei sì grato,
la de gl'insetli ei volse ^ farla :
n patto che da lei si fosse dato,
1 suo piatto, in ogni settimana,
tal somma di quel miei rosato.
1, pprrhè udito avea la sovrumana
ra de la rosa, ivi creolla
irchessa de'fiori alta e sovrana,
rminate le nozze , e già satolla
rba de gli Dei; dal sommo letto
i animali si partì la folla.
n l'ape ognundi lor, colmo d'affetto,
legrò: ma, pien d'astio o d'orgoglio,
)e lo scarafaggio ira e dispetto,
spinto da Pinvidia e dal cordoglio,
> pensando un certo stratagemma
rre a l'ape in un l'onore e il soglio.
ndi egli cominciò, solo e con flemma ,
i ^5sa a sporcar tutte le foglie,
i che uscisse il Sol fuor di maremma:
olle.
K mentre l'ape a cor le dolci spoglie
Giva de'fiori, ei con sozzura immonda
Le corrompeva il miei dentro le foglie.
Volando l'ape a la celeste sponda.
Fece a Giove saper questo strapazzo,
Esclamando sdegnata e furibonda.
Giove entrò in bestia, e fece un gran
[schiamazzo:
Sicché a cercar l'autor di quell'ingiuria
Scese Mercurio dal sovran palazzo.
£ in un tratto il trovò (che mai penuria
Non si die di spioni): onde fu preso
Lo scarafaggio, e torturato in furia:
E perchè, quando il re si tiene offeso.
Non si adopra orinolo in dar la fune,
11 fatto confessò chiaro e disteso.
Quindi da'numi, per parer comune.
Come invido convinto e già confesso.
Non fu lasciato di quel fallo impune.
Perchè dunque tentòcon empio eccesso
Di tor l'onore a l'ape, a lei facendo
De l'alveario e de la rosa un cesso;
Fu sentenziato con rigor tremendo,
Ch'ei viva ne lo sterco, e che gli^ia
De la rosa l'odor veleno orrendo.
Salvator Rosa, satira VI .
XCV. Sopra il vino.
Se de l'uve il sangue amabile
Non rinfranca ognor le vene.
Questa vita e troppo labile.
Troppo breve, e sempre in pene.
Sì bel sangue è un raggio acceso
Di quel Sol che in ciel vedete;
E rimase avvinto e preso
Di più grappoli a la rete.
Su su dunque, in questo sangue .
Rinoviam l'arterie e i musculi:
E per chi s'invecchia e langue
Prepariam vetri majusculi:
Ed in festa baldanzosa,
. Tra gli scherzi e tra le risa,
Lasciam pur, lasciam passare
Lui che in numeri e in misure
Si ravvolge e si consuma,
E quaggiù Tempo si chiama;
E bevendo e ribevendo,
I pcnsier mandiamo in bando.
Redi, Bacco in Toscana.
XCVL Contro il bere acqua.
Chi racfi[aa beve
70
Cnr.STOMAZIA POETICA
Mai non rlreve
Grazie da me ' .
Sia pur l*acqua o bianca o fresca,
() ne'tonfani sia brana;
Nel suo amor me non invesca
Questa sciocca ed importuna :
Questa sciocca, che sovente,
Fatta altiera e capricciosa,
Riottosa ed insolente,
Con furor perfido e ladro
Terra e ciel mette a soqquadro.
Ella rompe i ponti e gli argini,
E con sue nembose aspergini,
Su i fioriti e verdi margini
Porta oltraggio a i fior più vergini.
E l'ondose scaturìgini
A le moli stabilissime,
Che sarian perpetuissime.
Di rovina sono origini.
Lodi pur l'acque del Nilo
Il soldan de* Mammalucchi,
Ne PIsp-iDo mai si stucchi
D'innalzar quelle del Tago;
Ch'io per me non ne son vago.
£ se a sorte alcun de'miei
Fosse mai cotanto ardito,
Che bevcssene uu sol dito;
Di mia man lo strozzerei.
Vadali pur, vadano a svellere
La cicoria e raperonzoli
Certi magri mediconzoli
Che con V acqua ogni mal pensan di
Da mia masnada [espellere.
Lungi sen vada
Ogni bigoncia
Che d'acqua acconcia
Colma si sta.
L'acqua cedrata
Di iimoncelk)
Sia sbandeggiata
Dal nostro ostello.
* De'gelsomini
Non faccio bevande.
Ma tesso ghirlande
Su questi miei crini.
De l'aloscia e del candiero
Non ne bramo e non ne chero.
I sorbetti, ancorché ambrati,
E mille altre acque odorose,
Son bevande da svogliati
E da femmine leziose.
Vino vino a ciascun bever bisogna ,
Se fuggir vuole ogni danno:
' Parla Bacco.
E non par mica vergogna
Tra i bicchieri impazzir sei volte Tanno.
Ródij Bacco in Toscana.
XCVII. Trasformazione
delV utignuolo.
Offesa verginella,
Piangendo il suo destino,
Tutta dolente e bella,
Fu cangiata da Giove in angelliao,
Che canta dolcemente, e spiega il volo:
E questo è. l'usignuolo.
In verde colle udì con suo diletto .
Cantar un giorno Amor quell'augcllef-
E, del canto invaghito, [to;
Con miracol gentil prese di Giove
Ad emular le prove.
Onde, poi ch'ebbe udito
Quel musico u^ignuol, che sì soave
Canta, gorgheggia e trilla,
Cangiollo in verginella: e questa è LÌlla.
De Lemene.
XCVIIl. Scherzo sopra l'amore,
Son troppo sazia.
Non ne vo'più.*
Cantar sempre d'amore
Ne mai cangiar tenore,
E una cosa che sazùi,
E una gran servitù.
Son troppo sazia.
Non ne vo'più.
Non si parlid'amor: sen vada in bmdo:
Cantiam d* altro, mio cor: cantiam d'Or-
Era i >rlando innamorato, [landò.
Forsennato,
Per Angelica la bella.
O pazzarella:
Ecco che amor ritorna in isteccato.
Tosto volgiamo i carmi
Dove si tratta sol di guerre e d'armi.
Trojaui, a battaglia:
Già de le spade ostili appare il lampo;
Tutta l'Europa è io campo;
Ornai non può tardar che non v' assa-
Trojani, a battaglia. [glia:
Già sentita la tromba,
Come rimbomba;
Quando rad* la spada.
Sentirete come taglia:
Trojan! , a batta};! ia.
Correte a difculere
SECOLO DEaMOSETTIMO
7i
mosa rapioa
Ita peregrina,
iella gran betta cli*anior rapi,
aledetto amor: eccolo qui.
Ohe gran disgrazia!
npre amor per tutto fu.
1 troppo sazia^
Q ne vo'più.
assa, che farò perchè da me
i volga il pie ?
cor non si divide,
ùer sempre soggiorna;
ninaccio, ed eisi ride;
iscaccìo, ed ei ritorna.
-, che puoi far tu,
poss'in per non parlarne più?
:he un^atma innamorata,
o sventurata,
•ure guerra o pace,
parla d'amore alltir che tace.
De Lcmene,
XCIX. Sopra ^* Italia.
Par che nel mal comune itpianger basti
C. A un uccellino rinchiuso
in gabbia.
Co m'esser può che alle paterne spo ndc
Con dolente memoria ognor non voli,
Ma empiendo il cielsol d'armonie giocon-
[de,
Lieto augeliin, tua prigionia consoli ?
Già la cara consorte or non risponde ,
Ma su i nidi si duo! vedovi e soli;
Ed ora non sei tu su l'alta fronde
A meditar la libertà de i voli.
Pur l'i/igrata magion co'tuoi concenti
Dolce riempi, e di gradito. ardore
Cure amorose al tuo signor rammenti.
Intendo omai le frodi tue canore:
È tua vendetta, a chi prigione or tienti
Rammemorar la prigionia del core.
Maggi.
CI. Al Sobieskif re di Polonia.
\ r Italia addormentata in questa Non, perchè re sci tu, sì grande sei;
)naccia: e intorno il ciel s'oscura ; Ma per te cresce e in maggior pregio sale
ila si sta4:heta e sicura; La maestà regale,
lolto che tuoni, uom non si desta. Apre sorte al regnar più d' una strada:
r taluno il paliscalmo appresta, Altii al merto degli avi, altri al natale,
se stesso, e dei yicin non cura : Altri M debbea la spada:
ieto è de l'altrui sventura. Tu a te medesmo e a tua virtute il dèi.
i vede in altrui la sua tempesta. Chi è che con tai passi al soglio vada?
le? quest'altre tavole minute. Nel di che fosti eletto,
antenna, e poi smarrito il polo, Voto fortuna a tuo favor non diede,
tutte ad un tempo andar perdu- Non palliata fede,
[ te. N(m timor cieco; ma verace affetto,
Italia mia,quest'è il mio duolo: Ma vero merto e schietto,
m giunti a disperar salute, Fatto avean tue prodezzt» occulto pattd
spera ciascun di campar solo. Col regno; e fosti re pria d'esser fatto.
Ma che? stiasi loscettro ora in disparte:
Non io rol fasto del tuo regio trono,
Teco bensì ragiono; [dato.
Ne ammiro in te quel eh' anco ad altri è
i i vostri campi i sassi e l'onda; Dir ben può quante in mar le arene sono
altri di voi sta negligente Chi può, di rime armato, [ sparte
mati lidi, altri il seconda, Dir quante in guerrae quante in pace ])a
3 eh' in passar Tonda nocente. Opre ammirande, in cui non ha l'alato
sterpo s'accresca a la sua sponda. Vecchio ragion veruna,
ostategli pur la spiaggia amica: Qual è a le vie del Sol s\ ascosa piaggia,
ena iufedel fia che vi guasti Che contezza mn aggia *
acquisti, p. poi la riva antica. Di tue vittorie, o dove il giorno ha cuna,
sopporti dovrian saldi contrasti, dove l'aere imbruna ,
do si sta sorte nemica : z Abbia.
i vedete il torbido torrente
i ripari, e le campagne inonda,
stragi altrui gonfio e crescente,
72 CRESTOMAZIA POETICA
dove Sirio latra, o dove scuote ' Tal fai macello su l'orribil campo,
Il pigro dorso a' suoi destrier Boote? Che *1 suol ne trema. L'abbattute genti
Sallo il Sarmato infido, e sallo il crudo Ecco spergi e calpesti ;
Ecco spoglie e bandiere a un tempo togli,
E il duro assedio sciogli :
Ond' è ch*io grido, e griderò: giugnesti ,
Guerreggiasti e vincesti.
Si sì, vincesti, b campion forte e pio:
Per Dio vincesti, e per te vinse Iddio.
Se là dunque ove d'inni alto concento
A lui si porge, spaventosa e atroce
Usurpator di Grecia ; il dicon l'armi
Appese a i sacri marmi,
E tante a lui rapite insegne e spoglie,
Alto soggetto di non bassi carmi.
Non mai costà le soglie
S'aprir di Giano, che tu spada e scudo
De l'Europa non fossi. Or chi mi toglie
Tue palme antiche e nuove
Dar tulle in guardia a le castalie dive? Non tuona araba voce;
Fiacca è la man che scrive, Se colà non atterra impeto folle
Forte è lo spirto, che a più alte prove Altari e torri; e se empietà feroce
Ognor la instiga e muove; Da i sepolcri non tolle
E quei che a' venti le grand'ale impenna. Il cener sacro, e non lo sparge al Tcnlo ,
Quella spadaa te regge, e a me la penna. Sbigottito aralor da eccelso colle.
Svenni e gelai poc'anzi, allor ch'io vidi Se diroccate ed arse
Oste sì orrenda tutti i fonti e tutti Moli e rocche giacer tra sterpi e dumi,
Quasi de Tlstro i flutti Se correr sangue i fiumi, ■•■■
Seccar col labbro, e non bastare a quella Se d'abbattuti eserciti e di sparse *
Del frigio suolo e de l'egizio i frutti. Ossa gran monti alzarse
Cime! vid'io la bella Non vede Intorno; e se de Plslro in riva
llegal donna de l'Austria in van di fidi ViennaiaVienna non cerca,ate s'ascriva-
Ripari armarsi; e, poco meu che ancella, S'ascriva a te se il pargoletto in seno
Porger nel caso estremo A la svenata genitrice esangue,
A indegno ferio il piede. 11 sacro busto Latte non bee col sangue:
Del grande impero augusto S'ascriva a te se inviolate e caste
Parca tronco giacer, del capo scemo; Vergini e spose uè dà morso d'angue
E *1 cenere supremo Vinlator son guaste.
Volar d'intorno, e gran cittadi e ville Ne in se puniscon l'altrui fallo osceno.
Tutte fumar di barbare faville.
Da r ime sedi vacillar già tutta
Per te sue faci Alelto e sue ceraste
Lungi dal Ren trasporta :
Pareami Vienna; e in panni oscuri edadri Per te, di santo amor pegni veraci.
Le spaventate madri
Correre al tempio; detestar de gli anni
L'ingiurioso dono i vecchi padri.
L'onte mirando e i danni
De la misera patria arsa e distrutta,
Nel comun lutto e ne i comuni affanni.
Ma, se miserie estreme
E incendii e sangue e gemiti e mine
Esser doveano al fine,
Si danno amplessi e baci
Giustizia e Pace: e la già spenta e moria
Speme è per te risorta,
E, tua mercè, l'insanguinato solco
Senza tema o periglio ara il bifolco.'
Tempo verrà (se tanto lunge io scorgo)
Che fin colà ne'secoli remoti
Mostrar gli avi a i nepoti
Vorranno il campo alatenzon prescritto.
Mostreran lor donde, per calli ignoti.
Invitto Re, di tue vittorie il seme ;
Di tante accolte insieme [ soglio Scendesti al gran conflitto;
Furie, ond'ebbe a crollar de l'Austria il Ove pugnasti; ove in sanguigno gorgo
(Soffra ch'io '1 dica il Ciel) , più non mi L'Asia immergesti. Qui, diran, l'invitto
[ doglio. Re polono accampossi;
De la tua spada al riverito lampo Là ruppe il vallo, e qua le schiere aperse,
Abbagliata, già cade e già s'appanna Vinse, abbattè, disperse;
L'empia luna ottomauna. Qua monti p valli, e là torrenti e fossi
Ecco rompi trinciere; ecco t'avventi ; Feo ' d'uman sangue rossi ;
E, qual fiero leon che atterra e scanna Qui ripose la spada, e qui s'astenne
Grimpauriti armenti^ » Fece.
SECOLO DKCIMOSKTTIMO 75
Darampieslragi^c'lgrandeslrierritenae. Che Tiresia nel corpo egli si feo *;
Cbediranpoi, quando sapraa che jiian- Ma ne l'alma non già: ne fardi peg^o
[ chi L*alfrui perfidia incontro a lui poteo '.
B'acciar vestisti non per tema e sdegno, Che ingiuria fa d*Unnipoteu£a al seggio
Non per accrescer regno, Il Sol mobile o fisso, e chi ritrova
I4on perchè eterno inchiostro a te lavori Di stelle intorno a Giove un belcorleggio?
Fama eterna, e per te sudi ogn' ingegno; Or chi Niceta e Filoiao rinnova^
Ma perchè Iddio s'onori, Fabro di matematiche ragioni,
£ al suo gran nome adoratornon manchi? Sherno per voi e pena e infamia tvova?
Quando sapran che, d'ogni esempio fuori, K questa è una de le dilezioni
Con profondo consiglio, Cheli Vangelo vrdetta?andar giostrando,
Per salvar Paltrui regno, il tuo lasciasti? Per mora ambizKone, i dotti e i buoni?
Che '1 capo tuo donasti (>olui che, in duro esilio e miserando,
Per la fé, per l'onore, al gran periglio? Di Patmos giacque in sconomnta tomba;
ÌL il figlio istesso, il figlio, Amatevi l'un l'altro, iva insegnando.
De la gloria e del rischio a te consorte Ma ne l'orecchie a voi mormora e romba:
Te< o menasti ad affrontar la morte? Perseguitiamo i dotti. £ 4 popoi matto
Secofi che verrete, io mi protesto Sol per voi celebrar prende la tromba .
Che al ver fo ingiuria , e men del vero è Menziiu, Satira I .
Ch'io ne scrivo e favello» [ quello
Chi crederà l'eroico dispregio CHI. All'Invidia.
Di prudenza e di te , che assai più bello
Fa di tue palme il pregio? Perpiùd'unangueal fari) teschio attorto
Chi crederà che a te medesmo infesto, Veggio ch'atro veleno intorno spiri,
£ a te negando il maestevoi regio Mostro crudel, che '1 livid'occhio e torto
Titol, di mano in mano [to. Su lo splendor de l'altrui gloria giri.
Siatu in battaglia ai maggior rischi accin- Il perverso tuo cor prende conforto
Non da gli altri distinto, Qualor più afflitta la virtù rimiri;
Che nel vigor del senno e de la mano? Ma, se poi de la pace afferra il porto.
Nel comandar, sovrano; Ti s'apre un mar di duolo e di spspiri.
Ne l'eseguir, compagno; e del possente Dehse giammai ne l'immortal soggiorno
Forte esercito tuo gran braccio e mente? Le mie preghiere il Ciel cortese udille,
Su'Su, fatai guerriero; a te s'aspetta Oda pur queste , a cui sovente io torno;
Trar di ceppi l'Europa, e '1 sacro ovile Coronata di lucide faville
Stender da Battro a Tile. Splenda virtute; abbia letizia intorno,
Qual mai di starti a fronte avrà balia Abbia la gloria,* e tu mill'occhi e mille .
Vasta bensì, ma vecchia, inferma e vile, Mensimì.
Cadente monarchia, -
Dal proprio peso a ruì'nar costretta ? CIV. Sopra il sublime.
SJe '1 ver mi dice un'alta fantasia.
Te l'usurpata sede Oh de la gloria luminoso calle !
Greca, te '1 greco e inconsolabil suolo Felice quei che in te vestigio imprime,
Chiama; te chiama solo, Né a'rai del tuo bel Sol volge le spalle.
Te sospira il Giordan; a te sol chiede Or chi brama che '1 grande e che *1 subii-
La Galilea mercede. [ me
A te Betlemme, a te Sion si prostra, Risplenda ne'suoi scritti, e si consiglia
E piange e prega, e '1 servo pie ti mostra. Correr di Pindo in vèr le palme prime ;
Da Filicaja, Giammai non torca da l'onor le ciglia,
Mai da la nobiltade, e i suoi pensieri
CU. Sopra U sventure del Galilei. Servano a lei qual signorii famiglia.
£ co'suoi spirti generosi e altieri
Ma piano un po'.* che con maniera inde- Non mai s' abbassi a quel che a l'alma ol-
Questi son che ciurmaro il Galileo [gna ^ traggio
Co'pnngiglion di pontificia insegna. 'Fece. "Potè.
7i CRESTOMAZIA. POETICA
Può far co^snoi vapor torbidi e neri. Spesso de Timo al suo vicin prevale.
Tenga Inngi dal v.*>lgo erto il viaggioi £ pur son paghi de U lor bellezza
E le nebbie importone alto saetti Ciascan,benchèdiversi,e'l guardo umano
Dal suo bel ciel col luminoso raggio; Tratrge d'entrambi una gentil vaghezza.
E poi ben giusta inclita laude aspetti Ma, perchè a te chiaro si faccia e piaio
Da quegli che verranno. Ah sì, verranno Ouai sia *l sublime, or via l'orecchia ap-
Mìgliori al coro ascreo giudici eletti. [presta,
E quei che forse or sconosciuti stanno, Ne forse a i detti inchinerassi in vano .
Sin da gli elisii campi eccelsa e forte Sublimeèquelch'altri in leggendo desta
Di benché tarda gloria il suono udranno. Ad ammirarln, e di cui fuor traluce
Ver è che al Ciel la lor beata sorte Beltà maggior di quelche '1 dirnon presta.
Debbon spirti sublimi; e questo è il pregio Ond*è che l'alma a venerarlo induce,
Che sol per grazia è fatto altrui consorte. E l'empie di se stesso, e la circonda
Esser l'ingegno in nobiltade egregio D'una maravìgliosa amabil luce.
Mal può per arte; e sol del ciel cortese E quanto il guardo in lui piasi profonda
È questi e di Natura unico fregio. Più e più diletta; e per vigore occulto
Ella da prima in le grand' alme accese La mente del lettor fassi feconda.
Un gentil foco; ed ella i semi sparse, So ben che puote anche in sermonein-
E a lieto germogliar pronti gli rese. [culto
In sterile'terren non vedi alzarse Chiudersi un gran pensiero ; e si appre-
Pianta meschina; e del su'april si duole, [senta
Che sol squallide frondi in lei cosparse : Talvolta in creta anche un gran numein-
An( h'ella pur vorrebbe in faccia al sole [scolto.
Spiegar florida chioma a'suoi verd'anni; f-ì v'ha talun ch'ebbe la cura intenta
Ma ritrosa Natura osta, e noi vuole. Solo al concetto, e l'ornamento esterno
Purnonfia che del tutto invan si affanni Sprezzò la mano e neghittosa e lenta.
L'ingegno umile allor che anela e suda Quindi sovente untai costume io scerno
Pur di Natura a ristorare i danni. In quei che, ratto immaginando, al cielo
E non fìa che del tutto a lui si chiuda Vide far di tre giri un giro eterno.
Il sì difficil varco, e che del tutto , Ma tu d' un doppio e generoso zelo
D'effetto vóto il buon valor s'escluda. Vorrei che ardessi, e che le grandi idee
Che quel che parve orrido campo a- Ricco àvesser per te pomposo velo, [bee
[sciutto, ^Chi non ha l' auro, o'I perde, e ver che
Per onda si discioglie, e a chi '1 coltiva. Il Chianti in velro;ma più lieto in vista
Dolce promette in sua stagione il frutto. Spargerla di rubin gemme eritree, [sta '
Non t'accorar se v'ha talun che scriva È ver che in massa ancor confusa e mi-
Che in van si tenta ogni arte: e pur per Ha suo prezzo l'argento, e pur novella
La piccola barchetta al porto arriva [arte Un'artefice man grazia gli acquista.
Nelle chiare di Febo eterne carte E ver che grezzo è l'adamante, e in quel-
Mille vedrai inclite forme e mille. Ruvida spoglia è prezioso, e pure [ la
Che potran del sublime esempio farte. ' Alla fervida ruota ei più s'abbella.
E nel tuo cuor le tacite faville Così le basse forme e sì l'oscure
A poco a poro sveglieransi; e poi Fuggir tu dèi, e a l'arte, a l'ornamento
Per tutto vibrerai lampi e scintille. Volger l'ingegno e le sagaci cure:
E al grande oprar de 'gloriosi eroi E far che splenda il non volgar talento
Vedrai lo spirto in te farsi maggiore, Ne' gran sensi non sol, ma in quello ancora
E gli angusti sdegnar confini suoi. Onde si spiega un nobile argomento.
Questo vuol dir che a ciasihedun nel Che se l'un tu riserbi, e l'altro fuora
[cuore Negletto lasci, non avrai per certo
Avvi il talento; ma non sempre eguale. La doppia palma onde lo stil s'onora.
Che grande è in altri, e forse è in te mi- Quindi farassi a la tua mente aperto
[nore. Qunl siaM contrario del sublime, in cui
iVIira qual splende il cielo, e mira quale Alcun non è de i detti pregi inserto.
Ardoa gii astri diversi; e la chiarezza Talvolta udrad dentro gli scritti altrni
SECOLO DFCIMOSETTIMO 7!^
bombo, e strepitoso il suono; Con lusinghieri accenti:
le in((anna« e non è fondo in^ liti. La bella età de Toro nnqna non venne.
5 l'alta del grande origin sono Nacque da nostre menti, t
pnsieri, e di febea faretra Entro il vago pensiero;
i sensi, e le parole il tuono. £ nel nostro desio chiara divenne.
Menzinh Arte poetica, libro V, Spiegò sempre le penne
La gran ministra alata
IV. Tempesta vicina. A i fochi d*£tna intorno;
9^*^ P*"^ proveder V ira di Giove
in qoel fondo gracidar la rana. Sempre di fiamme nove,
erto di futura piova; Stancò i giganti ignudi
corvo importuno; e si riprova Sii le fatali incudi;
a tuffarsi a la fontana. E per le vie del ciel corse e ricorse,
cherella in quella falda piana Intenta sempre à*suoi severi uffici,
respirar de l'aria nova ; Or, se del fato infra i tesor felici
llarga in alto, e sWe giova H sccol d* òr si serba ,
l'acf|ua , che non par lontana. Certo so ben che non apparve ancora
) le lievi paglie andar volando; Un lampo sol de la sua prima aniora '
come obbliquo il turbo spira. Chiude nostra natura
olve, qual palion, rotando. In mente gli aurei semi
e reti, o Bestagnon; ritira Onde sorger potrian l'età beate :
a gli stallaggi: or sai che, quando Ma il reo desir, che è cieco,
uoi segni ii Crei, vicina è V ira ? E incontro al ben s'indura ,
Menzini. I^a COSÌ bel pensiero la diparte.
Io non invan su questo colle istesso
evi. Scilla. Al popol di Quirino
Un giovanetto Cesare rammento;
sicana e calabrese arena Quel che si vede impresso
>drai in femminil sembiante Del bel genio latino,
nlla da Tonde; ardua la fronte, E che un lustro regnò placido e lento,-
igo suo crine ambe le spalle Quello che pos'!Ìa spese
p. con le nude aperte braccia Ogni sua bella luce, e il ferro mise
lieder mercede, anco sperare Entro il materno seno,
an numi del mar sentan pietade E guardò le ferite, e ne sorrise':
ngiata sua forma e bellezza. Quel che la patria infra lefiamme uccise,
o al suo già delicato fianco < Sicché squallido il Tebro uscì de Toude,
nille crudeli orridi mostri , E di Roma in veder V orrida immago
itrato n' udirai, che al core Stesa per Tampia valle,
pavento, e i naviganti assorda. Sospirando gridò: giunto è Anniballe ,
il fassieda l'orecchia e al guardo Tutto di sangue e di mina vago,
nganno ! Che c(»let che sembra Su i sette colli a vendicar Cartago.
imago, e rozza massa informe Non perchè il viver nostro *
ni pendenti; un vivo sasso, Giace lontan da le città superbe,
: spaziose atre caverne E siede ale bell'ombre e in riva a i fonti;
„ p fronti;
Menzini, Eiopctlia, libro III, Già noi sarem meo pronti
O impotenti a turbar nostro costume.
ìpra le depravazioni che av~ E qual pastor fra noi tanto presume,
no aW indole e ai costumi ^he pensi di poter dentro le selve
iomini. Menar i giorni suoi lieti e ridenti,
^ Parla agli accademici dell' Arcadia romana.
I adombro il vero a Mostrato.
% CRESTOMAZIA POKTICA
Come le anliclie favolose genti? Del Tebro, invitto fiume,
11 violento e torbido sospetto Or miriamo passar le tumid'onde
-Anche in noi desta i suoi pensier feroci ; Col primo orgoglio ancor d'esser reine
Che si vedrian di sangue e d' ira tinti, Sovra tutte Taltere onde marine.
Se non che sótto mansuete voci Là siedon Torme de Taugusto ponte
VeUn le fiamme in petto , Ove strldean le rote
Però che povertà gli tiene avvinti: De le spoglie de l'Asia onuste e gravi;
Ma da soverchio ardof potrian sospinti, £ là pender solfano insegne e rostri
Anco recarsi in mano il ferro e il tosco, Di bellicose trionfate navi.
E funestare il hosco. Quello è il Tarpeo superbo ,
E se Fortuna con sereni augùri Che tanti in seno accolse
Per le nostre campagne un dì passasse , Cinti di fama cavalieri egregi ;
E lampeggiando entrasse Per cui tanto sovente
Lieta ne' nostri poveri tugùri ; Incateniti i regi
Avrian da noi ( chi 'l crederla ? ) rifiuto De' Parti e de l' Egitto ,
Le pastorali muse; e quel diletto Udirò il tuono del romano editto.
Che abbiamo in acquistar gloria dai carmi Mirate là la formidabil omhra
Sorgerebbe da Tarmi ; De Tccelsa di Tito immensa mole,
K diverrebbe del canoro ingegno Quant' aria ancor di sue f uine ingombra.
Tutto T ardore, alto desio di regno, (zio,* Quando apparir le sue mirabil mura.
Fu pur Romolo anch' ei pastor del La- Quasi l'età feroci
E come noi reggeva armenti e gregge , Si sgomentaro di recarle offesa;
E si vestia di queste spoglie irsute, E guidaro da i Barbari remoti
Quando, de' boschi sazio. L'ira e il ferro de' Goti
Mosse T aratro a quel terribil solco A la fatale impresa.
Donde fur le gran mura uscijr vedute. Ed or vedete i gloriosi avanzi,
Allor la mansueta sua virtute Come, sdegnosi de l'ingiurie antiche,
Cangiò spirto e colore ; Stan minacciando le stagion nemiche.
E tanto bebbe del fraterno sangue , Quel che v'addito, è di Quirino il colle,
Ed orma tile di furore impresse , Ove sedean penosi i duci alteri ,
Che l'acerba memoria ancor non langue, £ dentro a i lor pensieri
E ancora offende e oscura Fabbricavano i freni
Il gran natal de le romane mura. Ed i servili affanni
Guidi, canzone VI. A i duri Daci, a i tumidi Britanni.
Ampii vestigi di colossi augusti,
CVIII. Sopra gli avanzi di Roma Di cerchi, di teatri e curie immense,
antica . FJe terme, che il tempo ancor non spense»
Fan de Tal me romane illustre fede.
O noi d* Arcadia fortunata gente. Parca del Lazio la vetusta gente.
Che, dopo l'ondeggiar di dubbia sorte , In mezzo a lo splendor de'genii suoi,
Sovra i colli romani abbiam soggiorno ! Un popolo d'eroi.
Noi qui miriamo intorno, Ma, reggie d' Asia, vendicaste alfine
Da questa illustre solitaria parte, Troppo gli affanni che dj^Roma aveste.
L'alte famose membra Con le vostre delizie oh quanto feste''
De la città di Marte. Barbaro oltraggio al buon valor latino!
Indomita e superba ancora è Roma, Fosse pur stata Menfi al Tebro ignota,
Benché si veggia col gran busto a terra; Come i principii son del Nilo ascosi:
La barbarica guerra Che non avresti, egizia donna, i tuoi
De' fatali trioni, Sludii superbi e molli
E T altra che le diede il tempo irato. Mandati a i sette colli;
Par che si prenda a scherno. Ne fama avrebbe il tuo fatai convito:
Son piene di splendor le sue sventure ; Romolo ancor conoscerla sua prole :
E il gran cenere suo si mostra eterno: Né T aquile romane avrian smarrito
£'noJ, rivolti a V onorate sponde • Faceste,
SECOLO DECIMOSETTIMO
77
ammin del sole.
Guidi, caozouc III.
CIX. La Fortuna.
indisse, ladestra entro la chioma;
i d' ogn' intorno
belle venture
)n aureo piede al tuo soggiorno*
drai ch'io sono
L Giove; e che, germana al Falò,
trono immortale
li siedo a lato.
e voglie V oceàn commise
Nettuno : e indarno
l' In'do e il Britanno
ie ancore e vele armar le navi,
n governo le volanti antenne,
» in su le penne
i spirti * soavi,
lo a la Io r sede
[Iti procelle,
) sopra col sereno piede:
eolie rupi
ili de' venti ;
» di mia mano
uni spezzar le rote ardenti,
ta è la man che fabbricò sul Gange
a gl'Indi, e su l'Oronte avvolse
: hende de l' Assiria a i crini:
gemme a Babilonia in fronte,
I Tigri le corone al Perso,
al pie di Macedonia i troni.
> poter fur doni
ali gridi
povane pelleo s'alzaro intorno,
1 de l'Asia ei corse,
ro tnrbo, i lidi,
meco vincitor sin dove
gli sguydiil sole,
inanzi a lui tacque la terra;
ilto monarca
jli uomini allor d'esser celeste,
ccelse ed ammirabil prove
nsea i numi, e si fé gloria a Giove.
li.
Circonda ro più volte
1 miei genii reali
Di Koma i gran natali:
E l' aquile superbe
Sola in prima avvezzai di Marte al lome;
Ond'alte in su le piume,
Cominciaro a sprezzar l' aure^vicine,
£ le palme sabine.
Io senato di regi
Su i sette colli apersi:
M.' ne gli alti perigli
hbbero scorta e duce
I romani consigli:
Io coronai: d'allori
Di Fabio le dimore.
£ di Marcello i violenti ardori;
Africa trassi in sul Tarpeo cattiva;
E per me corse il Nil sotto le leggi
Del gran iiume latino:
In su le ferree porte infransi i Daci: ^
Al Caucaso ed al Tauro il giogo imposi:
Alfio tu Ite de' venti
Le patrie vinsi; e quando
Ebbi^sotlo a'miei piedi
luita la terra doma,
Del vinto mondo fei * grand<)noaR4)ma.
Me teme il Daco, e me l'errante Scita,-
Me de' barbari regi
Paveutan l'aspre madri;
£ stanno in mezzo a l'aste
Per me in timidi aifanni
I purpurei tiranni.
Per me Roma avventòle fiamme 'n grembo
A l'emula Cartago:
Ch'andò errando per Libia ombra sdegna-
Sinché per me poi vide [ta;
Trasformata l'i m mago
De la sua gran nemica:
E allor placò i desiri
De la feroce sua vendetta antica,*
E trasse anco i sospiri
Sovra l'ampia mina
De l'odiata maestà latina.
Guidi,, eaozone TU.
• Feci.
P lU M A METÀ
DbL
SECOLO DECIMOTTAVO
Muovon del pari il pie, muovono il canto;
ex. Xa Gloria e l'Invidia* Vaghe cosi, che Tona a l'altra a canto
Rosa con rosa par, stella cou stella.
Qaaud'io men \o verso 1* ascrea mon- Non sai se quella a questa, o questa a
lagna, [quella
Mi si accoppia la Gloria aldeslro lianco: Teglia, o non toglia di beltade il vanto:
Klla dà spirto al cor, forza al pie stanco; E puoi beu dir: uull*altra è beila tanto;
E dice: andiam, ch'io li sarò compiigna. Ma non puoi dir di lor: questa è più bella.
Ma per la lunga inospita campagna Se iunanzi al pastorello in Ida assiso
Mi si aggiunge l'Invidia al lato manco; Simil coppia giugnea, Vener non fora.
Edice: anch'i osonteco. A ilabbro bianco, La vincilrice al paragon del viso:
Veggo il velen che nel suo cor si slagna. Ma qual di queste avrebbe vinto allo-
Che far degg* io? Se indietro io volgo [ ra?
Li passi, Noi so: Paride il pomo avria diviso.
So che Invidia mi lassa e m'abbandona; O la gran lite penderebbe ancora.
Ma poi ha che la Gloria ancor mi lassi. - Zappi.
Con ambe andar risolvo a la suprema CXlIL La partenza.
Cima del monte. Una mi dia corona;
E l'altra il vegga, e si contorca e frema. Tornami a mente quella trista e nera
Zappi, Notte, quando partii dal suol natio,
lì lasciai dori, e pianger la vid'io,
CXI . Sogno . Non mai più bella, e non mai meno altera.
Oh quante volte, addio, dicemmo, ad»
Sognai sul far de Talba; e mi parca E il pie senza partir restò dov'era! [dio;
Ch'io fossi trasformato in cagnolello: Qnante volte partimmo, e a la primiera
Sognai che al collo un vago laccio avea Orma tornaro il pie di Clori e il miol
E una striscia di neve in mezzo al petto. Era già presso a discoprirne il sole;
Era in un praticello, ove sedea Quando le dissi alfin... ma che le dissi,
Clori di ninfe in un bel coro eletto. Se il pianto confondeva le parole?
lo d'ella, ella di me prendeam* diletto: Partii; che cieca sorte, %deslin cicco
Dicea: corri, Lesbino; ed io correa. Voller cosi; ma come, ahi, mi partissi
Seguia: dove lasciasti, ove sen gio * Dir non saprei: so che non son più seco.
Tirsi mio, lirsi tuo? che fa? che fai? ZappL
lo già latrando, e volea dir: son io. [zai:
M'accolse in grembo: induopiedi m^l- CXIV. Gli occhi d'Amore.
Inchinò il suo bel labbro al labbro mio;
Quando volea baciarmi, io mi svegliai. Fillide al suo pastore:
Zappi. Perchè senz'occhi Amore? ,
£ il suo pastore a lei:
XCII. Sopra due belle. Perche quegli occhi bei
Ch' esser doveano i suoi,
Due ninfe emule al volto e a la favella^ Bella, gli avete voi.
i Preodevamo. * Gi. Aodò. -Zo^'»
SECOLO DECIMOTTAVO 79
lUposi, sol contento di se stesso.
CXV. La Fortuna. Cbè quasi in ogni età furo ben molti
£ sommi dnci e sommi imperadori,
»rtuna è una Dea senia cervello: Che in braccio ancora de le muse accolti
utto il giorno i'a pazzie. Bella vittoria coronò d'allori :
to abbassa, ed ora innalza quelb, Anzi d*april non son sì spessi e folti
;enti ama sempre le più rie, Per le campagne i leggiadretti fiori,
la virtù vero flagello.- Come gli uomini illustri che di paro
mano geutil, Paltra d'arpie: Trattar la penna ed il fulmineo acciaro,
è che sempre ruba e sempre dona; E quanti fur, che, con la toga in dossso,
•la e tormenta ogni persona. In mezzo a i padri ne l'ampio senato,
Tte il sole, a noi quando compare, Il poetico foco da sé scosso,
di luce le lontane genti ; lu grazioso sermone e posato
do torna ad atluifarsi in mare, Dier salute a la patria; ed il già mosso
a gli altri, e noi restiam dolenti ; Periglio a'danni suoi fu dissipato!
rtuna appunto usa è di fare: Fortiguerri, Ricciardetto, canto IX.
orni non vi sono, ore o momenti
n felici altrui, che quegli stessi CXVJI. Lodi della vita oscura»
ndan gli altri di miseria oppressi.
ortiguerri, Ricciardetto, canto FUI' Quei gode lieta e avventurosa sorte.
Che vive in parte solitaria ed erma,-
CXVI. // buon poeta. ^Jè sa che cosa sia citlade o corte;
Ne ora si distrugge, ora s'in ferma
jerchè non ra' offusca sì la vbta Per van desio di viver dopo morte ;
sa ch'io prendo de' poeti, Ne le sue voglie ognor stringe e rafferma
oglia porre in così chiara lista A'cenni altrui, né tra speme e timore,
quei che la marina Teti Misero invecchia, e più miser si muore,
nomare, e la palude trista Quel piacer che si cerca e che si crede
rno.^diVulcanleindusiriretij Chestiane'gran palazzi e in grembo a Toro,
>dir begli occhi ed aureo criney Tempo è che ignudo a la suprema sede
? d'avorio^ e labbra corallinei Bimeuò de le Grazie il santo coro:
co chiaro che nessuna stima K de le spoglie sue rimase erede,
hi solo accozza tanto quanto Per nostro scherno, il barbaro martoro ;
dici versacci con la rima. Il qual vestito de'suoi lieti panni,
poeta non l'annaso al canto Chiunque lo ritrova empie d'affanni,
neute: ma vo'che m'imprime Solo tra' boschi e le romite ville
1 so che di nuovo, che d'incan'to L'allegra del piacer dolce famiglia
sembianza; e voglio che in lui sia Alloggia; e gode l'ore sue tranquille.
;lla e divina fantasia. £d ei spesso dal ciel il eammin piglia
he le umane e le divine cose Verso le selve ; ed or nel cor di Fille,
quanto saper puote un mortale; Ora alberga di Nice in su le ciglia :
e vaghe idee e luminose. Quindi ritorna a rallegrar le stelle :
'aere più puro ei batta l'ale; Né fa distinzìon tra Giove e quelle V
t terra ne le parti ascose Ond'é che in vano si lusinghi, e spere ^
e discorra come l'acqua sale Unire a signoria vero diletto ,
I a'monti, e come perdut'abbia Chi tien parte del mondo in suo potere ;
le avea ne la marina sabbia, [ta, Che acerbe cure egli ha a covare in petto,
Qima, quando io dico un buon poe- £ d'ogni cosa semprb ha da temere,
la cosa rara e pellegrina, E con ragion: peréhè il Fabbro perfetto
izia di natura e di pianeta Che con peso, con numerò e misura
ere fra noi raro destina. Fa il tu tto,in q oesto pose ancor gran cnra .
i vo'già che da l'alba a compieta Povero sì, ma dolce e saporito,
zi ognor ne Tonda caballina, Il cibo diede al roiso vitlanello ;
ad ognor sul Menalo e Permesso * Ook Fille e Kìce, > S{)eri.
80 CRESTOMAZIA. POETICA
E gli die sonno placido e gradito, Che nato appena, o poco dopo, è morto.
Se letto n m gli diede orjiato e bello : Perchè, se ocn c'è qualche fortunato,
Né , pitr quanto sia grinzo e incanutito , Il cui naviglio già si trova in porto;
V*è chi lo brami chiuso in un avello, Pure, in guardando le miserie altrui.
Per dar di mano a Toro ed a l'argento, Movcransi a pietà gli affetti sui.
E poter dissiparlo a suo talento. Perchè siccome le diverse corde
La vecchierella a la più fredda bruma D' uno istrumento, se son ben temprate.
Si siede al fuoco con la sua conocchia, Fanno un suono dolcissimo e concorde;
E le dita filando si consuma: In cotal guisa le genti create
E ticn la nuora in luogo di sirocchia, Convicn fra loro che natura accorde ' :
Talché lite fra lor non si costuma. Onde non ponno ^ l'une esser toccate.
Ne v*ha chi scaltro ed amoroso adocchia Che non rispondan l'altre. E di qua viene
La donna altrui: che al villano par bella Cho abbiam tanto dolor de le altrui pene.
La propria, e amor per altra noi martella. Che se non fosse questa gran catena,
Non s'odono per quelle amene spiagge E si vivesse come querce o abeti,
Furti , veleni , e sporchi tradimenti ; Fissi ad ognor su la paterna arena;
Ne chi, presente voi, vi palpi o piagge ', Ne cale a quei che spezzi ed inquieti
E poi, lontan, vi laceri co' denti. La scure l'altre piante, e nonne hanpena;
E vostro onore e vostra fama oltragge^. Cosi staremmo noi contenti e lieti
Puri costumi in somma ed innocenti , Su le miserie di questo e di quello.
Contrarli affatto a la vita civile, Ma natura ci die senso e cervello.
Albergan sempre in quella gente umile. E ci diede per quello gentilezza.
Ma questa conoscenza più m'accora : E per quest'altro, senno e inteUigenza:
Che son costretto in cosi chiara corte Onde per l'una il male altrui s'apprezza,
A stare infiu che non avvien ch'io mora. E fassi nostra ancor la sua doglieuza;
Deh perchè non trovai chiuse le porte, K per altro s'accresce l'amarezza,
Roma superba, in quel punto e in quell'ora Che, come dice il Savio in sua sentenza,
Che a te guidommi la mia trista sorte? Quei che aggiunge sapere, aggiunge affaD-
Chè ritornalo indietro allor saria, E men si dolgon quelli che men sanno, (no:
E vivrei lieto in qualche villa mia. Fortignerri, Ricciardetto, canto XV'
Fortiguerri) Ricciarclelto, canto X,
CXIX. La rana,
CXVII. Sopra la compassione.
Penso sovente che l'umana vita Piene son di mille mali
Ricolma ell'è di tutti quanti i mali; Tutte le strade de la vita umana,
E nluna dolcezza è mai compila; ^ Siano chiassetti, o vie ampie e reali.
Ma quale in guerra viva, u' ' dardi e strali Dunque che si ha da far? Ciò che la rana
Vibransi ognor su la città assalita," Consigliava una volta a'iigli suoi,
Così piovon su i miseri mortali Che uscir volcan de le loro pantana.
Da tutti i lati miserie e sciagure: Figliuoli miei, che? vi pensate voi
Onde mirabil cosa è come dure ^. Quinci partendo aver vita tranquilla,
La povertà ci affanna; e la ricchezza La quale non v'affligga e non v'annoi?
Ci fa odiosi, superbi ed ignorami: Qui slam cibo talor d'ale una anguilla;
L'amore ci riempie di tristezza: Ma, se ne andrete per li verdi prati,
L'ira e lo sdegno ci turba i sembianti '•^ : O pe'campi di questa o quella villa.
Un mar turbato sembra giovinezza, K serpi e falchi e topacci affamati
Pieno di rotte sarte, e legni infranti; . Faran di tutti voi strage sì fera,
È^a vecchiezza languida e da poco; Che sarete ad un tratto esterminati.
E la virilità dura pur poco. A cui il figlio maggior, con aspracera,
Insomma in ognitempooin ogni stalo Madre, rispose, dunque il fango e l'erba
Non ha mai requie, e non ha mai con furto: Sarà nostra magion e giorno e sera?
E quegli, al parer mio, solo è beato. Certo sorte migliore a noi si serba
^Piaggi. ■ Oltrajgi. ' Ote. ^ Djri. «Accordi. ^ Possonc.
SECOLO DECItfOTTWO 8l
Uscendo fuora; abbiamIaaYanti|;li occhi:
dunque si lasci questa vita acerba. GXXII. Pernuova monaca.
Ed ella a lai: tu parli come i sciocchi.
La natura ci ha fatti pe*pantanì; Poiché scese qua giù l'anima bella "
E ne'pantani hanno a stare i ranocchi. Che nel sen di costei posar dovea;
Ciò detto, slargò Tarqua con le mani, Incertaerrandoinquestapartee inquella.
Basso il capo, alzò Tanche, e andonne al Niuna degna di lei salma scorgea* [pelU
Lasciando ne la riva i figli insani, [fondo, Qual basso luogo è questo? e chi ra'ap«
Così dich*io. Liborio, in questo mondo Qua giù dal ciel? sdegnando ella dicea:
Ogni stato ha i suoi guai: e chi desia, £ già per ritornar, di stella in stella.
Mutando Usuo, trovarne un più giocondo, Era a Talta, onde scese, eterna idea.
Cade infuna grandissima pazzia. Pur, seguendo de' fati il gran disegno,
Fortiguerrì, capitolo IV. Entrò nel vago destinato velo:
Vago bensì, ma pur di lei non degno.
CXX. Sopra la nobiltà, E già lo sprezza; e già colma di zelo;
Cerca, rotto il suo fral breve ritegno,
Dietro la scorta de'tuoi chiari passi. Tutte le vie di ricondursi al cielo.
Signor, ne vengo, d'una hi altra etate,
Fra'nostr'avi a cercar di nobiltate . Qual feroce leon che assalit'abbia
Le insegne, onde talun sì altero stassi. i*astor mal cauto, e il preme, e in fuga
Ma più che in quel cammino addietro , ^ [il caccia;
Scorgo la rozza antica pò vertate, [vassi, Quei d'elee o quercia al'alte annose braccia
Seniplici mense in umil foggia ornate, Kirovra, e schiva del crudel la rabbia.
E schiette vesti, e tetti oscuri e bassi: ^^ V^^^ gli è intorno, e con spumanti
Infin che a le capanne ed a le ghiande [ labbia
Mi veggo addotto, e al prisco stato umile; Ruggendo il mira, e pur quel tronco ab-
Eilmeschin trovo pareggiato e il grande. ^ ^ [braccia
nobiltà, com'è negletta e vile Con l'uDghie adunche, e il crolla, e pur
L'origin tua, se in te suoi rai non spande . , [procaccia
Virtù, che sola può farti gentile! Salirvi, e sparge invan col pie la sabbia;
Manfredi. _, ^^^^ ^sleì, che del leon d'inferno
'Uggì gli artigli, ed ha ricovro amico
CXXL Giuramento alla donna Su i santi rami del gran tronco eterno;
amata. ^'i*"* ^^^ tcuie più del fier nemico:
E lo vedrem, pien d'aspro duolo intemo,
Vaga angioletta,che in sì dolce e puro tornar ruggendo a quel suo centro antico.
Leggiadro velo a noi dal ciel scendesti.
Ed OT beando vai quest'aure e questi Vergini, che pensose, a lenti passi,
Culliyche di tal don degni non furo; [ro; ^? grande ufficio e pio tprnar mostrate,
Perquellaman,perquellelabbraiogiu- ^ PÌ^'* avendo in volto la pietate,
Per queituoischivi atti cortesi, onesti , ^ P*^ ^^ gli occhi lagrimosi e bassi;
Per gli occhi, onde tal piaga al cor mi fé- Dov'è colei che fra tutt'altre stassi
sti % Q"^si Sol di bellezza e d'onestate?
Ch'ipgiàmorronne(esorteallranoncuro)'^^ ^"i chiaro splendor l'alme ben nate
Che, se ben gelosia del suo veneno Tutte scopron le vie d'onde al ciel vassi?
M'asperse, mai non nacque entro il mio ^ispondon quelle: ah non sperar più mai
[petto ^^^ '^oi vederla: oggi il bel lume è spento
Pe nsier che al tuo candor recasse oltraggio."^^ mondo, che per lei fu lieto assai.
E se nube talor di reo sospetto ^" la soglia d' un chiostro ogni orna-
Alzarst* osò, per dileguarla a pieno ^ [mento
Del 4i"n volto tuo bastò un sol raggio. Sparso, e gli ostri e le gemme al suol ve-
MaRf,-ed . Eil^el crind'orosene porta il vento, [drai^
1 Facesti. Manfredi.
Lcoì;>ARDf, Crestomazia. IL ^
82 CRtSTOMAZIA POETICA
Avanzi son di memorabìl opra,
CXXIII. Trasformazione di Canopia Mea dal furor, che da l'elà,securi. [scopre
e del figliuolo. Ma, in tanta strage, or chi m'addita e
In curpo vivo, e non in bronzo o in sasso.
In così dir, si vide il pargoletto Una reliquia di Fabrizi e Curi?
Cliealsentenea, rimpicciolirsi a un tratto; Gkedini.
Le braccia in ali, e 'i labbro in sottìl rostro
Cangiarsi; e un augellin tutto comporsi; CXXV, V amante rigettato.
Che la lìngua sciogliendo in dolci canti
Lamentevoli sì, ma pur soavi. Pur m'avete una volta,
Rapido saltellava e sen fuggia; Lodato il Ciel, da voi sbandito affatto;
Rapido ritornava sorvolando, Ne più, sia nolte o giorno.
Rapido s'aggirava, ed incostante Volete a venin patto
Ritornava a la madre; ne sapea Che al vostro albergo io mi raggiri intorno.
Dove tornar, dove fuggir cantando. Per me la porta è chiusa,
Se a lei sul crin, su gli omeri o sul seno II negozio è finito, *■
O sul materno braccio non posava; * Spenta è la cortesia, morta e pietà;
Senza saper quoi sien le poppe o '1 grembo; E se il caso si dà.
Che nulla più de la primiera immago Che in me cresca per voi d'amore il male,
Vedea, ne di sua madre ombra apparia: Posso andare a mia pos*a a lo spedale.
Poiché Canopia in quel medesmo puntò Questi accidenti strani.
Sentissi il pie fatto radice, e tutto S*io fussi un uom collerico e irascibile.
Vide (se a veder più valeano gli occhi) O men del mondo e de le donne pratico.
Assottigliarsi il corpo in verde canna; Mi farian sriorre i bracchi, e darmia*caiii.
Le mani in foglie, e '1 crin converso in ti- Ma, perch'io son flemmatico,
[glio; L'avermi a disperar slimo impossibile.
Nè])iù aver fronte, ma un cespuglio misto K benché il dar ne i lumi,
J)i froudi minutissime e di fiori Chiamar crude le stelle, iniquo il fato,
Vedresti; e d'un odor grave e sonnifero (Costume sia d'un a mator sprezzato;
Spargersi tulta; e così viva starsi Ne le sventure mie
In arborea sembianza; e sentir spesso Non son per porre un tal concetto in opra.
Vicino il figlio garrulo e canoro. Ch'hanno che far le nostre scioccherie
Essa canape fatta, ei canneruolo; Colla gente di sopra?
Essa del figlio consolando i lai. Altri pensier che questi
Esso a la madre rammentando il fallo. Hanno in capo le stelle. Ed al destino
Che in sì varia natura trasformolli: Penso che nulla importi
Fin che la falce a lei tronchi le piante, S'altri lo chiama autor del suo travaglio:
E metta in fuga lui dal grembo amato, Che degli asini al ciel non giugne il raglio.
Che al caldo Austro a narrar volli i suoi Ne men seguir l'esempio
[casi. Di certi amanti io voglio,
Baruffaldi, Canapàjo, libro V, Che da l'amata lor mandati a spasso,
(Oltre al pianto e al cordoglio)
CXXIV. Sopra la città di Roma, Chi vuol precipitarsi,
Chi tra l'acque annegarsi.
Sei pur tu, pur ti veggio, o gran latina Chi con ferro omicida il sena apriiii;
Città; di cui, quanto il Sol aureo intoruo E cento appresso e mille
Ne altera più, ne più onorata mira, [gira, Strane pazzie, più che da far, da àì^i.
Quantunque involta ne la tua rovina. Con questi io non m'impiccio;
Queste le mura son cui trema e inchina Ne per cagion si lieve
Pur anche il mondo, non che pregia oam- In error caderci tanto massiccio.
[mira; So che non v' è maniera.
Queste le vie per cui con scorno ed ira Per provar se la morte è buona o trista,
Portar barbari re la fronte china. Di dar per alcun tempo
£ questi che v'i/itoiitfoa ciascun pa3S0| La propria vita in attuai deposito^
SECOLO deci:mctta\o
83
rire al mondo
rolla sol far lo sproposito .
i tornar quassù tradivi
>a una volta
va il sentiero;
vi giuro
nar giammai simil pensiero.
m^udiste spesso
io, voi sola adoro;
cosa a oro,
na più me stesso;
, per dirla giusta, poi
r me per far servizio a voi.
la esser disgiunto
mal; ben me n'avveggio;
ngo il caso in punto,
rmi assai peggio:
non è di senno appieno,
ì imminenti elegge il meno,
mza pensarvi,
rittura
quant'io posso,
mali ancora,
ii chesonnel mondo, addosso,
no, a cui rassembra duro
'idol suo mandato sano,
ipi e modi
"ti e frodi,
Jza alfin la palla in mano;
mil cosa
d'altra pasta,
termi a risico
cervello, o dare in tisico,
ito fin qui tanto che basta;
strigarla in due parole,
;r anch'io chi non mi vuole.
Baldaviiii'
a donnola^ il coniglio e il
gatto.
FAVOLA.
lente il cielo era vermiglio,
lava il dì,
dama
ìtta
» d'un giovine Coniglio
s'impadronì.
tato suo nuovo soggiorno
i Dei Penati trasportò;
tempo che il Couìglio stava,
nene e rugiadosi prati,
re il rinascente gicrao.
Dopo molto aver cercato
Colle e prato,
'''utto fresco, e a suo bell'agio,
Sen va verso il suo palagio.
Avea la Douooletta agile e destra
Messo il muso a Ig^ finestra;
Numi ospitali! e che vegg'io là dentro?
Disse tutto scontento
Lo scacciato animai dal patrio tetto:
Olà, Madama, che si sbuchi fuore
Senza rissa e rumore.
L'accorta dama dal naso appuntato.
Con maniera obbligante,
Rispose che la terra
È del primo occupante.
Vorrei sapere adesso,
Dicea l'usurpatrice,
Qual legge, qual statuto
N'ha per sempre il possesso
A Gianni, a Pietro, a Paol conceduto,
£ finalmente a te;
£ non più tosto a me.
Quivi Giovàn Coniglio
Allegò 1' uso e la consuetudine.
Qilesta, rispose, me ne fa padrone;
Questa di padre in figlio,
£ di Luca in Simone,
K finalmente in me trasmesso l'ha:
Onde la legge del primo occupante
Nel nostro caso alcun luogo non ha.
£ ben, e ben, Monsù,
Che imporla adesso stare a tu per tu?
Rimettiamla in un terzo: e questo sia
Il dottor Mordigraffiante.
Questo era un gatto, di legai semenza.
Che menava una vita
Come un savio eremita:
Un buon uomo tra'gatti, e di coscienza;
Di sguardo malinconico e coperto;
Giudice a fondo, e nel mesticr esperto .
Gian Coniglio per arbitro l'approva.
Kcco che ognun di lor già si ritrova
Davanti al tribunale
De l'unghiuto animale.
Mordigraffiante dice: vi consoli
Il Ciel, o miei figliuoli.
Come io vi metterò presto d'accordo .
Accostatevi a me; perch'io son sordo:
Le gran fatiche e gli anni
Soglion seco portar simili affanni.
S'accostò l'uno e Paltro litigante.
Ma non sì tosto esso gli vide a tiro,
Che il dottorale artiglio
Da due parti gettando \w txtì \s.\^^\^^
1
84
CRKST0MA7IA POETICA
Scanniò la Donnoletta ed il Coniglio;
ludi se gli mangiò:
E in tal maniera la lite aggiustò.
Lettor, ticnti la favola a memoria:
Che, se praticherai pe'tribunali,
Ti passerà la favola in istoria. — Crudeli.
CXXVII. Contro la soverchia
coltivazione dei monti»
Omai negletta
Del culto pastoral la nobii arte,
Poco spazio terren resta a gli armenti ;
K già, toltosi il più, gli ultimi avanzi
L'aratro vincitpr de'paschi agogna.
Ma (quel ch'ignoto esser un tempo, ostra-
Solea) de'gioghi a le più eccelse cime [no,
Co* vomeri per fin s'è giunto. E dove
Con mirabil lavor Natura cinse
D'altissime foreste e boschi annosi,
Insuperabil siepe, i monti e l'alpi.
Per difendere i colti aperti piani,
£ '1 difetto adempir di travi e legna;
Dove mille e m ili' altre erbe e radici,
Di sapor, di virtù, d'aspetto varie,
£ di fere e d'augei popolo immenso
Ripose ed annidò, per vitto ed agio
Nostro, e piacer e vestimento ed uso;
L'uom solo (o sempre al proprio danno,
[e sempre
Contro ^1 vero util suo disposto e pronto
Umano ingegno!), l'uomo solo, o sia
Di novità piacer, o ingorda brama,
O mal nato del core impeto, il vecchio
Costume e '1 naturai ordin sconvolto,
Non con le scuri solo, o con le faci,
A'^ia si aprì colà su, di rischi e aifanni
Nulla curando, a desolarne i vasti
Selvosi traiti, e i smisurati dorsi
Di cenere a coprir; con onta e atroce
Jra e dolor de la gran madre Idea;
Ma con la stiva inoltra, e con la grave
Mole de'tardi buoi, con vanghe e zappe,
A franger glebe e sbarbicar radici.
Tutta intorno a squarciar l'aprica terra,
Salì tant'alto; nuova forma, nuovo
Uso e lavoro ad accettar forzando
Le superate alpestri cime, e altero
Altra norma lor dando ed altra legge.
Di che molto crucciosa, e da dispetto
Punta e da sdegno, se vedendo e '1 sacro
Stuolo de l'alme vergini compagne,
Oreadi, Amadriadi, e quant'altre
A man boschi abitar, e tender arco,
Co'seguaci Silvani, e con Te infere
De'selvaggi quadrupedi e volanti
Disperse legioni, esser costrette
Lnnge dal natio regno e da le sante
Proprie sedi antichissime, ricetto
Tranquillo altrove a procacciar, Diana
Molti preghi e sospir, molti hmeati
Contro Cerere e Bacco innanzi a Giove
Ch'un dì portasse, é fama, eacerhameate
Molte cose movesse. O giusto padre,
Alto gridando, se non t'è men cara
Di Cerere T^atona; e di Saturno
Se a la prole la tua pospor non ami;
Me figlia dal tuo figlio e da l'ingiusta
Tua sorella difendi; e certa e salda
D'or innanzi pon legge, cui non vaglia
Caso tempo a mutar. Sin che rapace
Il mio impero usurparsi, e quegli stessi
Confini violar che di tua maifo
Por volesti qua giù sacri al mio nome, '
L'una e l'altro, com'or, presuma edosi;-
Tal io possa ne i lort) : e come alteri
Van de gli onori a me dovuti, io pure
Vaglia i loro a turbar. Sì disse.* e rati
Fece tai preghi il genitor, l' eccelsa
Testa piegando, onde tremò l'Olimpo.
£ da quel dì, tolto ogni freno, dove
Lor fu aperta la via, rapidamente,
Sospinti da la Dea, scesero al piano
Venti, turbini e nembi, onusti i vanni
Di grandini e procelle alto sonanti,
Miste a folgori e tuoni (che contrasto .
Non trovar più ne le recise braccia
De gli atterrati frassini, de i vasti
Divelti abeti, de i già tronchi faggi,
Degli aceri, de gli orni), a versar quaiift'.^
Pon ' volando rapir da gorghi e stagni
L'ampie nubi, e dal mar, diluvii d'acqnet
A inondar le campagne, a render vano .
De' pii cultori le speranze e 1' opre;
Anzi a un tempo medesmo intere balse,
£ antichissime selve, e rupi, e sassi,
£ dure zolle giù rotando, e ghiaje,
Con orribil fragor, a poco a poco
I monti a trasportar nel salso fondo.
Incominciaro allor, ricchi di tante
Spoglie, a gonfiarsi, e '1 molle dorso e 1;
[ fianco;
Di dì in dì a sollevar , torrenti e fiuAi ; .
£ prendendo essi ancor, superbi e insani,.
Letti e freni a sdegnar, ripari e sponde^'
Allor del regno suo geloso e incerto
(Cominciò a farsi, e a paventar Nettuno.^
* Ponno. Possono.
SECOLO DECIMOTTAVO 85
idosl in seno isole es^trane, Tutto in fine il primiero ordin riprendi»:
sirti, « non più viste sabbie, £ vedrassi ben tosto, a vostra laude,
mano si dolse, e minacciante A salvezza comun, d'erbe e di piante,
1 armarsi, e farsi a tutti incontro. D'ogni frutto miglior, di viti e grani
essàr gli antichi patti. I fiumi Bider i poggi, ed esultar le idilli.
•y gli altri minori, e C[uanti mai Spolverini, Coltivazione delriso^ libnol,
idi Nereo in grembo a cercar pace,
àr le prim*ire: e a dietro spinti, CXXVIII. Irrigazione di campi.
endo essi ancor chi venia sopra ,
fonti e ruscei volsero a gara , Ma l'attento cultorchea tempo raosM '
aedesma forza ond'erau volti. Gli acquidotti a osservar, gliargint. i fom
ggi natura: altro di cose Dispensatordel'acque;eàquestoeaquei|i>
iccesse. Già depresso l'alto, Die, qual volle ragion, ordine e forma ;
si Tumil ; e d'anno in anno Or di gioja riempia il core e 'i guardo,
crebbe cagion onde pesanti Liberamente in giù correr mirando
itti confin rompesser l'acque. Larghi i ruscelli ad allagar suoi piani,
mbando ne i pian da l'alte rive. Già n'annimzia l'arrivo, e lietamente
vernerò pria , 1' erpice, il rastro Precorrendo il cammin, con batter d'ali,
ino ' i terreni, ivi novello Con festevol garrir, turba d'augelli
e sarte e pesca trici barche In mille modi ad osservarli invita;
apparve, e si poteo ^, con strano Giàs'ascondon le glebe, e, sciolto il frenp,
palustri augei veder sul ramo. Di canal in canal, di varco in varco
ato guizzar squamosi armenti. Stendonsi l'acque; iufìn che a pocoa pooo
ipi e regi, voi ch'avete in mano D' un cristallino vel tutto coperto
inza e pietà da Dio le chiavi, 'Irovasi aver l'antica madre il grembo,
ete tai danni e tante stragi, Appajon rari, galleggiando intorno,
[lopoli afflitti, e incolta e mesta Entro a que'gorghi, in que'nascenti laghi ,
ostica langue , ed osa a pena Fangosi abitator, mill'empii mostri ;
netter al suol gli usati semi, La gracidante rana, l'agii topo,
e impiagar col ferro acuto, 1/informe scarafaggio, il mortai ro»po,
^nstó timor che d'anno in anno Labisciaimmonda; evolto in barca il tetto,
li, non scenda o turbo o fiume. La lumaca, e l'umìl corna in antenne;
'1 primo lavor, lo stile antico Verso i liti vicin, verso le opposte
1 buon villan. Restisi al piano Isolette natanti ognun cercando,
o, il marron, la vanga, il rastro. Per quell' umide vie, condursi in porto.
!0S0 bue ; si renda al ftionte Spolverini, Coltivazione del riso, lib, li.
ro armento ed il barbuto,
lar le rivestite zolle CXXIX. Trebbiatura.
rbosi sentieri. Erga e dispieghi,
nntempo,l'altier troncoe lefrondi Qui di fretta è mestier, d'ardire e forza;
idifera quercia, ilcerro, il faggio^ Qui di por mano a gli scudisci e a'iacci:
imo pin, il tasso, l'olmo, Ch'ora comincia ilpiù. Nessun stia indar-
io, l'abete; utile a l'aste [ no.
! questo a solcarli regno ondoso. Questi accoppi fra lor, quei volga in giio
gioghi la selva; ad essa torni ^ Le animose cavalle; e i lunghi, intorti,
ne hapiumaovelIo;e più non cali Lievi capestri a la sinistra avvolti,
ipo a predar agnelli e capri, Con la destra le punga, e al corso inciti,
idie e '1 furor oprando in alto , Bel veder le feroci, a pajo a pajot
lUir suo paghin la pena. Pria salir l'alte biche ; e somiglianti
n da se Pantico fondo, A'festosi delfin quando ondeggiante
loro confin ristretti, i fiumi; Per vicina tempesta il mar s' imbruna,
tndo, qual pria, placidi e piani , Or sublimi or profonde, or lente or rattq
^abbondan più portino al mare. Sovra d*esse aggirarsi; e.arditaJueq.H.
aao. B Potè* z Si mosse*
m
CRKSTOMAZIA
Sgominate avvallarle, ia oj;ni lato
Gli ammontiti covoa facendo plani.
Poi distese e concordi irsi rotando
Con turbine veloce in doppio bailo;
E smagliando ogni fascio, e sminuzzando
Col curvo piede le già tronche cime,
In breve ora cangiar l'erto spigoso
Clivo, d'ìnutil paglie, e reste infrante,
E di sepolto grano in uroil letto.
Ferve il giro e '1 pestio. S'ode bisbiglio
Di sì cupo tenor, qual se cadendo
Fischi, e '1 duro terren rara e pesante,
Senza vento, percota estiva pioggia.
L'une l'altre s'incalzano, e a vicenda
Prendon stimolo e '1 dan. Talor diresti
Flagellato paleo ronzar d' intorno,
O di naspo legger versata ruota :
Dal cui mezzo il rettor, de le fugaci
La pieghe voi cervice e '1 pie governa.
Pur lo sforzo, l'ardor, l'impeto, ilcorso
Ha qualche pausa. Indi ritorna il primo
Volteggiamento, e l'interrotta danza,
E l'anelito, e '1 suon. Tal fuma e spira
Fiato, anzi fuoro, da le aperte nari;
Tal dis lilla sudore, escou tai spume
Dal collo, e per le spalle, e per li fianchi,
Con SI grave respir, che le primaje
Dal soverchio sbuffar de le seguaci.
Molli ed umidi n'hanno i lombi e l'anche.
T^on con forza maggior, baldanza e brio.
Con più leggiadro portamento e sguardo,
Per li tessali pian corsero errando
Del centauro le figlie; e non diverse
L'erte orecchie vibrar, nitrendo a l'aure,
Di Saturno e Nereo le false spose.
Spolverini, Coltivazione del riso, libro IF".
CXXX, L' amante di tutte le donne.
Nascondetevi, o vezzose
Pastorelle, quante siete :
Semplicette, non vedete
Chi vi spera incatenar ?
Vieu da l'Alpi quel pastore
Che per tutte sa languire,
E godendo di mentire,
Sa per tutte sospirar.
Lineo è il nome ch'ebbe in sorte;
Nome noto a quante belle
Vanno a pascere le agnello
Su la Treisbia e in riva al Po.
Egli crebbe come cresce
Lungo pino in alto monte :
Da le fasce , in bruna fronte E
POETICA
Nero crine dispiegò.
Fu suo studio e suo costume
Mutar spesso cielo e lido:
Egualmente a tutte infido.
Egualmente lusinghier :
Incapace di costanza :
Quel che dice a Clori, a Fille,
Lo riduce ad altre nq^lle;
Solo intento al suo piacer.
Dice a Clori: mai non vidi
Più bel collo, e più bel ciglio :
Perde il latte e perde il giglio
Uguagliato al tuo candor.
Dice a Filie: mai non arsi
Per occhietti più vivaci :
Solo in questi le sue faci.
Per mia pena, accese Amor.
Così, ricco di menzogne,
Va cercando chi gli creda ;
Come instabile la preda
Cacciator cercando va.
Non è povero di lodi :
Ne sa dar quinte conviene :
Sa che son dolci catene
Per legare ogni beltà.
Accusato, non sol pronte
Ha sul labbro cento scuse,
Ma ritorcer sa l'accuse
Sul sorpreso accusa tor ;
E rivolgere s'ingegna
In suo merito il delitto :
Ne quel volto, sempre invitto,
. Teme assalto di 'rossor .
Se bellezza da la cuna
Non gli fé di se gran parte^
Consigliarsi sa con l'arte,
E il compenso rinvenir.
Lo vedrete sempre in chiome
Odorose, innanellate,
Kd in vesti sempre ornate.
Tutto vago, comparir.
Ninfe belle, se vi parla,
Se vi prega e vi lusinga,
Ah per lui mai non vi stringa
Vano affetto di pietà.
Rimandatelo deriso,
E sbandito dal cor vostro,
Ai suoi monti , come un mostro
Di scoperta infedeltà . Frugoni
CXXXI. risola di Cuccagna.
Mai pcnsier vostri altrove non volgeU
de la nave mia segniamo il corso:
SECOLO DRCIMOTTAVO
•e la nave, che, come inteso avete,
n ngo spazio di mare avea trascorso;
iè pt*rò ancor le fortunate e liete
^tngge, e de' monti butirrosi il dorso
«coprir poteva; e s'aggirava intanto
^on tì saprei Ben dir dove né quanto.
87
Quivi il lardo s'adopera e lo strutto.
Le quercechedcISol frangono il raggio,
Hanno per ghiande rilondetti gnochi,
1 quali giù tornando nel formaggio
(Ch'altra sabbia non trovasi in que'lochi)
Invitano ciascuno a farne il saggio.
Quand'ecco Gradellin^ che a ìk veletta Né v^ha mestier di guatteri e di cuochi
>tava, inteso a spiar ogni confine,
'^ide dalunge biancheggiar la vetta
)'alci]ne clementissime colline
losi coperte di ricotta schietta,
^)ine le nostre di nevose brine ;
£ Cuccagna, gridò, se non traveggo,
Perchè d'un ventolino al caldo fiato,
Tutto collo ivi nasce e stagionato.
Vinto a l'odor di tali cose e tante,
De la nave ciascun tosto si slancia;
E a' dolci cibi che si vede innante.
Troppo piccola aver duolsi la pancia.
Iuccagaa,|amici miei .Cuccagna io veggo. Ciascuno brameria d'esser gigante
Cuccagna, s'udì tosto a ripigliare Jn questa guerra, o paladin di Francia ;
^a la festosa ciurma e da'soldati ; Ciascun quanto più può distende il ventre,
l^iiccagna,rispondean gli scogli e limare; Acciò più torta o più polenta v'entre *.
Cuccagna, il cielo, e i venti imbalsamati Nel butirro talun si gitta a nuoto,
he spirando venian da tutti i lati, E vi s'immerge, e vi diguazza drento;
Di mille odor soavi e senza pare, Sotto le querce alcun sdrajato e imnìoto
Non d'incenso, di mirra, ovver di costo. Slassi aspettando ilsusurrar del vento»
Ma di salami, e di bragiuole arrosto. Onde cadono i gnochi; e ad ogni moto
I passcggier, come se avesser penne , Alza repente il naso, e abbassa il mento:
ì mpazlenti di veder la terrai. Ognuno in somma lietamente obblia
Salgono a gara le superbe antenne; La noja e il mal de la passata via.
I^hi l'artimone, e chi il trinchetto afferra; Quìrìeo Rossi.
A le girelle alcun stretto si tenne;
Gridandola l'armial'armijgucrraguerra: CXXXII. Dialogo di un pastore e un
ti in questo dir l'avventurosa armata
A risola felice era arrivata.
Chi mi darà le voci e le parole
Convenienti a sì nobil soggetto?
Chi l'ali al verso presterà, che vole
Tanto, ch'arrivi a l'alto mio concetto ?
Ben or si converria di bondiole
Armar la pancia, e rafforzarli petto;
Che cantar deggio i colli e la campagna
l)e la non più veduta, alma Cuccagna.
Fiumi di burro a tutte le stagioni
Scorrendo vanno, e dilagando i prati;
Dove nascon per erba i maccheroni,
E per ghiaja ravioli maritati;
Ed anitre e pollastri, oche e capponi
Di frittelle pasciuti e saginati,
Che, penne avendo di lasagne, intorno
Volano al quietissimo soggiorno.
Sorge un colle, nomato ivi Bengodi,
Dove di latte una fontana spiccia:
Ombra vi fan le viti in varii modi
Altre erranti, altre avvinte di salsiccia;
Che mettono un salame a tutti i nodi,
Ed in luogo di foglie han trippa riccia.
A concimar la vigna e il colle tutto,
fanciullo.
PASTORE
Sai tu dirmi, o fanciullino,
In qual pasco gita sia
La vezzosa Egeria mia.
Ch'io pur cerco dal mattino?
FAyClULLO
Il suo gregge è qui vicino;
Ma, poc'anzi, a quella via
Gir l'ho vista: e la segnia
Quel suo candido agneiiioo.
PASTORE
Nò v'er' altri che l'agnello?
FANCIULLO
Sopraggi unsela un pastore.
PASTORE
Ahi, fu Silvio.
FAUClULLO
Apunto quello!
Ma ti cangi di colore?
PASTORE
Te fjiicc, o pastorello,
Chi! n )n sai che cosa è amore.
' Euiri. Rolli*
SECONDA METÀ
blSL
SECOLO DECIMOTTAVO
QXKXlll.Jl cuor liberato à* amore*
Grazie a gringanni tuoi,
Al fin respiro, o Nice;
Al fin.d*un infelice
Ebber gli Dei pietà.
Sento da* lacci suoi ,
Sento che Talma è sciolta;
^on sogno questa volta,
Non sogno libertà.
Mancò Tantico ardore:
£ son tranquillo a segno
Che in me non trova sdegno.
Per mascherarsi, amor.
Non cangio più colore
Quando il tuo nome ascolto ;
Quando ti miro in volto,
Più non mi batte il cor.
Sogno, ma te non miro
Sempre ne* sogni miei ;
Mi desto, e tu non sei
11 primo mio pensier.
Lungi da te m'aggiro
Senza bramarti mai ;
Son teco, e non mi fai
Ne pena né piacer.
Di tua beltà ragiono ,
Ne intenerir mi sento ;
) torti miei rammento,
£ non mi so sdegnar.
Confuso più non sono
Quando mi vieni appresso :
Gol mio rivale istesso
Posso di te parlar.
Volgimi il guardo altero.
Parlami in volto umano ;
Il tuo disprezzo è vano,
È vano il tuo favor:
Che più l'usato impero
Quei labbri in me non hanno,
Quegli occhi più non sanuo
La via ài questo cor.
Quel che or m'alletta o spiace.
Se lieto mesto or sono ,
Già non è più tuo dono,
Già colpa tua non è :
Che senza te mi piace
La selva, il colle, il prato ;
Ogni soggiorno ingrato
M'annoja ancor con te.
Odi s*io son sincero:
Ancor mi sembri bella ;
Ma non mi sembri quella
Che paragon non ha.
E ( non t'offenda il vero)
Nel tuo leggiadro aspetto
Or vedo alcun difetto,
Che mi parea beltà.
Quando lo strai spezzai,
( Confesso il mio rossore )
Spezzar m'intesi il core.
Mi parve di morir :
Ma per uscir di guai,
Per non vedersi oppresso,
Per racquistar se stesso,
Tutto si può soffrir.
Nel visco in cui s'avvenne
Quell'augellin talora
Lascia le penne ancora^.
Ma torna in libertà.
Poi le perdute penne
In pochi dì rinnova ;
Cauto divien per prova.
Ne più tradir si fa.
So che non credi estinto
In me l' incendio antico ,
Perchè si spesso il dico ,
Perche tacer non so :
Quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona.
Per cui ciascun ragiona
De' rischi che passò.
Dopo il crudel cimento»
Narra i passati sdegni^
Di sue ferite i segai
SECOLO DECIMOTTAVO
89
Mostra il guerrier cosi.
Mostra così < ontenio
Schiavo che uscì di peiia,
La barbara catena
Che strascinava un dì.
Parlo; ma sol, parlando.
Me soddisfar procuro s
Parlo; ma nulla io curo
Ch« tu mi presti fé :
Parlo; ma non dimando
Se approYÌ i detti miei,
Né se tranquilla sei
14 el ragionar di ne.
Io lascio un'incostante,
Tu perdi un cor sincero :
Non so di' noi primiero
Chi s'abbia a consolar.
So che un sì fido amante
Non troverà^ più Nice,
Che un'altra ingannatrice
È facile a trovar.
Meiastasio,
CXXXIV. Riposo di Diana.
Qaand*ecco d'improvviso ognuno in-
L nalza
Del monte invérla cima attenti i lumi :
Un drappello di veltri in giù si sbalza,
£ abbaja e fruga, e annasa cespi e dumi;
£ veggon Diana che da un'erta balza
Discende a visitare gli altrui numi.
Élla fa che la lite non si estenda,
Con Valla maestade e reverenda.
La cacciatrice Diva, a la foresta
Seguito il lepre timido e vigliacco,
Anch'essa vuol entrare a questa festa;
£ a se raccoglie ogni sagace bracco.
Cala il can su le zampe la sua testa,
Sdrajato sul terreno il ventre stracco;
Ansa dal cavo fianco, e caccia innante
La sua riarsa lingua tremolante.
Elssa, cui langue affaticato il piede,
Gitta fra l'erba la faretra e l'arco,
E, mostrando a que' Dei le fatte prede ,
Appoggia a un troncon vecchio il fianco
C scarco.
Ogni dio le fa cerchio ; ognun le crede
Se dice: questa acceggia ho colta al varco:
Uccise boa un colpo sol queste due lepri,
Che a un tempo uscian da'lor natii ginepri .
Sue prede eran pernici, eran fagiani ,
£rano gallinelle e starnoncini :
Che non segue Diana animai strani.
Ma lepri, e quaglie, e miti uccelli e fitti.
Veste or pensieri agevoli ed umani,
Ne più guerriera assai gli antri ferini:
Or tordi e starne fa segno a'suoi colpii
Non cinghiali, non orsi, o lupi, o volpi.
Perchè, se tra noi s'amano le piume.
Se or sì fugge il periglio e la fatica.
Par che arrida anche a i Dei sì bel costume*
E sdegniu viver su la foggia antica:
£ perfìn Marte, quel suo duro nume.
Che ogni delizia avea per sua nimica,
Or di gire a la guerra ha preso in uso
In aureo svimer da i cristalli chiuso.
Già la Dea lassa vèr la fronte calda
Sventola il lieve cappellin di paglia ;
La treccia slaccia, che pria stretta e salda
Stea ' sotto un reticel di verde maglia;
Talvolta scuote al gonnellin la falda :
£ a la narrazìon più si travaglia;
Ne cicala ella sol, ma con le braccia
Figura i casi de la dubbia caccia.
Mentre alleggia la Dea così l'angoscia»
E in lungo tragge il suo vario sermone;
Palpa una ninfa a un canl'orecchiafloscia»
Che tremola gli casca e penzolone ;
Un' altra pela ad un fagian la coscia,
E sclama intenerita : almo boccone !
£ chi misura il becco a la beccaccia,
£ chi al lepre i mustacchi in su la faccia.
Pur tre prudenti Najadi edacute,
Novel conforto a la molesta sete
Volgendo in mente, non da altrui vedute,
Partir de l'orto taciturne e chete :
Ne l'onde si tuifaro, e l'onde mute
Chiusersi sovra i lor capi quiete :
Zucchero e fraghe esse portaron seco
Dentro al paterno ed agghiaccialo speco.
Nuova confezìon ivi formaro,
Lo zucchero mescendo al succo espresso;
Succo che non riman liquido e raro,
Fatto dal ghiaccio ancor tenace e spesso.
E poiché dentro a vetro puro e chiaro.
Con rigoglioso colmo, l'ebber messo;
De l'acque uscite, a Diana l'offrirò;
Che al sorso primo trae lungo sospiro.
Sospira di piacere e di dolcezza,
E va alternando con le lodi i sorsi:
Perchè la verginal sua bocca avvézza
Non ebbe a tal diletto a i tempi scorsi.
£ la madre Pomona anch' essa apprezza
De'sorbetti l'amabile comporsi,
Onde ribes estiva e Portogallo
' Stava,
00 Cl'^r.STOMAZIA POF.TIGAl
^'idgrsi incappellar posria il cristallo. Di morte, clie pareamì, anzi io sentia
Roùene, Fitgo]'^ canto IJ. Le inghiottite acque entrar fin ne le vene;
Perche il vortice infranto, che s^lia
GXXXy. // precipizio. In lirghi spruzzi da i spumaati seni,
Gol rimbalzato mar mi ricopria.
Era tranquillamente azzurro il mare; Varano^ visiooe /.
Ma sotto a quella balza un sordo e fisso
Muggito fean le spumanti acque amare ; CXXXVI, il turbine.
Che un fiume, cui fu dal pendio prefisso
Cieco sotterra il corso, ivi formava Dal nembifero mosse alto Apennino
Co' moti opposti un vorticoso abisso. D'atri vapor nitrosi un turbiu carco
Desio di rimirar qual s'aggirava Su l' albeggiar del rorido mattino,
A spire il flutto, e tratto poi dal peso E l'opposto fendendo aere più scarco,
Perdeasi assorto ne l' orribil cava, D' oscure lo coprì nubi spezzate,
Me mal saggio avviò fin allo steso Che a lungo stese e poi ricurve in arco
Dentro i profondi golfi orlo del masso, Scendean, salian or sciolte, oraggrap;-
£ da incauto affrettar così fui preso, £ dopo V urto divideansi rotte [paté;
Che sul confin io sdrucciolai col passo. Da lampi lucidissimi e segnate,
Da V erta caddi , e un caprifico verde £ dal vortice ovunque eran condotte
Afferrai sporto fuor del curvo sasso. Ratto più che non è colpo di fionda,
Gli spirli, cheil terror fuga e disperde, Seco traean grandine, vento e notte.
Corsermi al cor, lasciando in se smarrita Dal re de' fiumi a la populea sponda
L'alma, che il ragionar stupida perde. M'avvidi il pien d'orror nembo apprcs-
In cotal guisa l' infelice vita C sarse
Sospesa al troppo docil tronco stette Per lo increspar retrogrado de 1' onda,
Fra certa morte e vacillante aita. Pel lume fier che sovra l' argin arse.
Sa r onde in rotator circoli strette E per la polve attorcigliata in suso.
Fissai, ritorsi, chiusi le pupille Che si folta ne gli occhi a me si sparse,
Da un improvviso orror vinte e ristrette; Ch'io co le man difesi il ciglio chiuso.
E tal ribrezzo misto a fredde stille Varano, visiono//.
D' atro sudor m' irrigidì le avvinte
Mani al sostegno mio, che quasi aprille CXXXVII. // fenomeno dello la Fa-
Fra cento vane al mio pensier dipinte la Morgana, al faro di Messina,
Jdee, che furo in un momento accolte,
E cangiate e riprese e insiem rispinte. Nuli' aria commoveaP acque, ncjrento;
Sconsigliato tentai co le rivolte Pur gonfio il mar sicano insorse e nero,
Piante e al dirupo fitte, arcando il dorso, E il Calabro spianossi, e qual argento
Arrampicarmi a le pietrose volte; Lustro fosse, di se fé specchio vero
Ma il pièa toccarla roccia appena scorso Co la cima erta sul trinacrio lido.
Era, che il ri tirai, dubbio qual fosse E il basso pie ne l' italo sentiero.
Peggior o il mio reo stato , o il mio soc- In questo pel chiaror cristallo fido
[ corso; Tante immagin vid' io, che a l'alma parve
Perchè a l'arbor, che al grande urto si Che l'occhio fosse in presentarle infido.
[scosse, D' infinite colonne un lungo apparve
Temei col raddoppiar l' infausta leva Ordin egual; ma in un baleno monche
Sveller affatto le radici smosse. Sembrar, che la metà somma disparve;
Grida tronche da fremiti io metteva, E in quella parte ove rimaser tronche.
Che da i concavi tufi e da le grotte Si spiegar tutte, e di se fér mblt' archi
Un eco spaventevol ripeteva. Rozzi, e simili a quei de le spelonche,^
Già dal forzato ceppo aspre e dirotte Che si moslraro a l'improviso carchi
Sul corpo mi piovean ghiaje ed arene, Di vaghissime torri e di castella;
E l' ime barbe già scoppiavan rotte ; E anch' ess2, qual fumo che l'aria varchi.
Già l'alma ingombra avean larve sì Sparirò, e in vece lor nacque novella
[piene Di piramidi scultc aspra foresta ,
SECOLO DECIMOTTAVO 91
In li ainpia valle a fiori pinta e bella; Sì che i nocchieri al lor periglio intenti
E in mille colli e in mille armenti que- Salir pe* gradi a l'aspre corde intesti
[ sta Le agitate a raccor tele stridenti
Cangiossì ancor ; tal ch'io sclamai : tra- Fra i sibili del vortice funesti ,
O sogno forse con pupilla desta? [veggo? Cui resister mal puoteErcinia e Ardenna;
Varano^ visione V. Ma tal fé la procella impeto in questi,
Che duo di lor , in men che il dito ac-
CXXXVIII. V aurora boreale, [cenna,
L*ampia vela aggruppando a l'arbor carco,
Colà, dove Aqnilon serba i ridutti Divelti fur da la tremante antenna:
Gelidi venti, che poi scioglie irato E come augei Paure fendendo in arco,
Centra le selve annose e i salsi flutti. Dopo un languido oimè sparver assorti
Dal polo fin de l' oriente ai lato, De* golfi irati nel terribil varco.
iZon luce di sanguigno ardor feconda Notte recando e verno erravan sortì
Si tinse il taciturno aere stellato; Nel tenebrato del nuvoli spessi.
Tal che de V Eridan presso a la sponda Che ricoprian di nebbia i lidi e i porti;
Ne rosseggiaro al ripercosso lume [da. Ed al crescer de 1* ombre i flutti stessi
Gliuomin,le navi, i tronchi el'erbeeron- Parean del legno sormontar le sponde.
Mentre, seguendo il nuovosuocostunie Crescendo mole e feritade in essi. [ de,
Ardea purpureo il ciel , gli apparve al Venian pugnando insiemgrossissim*on-
[ lembo Altre a proda , altre a poppa , e fean in
Un, che Taure inondò, ceruleo fiume; [ parte
E da l'azzurro e dal vermiglio grembo Or monti erti, or voragini profonde;
Rai ne sgorgaro or agitati or cheti, E ognor del mare a la gonfiata pirfce
E ondeggiamenti del focoso nembo, Levavasi la nave, e al sen più basso
E globi che splendean come pianeti. Avvallando rendea delusa ogni arte.
E lucide corone ed archi e liste , Noi pel terror immoti a par d' un sasso
E argentee volte e pcscarccce reti. Restammo in pria; ma la vicina morte
Ben conobb' io nel meditar le viste I pie ci sci»ls<', ed affrettonne il passo
Fiamme dipinte con mirabi l'arti A librar, benché invan, col pondo forte
Kaccolte da natura e fra lor miste, De'corpi il lato, in cui per l'urto esterno
Che i sottili nitrosi efflussi sparti S' ergea troppo l'abete in dubbia sorte:
Dal gelo acuto per gli aerei campi Ma pel gran motoad ambo i lati alterno
Salir dal zolfo ad irritar le parti Lassi cademmo, e il nostro inutil corso
Dalsole attratte, quando awiencheav- I tempestosi fiotti ebber a scherno.
Alto dèi Cane sot;o l'ignea stella, [vampi Privi di Sol, di guida e di soccorso ,
K allor scoppiaro in color varile in lampi. Stesi sul pian del legno combattuto.
Sparia, poi riacrendeasi ogni facella; Squallidi per immenso mare scorso,
Ed era or l'ostro illanguidito, ed ora Piagneam col timonier, che avea per-
Eca di vivo fulgor mostra novella. [ dulo
Varano, visione FI, Fra le infinite acque e l' orror notturno
Lena e consiglio, e temea smorto e muto
CXXXIX. La tempeita di mare. Gli ultimi abissi, ove un crudel vul-
[ turno
La fronte il cavo abete avea diritta Traporlator spignea la poppa errante.
Là dove il passaggier al lido ibero Fatano, visione FU.
Su le salse dr Gallia acque tragitta;
E i tesi lini a un aqnilon leggiero. CXX. Il prato.
Spiegando, qualseavesvea i fianchi penne,
Radea col volo il liquido sentiero; Spinsi, qual uom mosso da voglie strane
Quando a gonfiar l' onde improvviso Di cammin novo, su i parmensi liti
[ venne Le piante da la via retta lontane;
Turbin, e il mare fra contrarli venti È rampi attraversando, e rinverditi
Per dirotta fortuna alto divenne ; Solchi ove in frondi par che sviluppato
Oi CRESTOMAZIA POETICA
li seme a biondeggiar le spiche inviti, Ivi si ergea; ma sol di sabbia pij^nc
Dopo un bosco da querce annose om- Valli ampie si perdean co Porizzonte,
[ brato, Sfumando i confìo lor ne le serene
Giunsi in aperto piano, in cui senz'arte Vie dell'etere azzurro. Unica al guardo
Slendeasi ricco di germogli un prato. Lungi splendea ne le solinghe arene
Il vasto loco pien di vario-sparte Mole alta fin dove ferir può dardo,
Folte erbette , che nulla arbor, né fratta E colà il grande e non più visto obbietto
Con intralciati rami ingombra o parte, M'invitò il passo per tristezza tardo.
IJtolceallargommiil cor, cui sembra in- Sul terren da qualunque arte negletto
[ tatta Maravigliando io già che l'occhio avvezzo
A par del guardo aver sua libertate, Sì a luugo fosse a non mai vario aspetto;
L'immenso avidamente a scorrer atta. Ch'io dal Sul non varcava a l'ombra e
Qui nel varco di quelle a fior smaltale f^i rezzo,
Piagge il fianco posai sotto rugoso Ma sempre egual fendea lume, e la stessa
Olmo d'opache insiem foglie intrecciate. Aria nullo spirante odor, ne lezzo;
Ove il puro aere , il rezzo ed il riposo ^ ^^^ ^"^ ^ ^^ ^^^^ ™^° grave e spessa
Grato a stanchezza invogliò più l'ingorda Arena sorgca fuor con fiacche forze
Vista a vagar per T ampio strato erboso. Macchia di spini appena sorta e oppressa,
Kotto ora il lato spazio era da lorda Ch'io m'avvidi esser nido in cui rinforze
Trave d' un altaleno , onde pendea Vipera od aspe il giovanil veleno
Vaso a trar l'acqua avvinto a docii corda, Da le svestite loro aride scorze.
Or da capanna vii, su cui serpea Varano, visione VL
L'ellera, i cerri ad agguagliar avvezza,
Che l'aride nel letto alghe radea CXLII. La sorgenti dell' Arno.
Bozzi obbietti alpensier; mala rozzezza
Spirava per l'erbifera pianura Vago di penetrar perchè Natura
Lietaf semplicità, se non bellezza. Non mai d'Arno gli umori appien consumi,
Scorrea la morbidissima vcrzura E incerto ancor se del mar l'onda impura
Favonio, cui son le odorate rose Per sotterranee ghiaje e chiusi dumi
£ i molli gigli amica e facil cura, Feltrata salga a le montagne, e scenda
E quelle umili piante e rugiadose Partita in rivi ed in perpetui fiumi;
Piegando, inteneria co^la diffusa io l'erta ascesi d'una roccia orrenda,
Aura le fibre lor sotterra ascose; Che in mezzo a l'appennine Alpi nevose
Mentre il passero grigio, e la delusa Le vie tosche e l'emilie avvien che fenda;
Spesso da'rai de gli aggirati specchi Ch'ivi s<!ontrando ognor le rigogliose
Lodola, e a l'arduo voi la rondin usa. Acque scorrenti da l'origin prima
Aleggiando scegliean i levi stecchi Disvelarne credei le fonti ascose;.
Per tesser nido a la futura prole Stendeasi larga quell'alpestre cima
Di molle creta e di sermenti secchi. In scabri sì, ma rinverditi prati.
Il suolo, ove arator non mai si duole Benché ad aspro soggetti indocil climax.
Che a fecondarne i germi indarno ei su- Questi d'argin informi e di solcati
Di cui cultor e con Natura il sole, [di, Dorsi e di gore e d'ineguali fosse
Sì adescato m'avean, che a me que'ru- In varie strane fogge eran vergati.
Campi s'offrian leggiadramente ameni [di Cento scorgeansi in essi , ove serbosse
Più assai de'colti co'piò eletti studi. La pioggia, late vasche, altre già vote
Furano, visione X. D'acqua, altresceme, altre ricolme egro»-
Di là salii balze più eccelse, e note [Se.
CXLI. // deserto. Solo a i rapaci augelli, e trovai boschi.
Spelonche e abissi, in cui giaceano immote
Mi trovai dentro a vasti campi aperti, Le nevi e ghiacci, o splenda il giorno
In cui non allignò mai verdeggiante Co infoschi,
Erba né pinto fior, né irrigò fonte Non mai squagliati, perché troppo inerte
Con limpid'acque le frondose piante; È il sole a riscaldar quegli antri foschi. [
^ ' jSaa ìape J9ada uè selvoso monte Vidi in altre caverne al ciel 3copett^
SECOLO DECIMOTTAVO 03
lar leiinfe dal pendio condotte Al comun fonte per attinger I*acque
ìnxnppate e a i raggi terre aperte; Gian nude il piede, e il crin incolte e sot-
a più alte selve altre dirotte E chi di lornel sonno eterno tacque [xe;
precipitando in tufi e in greppi A un lieve sorso, e chi raminga e sola
rsi dentro a fesse rupi e a grotte. Pria di giunger al fronte esangue giacque,
su purilcammin fra schegge e ceppi Gli amici, cui parte d*aiFauno invola
e pomici mai non viste altrove, L'alterna vista, si guatavan fiso
i, ne come il superassi io seppi; Nel mesto incontro senza far parola;
olà rimirai vora^^in nove, Poi fra il duol ristagnato a l' improvviso
presi entro a quelle e sciolti umori Si dirotte spargeau lagrime acerbe,
bic'Austro per Testreme prove, Che avrian un sasso per pietà diviso,
ampi squallidissimi, peggiori Talor silenzio, qual avvien che serbe
el ch'uom finger possa, alberghi solo L*aria muta fra inospiti deserti
vi e di g«*late acque e d'orrori. Colmi di sabbia, e d'acque privi e d'erbe;
tai di tante piogge in erto suolo £ singhiozzi talor fiochi ed incerti;
toi vasti un sovra l'altro stanti. Poi strida alte e ulutati, e in flebil metro
vario del Sol girar dal polo. Querele erranti per gli spazi aperti:
a i venti fra lor vario-spiranti, Sì che il lor suon acutamente tetro
'. vapor che il sotterranei) foco Crescea più raddoppiato, e in sé confuso,
sntroal monte^estriscian fuorgron- Dal mar,^ da i monti ripercosso indietro.
[danti, Ognitempio era infaustamente chiuso;
sgomentai che il misto ordin del loco Immoti i sacri bronzi, e a le nutturne
star atto sia continue l'onde Lampade tolto di risplender l'uso:
ì in giù da la scesa a poco a poco Le armoniose canne taciturne;
ra sterili sassi, o erbose sponde; E senza l'immortal vittima l'are,
urne tragga sol perenni l'acque E senza nenie pie le squallid' urne,
nontani antri e vasche, e non d'aU Varano, vìsìoda X.
(tronde.
Varano, visione XII. CXLIV. Sopra lo stesso argomento.
CLIII. La peste di Messina. In mezzo. a valle solitaria e vasta -
Stridea scoppiando fra le vampe ingorde
l porto, dove il mar sembra che sta- Di cento adusti ceppi ampia catasta,
la guida, qual amante figlio [gni, Con picche armate in ferro adunco, e
ai tenera sua madre accompagni, ^ ^ [lorde
si via d'orror carca e di periglio, Di melma, traiti eran que'corpi al rogo,
morte di mille umane spoglie Cui più vita sì dura il cor non morde:
rendea l'insanguinata artiglio. Sacerdoti e fanciulle, e quei che il giogd
)r de l'abbandonate immonde soglie Maritai strinse, ignudi, e insiem confusi,
an gli avanzi de la plebe abbietta Di vicin tolti e da rimoto luogo:
li paglie e infracidile foglie: E fra questi (ah ! chi fia che adombri
tri con gola orrendamente infetta D'altanecessilateil gran delitto?) [o scusi
ngrenose bolle; altri avvampati Vivi che ancor moveangU occhi non chin-
lo da fatai febbre negletta; Ma palpitanti col ronciglio fitto [si,
tri da lunga fame omai spossati, Ne la gola i sospir versando, e il sangue
»el velen, ma pel languore infermi, Dal collo in sì crudel foggia trafitto,
altrui membra putride sdrajati; Strascinata ogni donna ed uom esangue
altri in lor natio vigor più fermi , Ad arder con pietà tanto inumana,
lè lasciati sott«» i corpi estinti. Come striscia per terra ignobil angue,
fra l'ossa accalataste e i vermi; La faccia avea deformemente strana,
i di squallor mortifero dipinti, E questa si, che non serbava alcuna
orecchie rose e labbra mozze. Orma in se lieve di sembianza umana,
volti umani iti modo fier distinti. Sorla era già quella che il mondo im-
illustri donni a par de le più rozze Ak^>^^."v^
94 CRESTOMAZIA. POETICA.
Pur le tenebre sue folte allumava Fra l'altissime fiamme, ove in un punto
L*ardor dei roghi e la splendente luna. S'aLbronzò, frisse abbrustolato ed arse.
Un vecchio allor mirai, che Immobil Da questa del furore ostia disgiunto
[stava Fui per la guida, e dietro a le sacr'orme,
Presso a la pira , e le rugose e smunte Presi un seutier che a l'onde era congiunto:
Gote di lagrimoso umor bagnava. £ in una torre un ragionar informe
Egli, torvo ne gli occhi, e al petto ag- Udii, e qual suol neMeliri incerto;
[giunte Poi col crine irto vidi un uom deforme,
Le incrocicchiate man, sciolse tremando Che piombò su le selci aspre daTerto
Tai voci a spesso sospirar congiunte: Col capo volto, e ne schizzar le miste
Ahi misero! perche non perii quando Cervella al sangue fuor del cranio aperto.
Da me l'amata figlia il crudo mise lo torsi gli octhi da Timmagin triste;
Colpo di morte eternamente in bando? Ma in quel momento altra crudel m' as-
O perchè almeno allor me non ncrise Vergata il volto di livide liste [salse.
Duolo, iraeorror, ch'io l'insepolte e grame Furente donna il vicin tetto salse,
Sue membra vidi in brani esser divise? £ in pianti vaneggiando e in folli rìsa
Mentre scagliate su putrido strame, Si gittò dentro a le voragin salse.
Oh memoria feral! fur de'voraci Scorsa la via poco dal mar divisa,
Cani serbate a saziar la fame. Io teneri mirai bambin leggiadri
Che far potei privo di spirti audaci Con bocca di marcioso umore intrisa
In curva età, povero d'agi e d'oro Succhiar il tosco da le spente madri ;
Tolto a me da le ree destre rapaci? £ altri miseri meno in fra le troppe
Che il mio guerra mi fé ricco tesoro Sventure lor presso gli afflitti padri
Più che il tosco mortai fra le sconvolte Di capre miti le villose coppe
Leggi, e un empio poter maggior di loro. Stringer scherzando;e queste ad essi il latte
Oh fortunate appien l'anime sciolte. Docili porger con benigne poppe.
Cui l'ultimo destin l'ultimo porse Mentre a l'occaso eran le stelle tratte
Scampo fra tante pene insiem raccolte! Col pianeta minor da i raggi smorti ,
Oimè! l'aria, in cui sparto il velen corse Con cui l'ombra la prima alba combatte,
Fra l'infocata estate e i roghi accesi. Scoprii fra il frombo di percosse forti
Rende la vita del respiro in forse. Un giovane guerrier sparuto e fiacco,
L'acquadei fonti, in migliorstellaillesi, Ferri agitando a doppia fune iutorti.
Or calda e di maligni atomi carca, Non armato venia d'elmo e di giacco.
Ributta i labbri nel gustarla offesi. Ma coperto le ingorde ulceri solo.
La terra stessa non appar mai scarca Che tutto lo rodean, d'ispido sacco.
Di sordidezza marcida e di lezzo, Un cada ver parca ritto sul suolo;
E il piede ognor vermi e putredin varca. Pur su la fronte un non so qual soave
S' io miro, il guìairdo a i dolci obbietti Cipiglio avca d'invidlabil duolo,
[avvez zo Talor, poiché più lena il pie non ave,
S'infosca al fumo, e sol forme atre scorge, Languia de'servi in braccio, e poi movea,
Che gelido nel cor destan ribrezzo: Raddoppiandosi i colpi, il passo grave.
S'i'ascolto.aspraal'orecchiooriginpor- Mentr'ei di se lo strazio orribil fea,
D'inconsolabil lutto il fremer tronco [gè Rinforzando a la voce il debil suono.
D'urli e di lai, che disperato sorge. Gridò: Figlio di Dio, che a questa rea
La mano il tatto abborre, e fin un bronco Anima il divo sangue offristi in dono.
Arido sfugge d'afferrar, e al braccio Perch'ella de'pensier empi e de l*opre
Sta giunta come ad un marmoreo tronco . Chiegga e in quel sangue troviancor per-
Ah ! pronta ecco la via d'uscir d'impac- [dono,
Nè.v'haduopoadarfineagliannioscuri[GÌo: Eccola a i piedi tuoi. Più nonlacopre
D'acuto ferro, o d'annodato laccio. La sua ribelle a te misera carne,
Già m'invita la pira ardente; i duri Che ulcerata e corrosa i nervi scopre.
Affanni questa accolga, e le invan sparse Oh immcnso,oh invitto Amor! che per
La^rime^ e all'ombra mia pace assecuri. A l'eterno penar si breve prova [sotinirAc^
I?Jsse; e debil, ma fier venne a gittarse Di duol volesti a nostro siampo darae ,
SECOLO DECIMOTTAVO 95
Quanto la tiia pleiade in me rinnova Mestissime apparirò ombredattoroao
Il rimembrar deTalli miei più crudo! E in men che scorre una sei voi te in diece
Ah! lagrime non già, ma sangue piova Divisa parte di volubil ora,
Il moribondo cor, che in petto io chiudo. Squallido la città cumol si fece
Guardami: a te le man gelate io stendo; Di rotte pietre addentro miste e fuora
Quelle apri tu del sacro corpo ignudo. Fra spezzate finestre, archi e colonne
E le mic'teco stringi al tronco orrendo. Mozze, altre stese, altre pendenti ancora .
Tu le tue piaghe desti a me, che amasti; L'eccidio fier, di cui non mai potronne
£d io qiiai piaghe vili, oimè, ti rendo! Vivi ritraire i danni, e lo smarrito
In COSI dir gli omeri enfiati e guasti Sole, e l'alterno urlar d'uomini e donne,
Sì duro flagellò, ch'io gridai quasi: E il volto de la guida impallidito,
Deh! cessa, e tanto esempio ornai ti basti. Ch'io non so come aggiunta erasi meco,
£i da Tosssa poiché svelti ebbe e rasi Mi rimembrar l'estremo dì compito
Gli egri carnosi brani, in seno a quelli De le terrene cose; e per quel cieco
Che gli feau scorta ne gli estremi casi. Aere temei su la fulminea nube
Appoggiò il capo, e fra ilaug uomo velli L'eterno rimirar giudice bieco.
Dolcissima spiegò sul volto pace, £ le angeliche udir ultime tube;
£ gli occhi fisi al ciel sembrar più belli; Ma la guida, che pria giacque pensosa,
Poi, come suole semiviva face, Qual coniglio che in macchia ascoso cube,
Che nel ratto sparir più s'avvalora, Ripigliando vigor, disse : già posa
Lieto sclamò: ti seguo, ove a te piace Stabile il piano. 1 tetti mal sicuri
Guidami tu, Dio di boutade. Allora Ila questa sede, e l'altra pur dubbiosa
Mulo e ombrato da gli ultimi pallori Che a fronte stassi, incerti serbai muri.
Spirò l'anima pia verso l'aurora. S'apre al fuggir la via. Vincer fa d'uopo
Varano, visiont V. Col senno e co l'ardir colpi si duri :
Seguimi. £Lmosse;ed io guatandol,dopo
QXXS .Il terremoto di Lisbona, Un profmdo sospir, ne seguii l'orme
Ignaro de la strada e de lo scopo.
L'ore presso al meriggio eran già corse, Stranamente il senlier s'è rgeadifForm e.
Quando muggirò i sotterranei fochi Asprissimo e scosceso in rozzi mucchi
Per la nova che il cielo esca lor porse. Di pietre, e in massa inegualmente enorme
Ben de la terra in pria languidi e fiochi Di travi e in torti ferri e mar mi e stucchi,
I moti fur; ma il zolforoso nido E seggi e letti e deschi ancora tinti
Più ardendo scosse anche ipiù sodi lochi. Di sparsi cibi e di pampinei succhi:
Dirotto rimbombò quindi uno strido Pur da necessitate i pie sospinti
Del popol tutto, a Dio chiedendo pace; Battean quel calle, e s'arrestavan lassi
£ altamente mugghiarne i colli e il lido. Dal cammin spesso malagcvol vinti.
Il pian divenne a i dubbii pie fallace Oh quante volte in alternar i passi
Nel raddoppiar le scosse, e co'sonanti Caddi, e abbracciai caldo cadaver pesto
Bronzi non tocchi dier segno verace Scoperto allor da sgretolati sassi !
Di mina fatai le vacillanti £ quante, arrampicandomi al funesto
Testuggini de'tempii, e le più ferme Monte di tetti o affatto svelli, o scemi,
Torri ne la serena aria ondeggianti. Dal tetro fondo udii lo strider mesto
Io ratto corsi ove credei vederme De'isemivivi, che ne'casi estremi
Salvo dal suol,cheincertoors'erge,or cala, Voce mettean fra que' spiragli acuta,
A l'ima soglia; e a le mie membra inferme Sclamando:oimè!perchènecalchiepremi?
Per terror die il lerror più fervid'ala , L'orrida via d'ogni conforto muta,
£ de la porta fra le arcate bande E di ruine e di fiaccate o rase
Fuggii saltando la tremante scala. Ossa, e di membra luride tessuta,
M' assordò allor mirabilmente grande Fiero obbietto m'offerse : onde rimase
Precipitoso scro$cio, e d'ogn' intorno Sì oppresso il cor, cheil novoagli occhi a»>
Sc(4>piò qual luonche mille tuonispande. C salto
Immenso polverio coperse il giocno, Superò quel ile le pendevol case.
£ de .la luce desiata iavece Marmorea fascia nel ^loiahax da.V^\»
96 CRESTOMAZIA POETICA
XJem giia>fo avea, che da saggetta loggia Ah! date a me fra TafEannata noja
Tentonne forse il disperato salto. De l'alma eil palpi tarde 'membri estremo,
Sovra le intatte sponde in crnda foggia Che almen lo stringa al seno anzi eh' io
Senza capo giacca l'informe tronco [moja.
Lordo, e grondante di sanguigna pioggia. Io co l'affizio di pietà supremo
L'unbraccioel'altrubruttamente monco 11 fanciul presi, eaquel languente il porsi
Per le strappate mani, e trite in mille Petto pieno d'amor, di forze scemo;
Pe2;zi le canne fuor del collo tronco. Ed ella, che sentì l'amato porsi
Il duce mio sotto quell'atre stille Pegno nel grembo, di più forti armata
Varcò il sentier; ed io con lena stanca Spirti ed affetti al cor materno accorsi ,
Ristetti e con attonite pupille ; L'annodò, lo baciò co la gelata
Quand'ei mi disse: i passi tuoi rinfranca. Bocca, sclamando: il Ciel ti doni anpadre.
Che siam presso al confìn. Vana e vii tema £ tenera e dolente ed agitata
1 pie t*anHoda, ed a te il volto imbianca. Le molli del bambin carni leggiadre
Il suo dire e l'oprar destò l'estrema Troppo in morir compresse, edinunponto
Forza ne' mici smarriti spirti, e feo Spirò l'anima il figlio e insiem la madre.
L'anima del terrore inutil scema: Da spettacol si amaro ebbi compunto
Tal ch'io vinsi passando il cammin reo. Cotanto il sen, ch'io co la guida sparsi
E a la meta arrivai tinto del sangue Largo di pianti umor a i primi aggiunto.
Che il palpitante ancor busto perdeo. Salimmo indi ambo ove parca levarsi
Qui nel mirar giovane madre esangue, Il piano in facil colle, e per i folti
Piansi ; e ben tratte avria 1' acerbo caso Pini e cipressi ombrosamente ornarsi:.
Lagrime da un'irata orsa,o da un angue. Ed ecco vacillar da strano colti
Precipitato largo trave a caso Tremore i colli, e in screpolosi fondi
Su l'imbrunite e stritolate cosce Spesso i corpi ingojar vivi sepolti.
De l'infelice donna era rinvaso. Oh infausta e crudel terra, che fecondi
Non lungi in quellaetà che non conosce Modi d'acerbità varia produci,
I proprii danni, un vago pargoletto T' apri, e in te guasti e stritolati ascondi
Figlio accresceva a lei 1' ultime angosce. D'un popol(^ gli avanzi! Ah! le mie luci
Sciogliendoellaconmansmortalostret- L'aspetto fierpiù tollerar nonponno.
[to Guidami tu, gridai , che mi conduci»
Velsulepoppe,benchcinfrantaeoppressa, A men orribil loco, ov'io sia donno
Chiama vai dolce a l'amoroso petto: In pace almen fra tanti affanni stanco
Ed ei carpone invan moveasi, ed essa Di chiuder gli occhi nel perpetuo sonno.
Sospirando, e guardandolo sembrava Ed ei rispose : affrettati sul nianco
Dogliosa più di lui che di sé stessa. Sentiero ad abbracciar robusta pianta,
Noi con pronto vigor, che lie prestava Chèinnanzioindretoilpièportareilfianoa
Di caritate il zel, trarla d'impaccio Ci vietali terrenfesso.Ailor con quanta
Tentammo, e dal gravoso arbor che stava Lena potei corsi, e del duce sotto
Su lei rappresa ornai dal mortai ghiaccio: Lascortauu pino strinsi; e appena a tanta
Ma per quante scegliesse arti l'ingegno, Velocità bastevol fu il dirotto
AJii! non fu pari al buon voler libraccio . Sì scorto spazio, in cui novo e diverso
La donna allor: per sì bell'opra il degno Tremilo ammarginò del cammin rotto
Guiderdon serbi a voi, disse, l' immensa 1 cupi abissi, ove poc'anzi asperso
Pietà, che iu dar mercè varca ogni segno. Di sangue e polve un uomfrasassiearent
Me de le piaghe mie la doglia intensa, Non lungi a me precipitò sommerso.
E il terribile colpo a morte spinge, Ce«sò in breve la scossa , e ne le vene
E già m'annebbia i rai caligin deusa. Tornò al sangue il calor, per cui del monte
Or questo parto mio, che nel suo pinge Poggiammo a l'erta con mendubbiaspene.
Volto l'aita che per lui richieggo, Ivi dappresso a una turbata fonte
Fugga il destin che di perigli il cinge. Vidi a Pispano Pier del tempio sacro
Per voi salvo egli viva,altro non chieggo; Diroccati ambo ì lati e l'ampia fronte,
£ allpr morte mi fia riposo e gioja. E de l'acque sorgenti entro al Uficro
Mjd(f^èiI6gìhmÌ0f ch'io più noi veggo? I traportati e pel terren tumulto
SECOLO DECIMOTTAVO V)7
roiifiiÀi avanzi inslem del simulacro. Poiché adorato umile elihi con esso
Sovra un marmo sedemmo ancornon L*invisibii di Dio gloria tremenda,
C srulto, Ch<* a fral guardo mirar non è permesso,
Scelto del fonte a intonacar la sponda : Sbigottito scoprii negli atti orrenda
iVIa, oimè! che acerbo a noi crebbe il sin- Schiera,cbe ovunque voli, avvien per tutto
[ guho Che fra eccidio e dolor le nubi fenda.
Dal sommo in rimirar ne la profonda Vedi, ei soggiunse allor, rpial tragga
Sua foce enfiato il lago, e TOceAno [ frutto
^f corso su i lidi altissimo co Tonda. L*alma dai vaneggiar de' suoi pensieri;
Divorò il flutto i fuggitivi invano Vedi quei che a recar la morte e il lutto
Da f^li agitali colli uomini e belve , Stanno su Tale pronti aspri guerrieri
^canìpo cercando su piti fermo piano; Co l'occhio attento iti aspettar il cenno ,
C col moto onde avvìen che il mar s'in- Contro cui scampo arte o valor non speri.
[selve Quel che calcante armi e trofei t'ac-
Oonfio, in secche portò non mai s(9lcate [ cenno,
l.c armate navi entro l'opache selve, [le E l' angiol che mutò Nabucco in belv,a ,
Volgemmo il mesto sguardo a l'atterra- £ tolse a lui co l'alterezza il senno,
Case, e di sotto a le mine sparse E d'ogni cruda fiera che s' inselva
Nubi scorgemmo d'atro fumo ombrate Lo fé compagno, onde co'suoi muggiti
In mille giri verso il ciel levarse, Del grand' Eufrate empiè l'acque eia
ilhe orribile ne dier prova che tutte [ selva.
Quell'estreme dovean spoglie esser arse. , L'altro ch'abita in aria i vanni arditi,
barano, vbioue VII. È quel the ne la notte in ciel segnata
Lo squallor mise ne gli egizii liti,
CXL VI. Il tempio della vendetta E scannò i primi figli ; e sguainata
di Dio. Ancor tenea la fulminante spada,
Clre di sanguigne strisce era bagnata.
Levai lo sguardo , e tal sentenza stesa Quegli cui par che da la fronte cada
l^ssi ne'duri bronzi in su l'esterna Gruppo di lampi al suol per cener farne.
Porta con cepui di diamante appesa. D' Asfalte nella fertile contrada
li libero voler , che l' uom goveuia Vibrò le fiamme nitrici a divorarne
Reo de l'iniquo oprar, questo alzò tempio L' infame terra, e la consunse, ed arse
A la Giustizia ultrice e a l' ](ra eterna. De gli empii abitator l'ossa e la carne.
Gli error miei gravi, e del mio giusto L' altro cui scritto su le ciglia apparse
[ scempio Sterminator , co le man preste e nere
L'editto, che in qne* carmi aperto scorse Di Siloe in riva il sangue assiro s[)arse,
L' anima consci:» a se del suo cor empio, E serba ancor de le svenate schiere
Fdrs'i, che mentreilcondotiier mi porse A l'asta, che ne' petti armati immerse,
1^ man per superar le soglie insieme. Le ravvolte da lui caldee bandiere.
Gran tempo stetti di seguirlo in forse ; Questi ne la Giudea, mentr'egli offerse
Ma da lui preso al fin conforto e speme, In sagrifìzio a Dio vittime tante,
Posi tremante il pie dentro i secreti La strada a l'aure venenate aperse
Aditi sempre chiusi a Puman seme. Del buon re sciolto in pianto a gli oc-
Giungean al ciel le fulgide pareti [ chi ava.nte.
Scari he di tetto, che al chiaror diviso Vedi che ancor la feral tazza aggira
De Paere sacro il penetrarle vieti. D'orribile furpr colma e fumante,
Nel mezzo eretta un'ara, e in quella in- Varano^ vbiooe I.
[ fiso : ,
lo son principio e fine; a mi dintorno CXLVII. La vallo della pietà divina.
Sette fra i Gherubin più ardenti in viso
Davan incensi , e>ne rendean il giorno Ma già de l'ampia valle a noi le apriche
Annebbiato da fumi, e il tempio stesso Piagge apparian di vaghi fior coverte
Di maestà fra dubbia luce adorno. E dì verdi erbe a impallidir nemiche.
LK(yp.iRDi, Crestomazia. II. 7
98 CRESTOMAZIA POETICA
A le dolri acque da' bei rivi oiFerte II nome, e sotto quel: Da me fa vinto.
Giacca prostrata innnmerabil turba Precorrea quanto è d* una selce ilgitlo
A braccia stese e co le labbra aperte; La feral schiera un condottier più truce,
E Tacque, il corso a cui mai non per- Che il sommo in essa avea scettro e diritio.
[ turba A ia squallida e rea faccia del duce
Limo od alga, scendean da un monte al- Giunge squallor sotto palpebre immote
[ pestre , Lo sguardo tinto di sanguigna luce.
Cui nebbia o nube il capo al ticr non turba, Duo serpi sorti da 1* orecchie vote
Perchè ardea su la cima alla e silvestre Di suono striscian senza inciampo e legge,
Sì chiaro un Sol, che par di raggi privo Sibilando or al collo, or su le gote.
Quel che sorge a fugar Tombra terrestre. La trista fronte elmo fasciato regge
Talor sembrava inaridirsi un rivo, Da corona intessuta a lauri freschi
Mentre un altro da lungi entro le sponde Da frusti di spolpate ossa e da schegge.
Gonfio crescea di limpid' acque e vivo. L* usbergo aspro è al di fuor, ed in ra-
I^è Teterna che in lor virtù s'infonde, torridi rilevato, e fuso a scaglie [ beschi
Valea soltanto ad ammorzar la sete, Di rinterzati spaventevol teschi.
Ma purissimo il cor rendean quciPonde. La destra,cinta da ferrate maglie, [mo,
Qui fin del globo da V oscure mete Stringe una falce contro a belva e ad uo-
Vario accorrea popol di volti e lingue; Barbara e invitta ognor ne le battaglie ,
£ quel che i campi de 1* aurora miete. Coi segno, ahi vista amara! onde fudo-
£ quel cui dal color bianco distingue L'antico padre da la colpa antica, [ tuo
Ne l' arsa Etiopia l'annerita pelle, A l'asta de la falce infisso il pomo.
E quel cui lunga notte il giorno eslingue ^L' altra man fra la ruggine s'implica
Là dove regna il freddo Arto ro,esvelle Di scure briglie, ed un cavallo afirena
Da le piante il vigor co i moti pigri Pallido e spregiator d'ogni fatica»
De le sue tarde aquilonari stelle. Che concitalo da terribil lena
Qui adorno pur de le squojale tigri* Soffia, e di spume il duro morso imbianca,
Stuolo d' abita tor fieri si tragge Scalpitando e spargendo alto l'arena.
Dal grand' Eufrate e da l'armeno Tigri. Varano, visione X.
Né de le nuove americane spiagge
Manca il rozzo ciiltor, oh colpa infame ! CXLIX. La Provvidenza divina.
Uso le belve ad imitar selvagge
Col sangue umano in satollar la fame; Ed eccco un carro aspro di gemme, e ìd
Nudo, e coperto sol di penne i lombi Di gloriosa pompa e trionfale, [[gniia
Insiem tessute con arboreo stame. £ sovra il carro eterea donna assisa.
VaraìiOy visione YI. Cinta è da manto inargentato, quale
Di colma hina avvien cheil disco allnmi;
GXLVIII. Gli Angeli della morie. In cui tinti da man d'arte immortale
Splendon uomini e belve, in varii lotti
Quando in menchenoB scoppiano i ha- La notte, il giorno e la nascente aorora,
[ leni, E quaata terra abbracciam mari e fiumi.
II prato inaridò vento che sorse Grave pensoso ha il viso, e ad ora ad
Del nevoso Aquilon da i freddi seni. Rifolgora seren; ch'alto sospesa !C(>ni^
E dietro al vento un calpestio trascorse; Fiamma triangolare il crin le indora.
Bomoreggiando per lo pian battuto. Un occhio a par di viva stella accesa
Che là donde movea, gli occhi mi torse; Le irraggia il sen; l'eburnee dita strette
E fra paura e maraviglia muto De la sinistra arcata in parte e stesa
Vidi gran turba in fieri atti, e con volto Tien su libro fatai chiuso da sette
Crudo e in difformità varia sparuto. Jnfrangibil sigilli, in cui l'impresso
Pedestre era la turba, e di quel folto Divino Agnel l'immagin sua riflette.
Stuolo ciascun tcnea croceo dipinto Piega ella il destro braccio; e su convesso
D'atra immago un vessillo a l'aure sciolto. Scudo appoggia: tra fulminee strisce
In cui d'illustre donna, o d'eroe spinto Chi è forte a par di J^io? leggesi inesso.
De l'ombre a i regni bui s' orgeasi scritto La mano un vaso in rovesciar laigisce
SECOLO DECIMO! r AVO
09
lu umor che per le fibre gira
lì terreno germe, e lo nudrisre.
una queU belva o iudocil tira
;iiSlo carro viocìtor de i venti,
ipirito motor le rote aggira, il
Sia di te più felice altra mai terra.
Chi del. morir del nume, e lUA celeste
Risorger suo repente
Può l'ialto penetrare ordin alterno?
Forse s'adombra nel militerò, e in queste
nto e più legìon di spirti intenonii ^le dubbie a nostra mente
. provvida donna al cenno, e pr ,.* Il vario corso del pianeta eterno,
a ampia fcan d^innumerabil genti . Che ne l'oscura ed orrida
tri custodi eletti a i laghi e a i fonti Brnma da noi ritorce il carro, e torna
altri a le sabe acque, altri a le valt^ Seco traendo la stagion più florida
s, ed altri ai boschi opachieaimont : Del tauro ad infiammar le aurate corna;
ri a i marmi, allegemme ed ai me- £ muore ove i suoi rai con debil forza
[talli, Vibra, e rinasce ove Pardor rinforza,
a gli astri, e a Tinsolite comete Adone, amor de l*aima dea più bella,
ciinite su gii eterei calli. O dal fenicio altare
Vuranoy visione X. -^^^ nome i voti a te porti più pronti;
O più ti piaccia in idumea favella
CL. Le feste di Adone. Tammo chiamarti, e Tare
Vederti erette di Sion su i monti
maro i boschi di Fenicia, e i fiumi In fra la nubi e l'iride;
bano cadenti goda che l'Egitto ognor t' invochi
tguigno color tinsero l'onde; Nel ccfperto di Un busto d'Osiride:
sidonie ninfe, umide i lumi Tu in meuo a l'ostie pìngui e a i puri fochi
^me dolenti. Risorgi a noi fra i canti e le carole
se abbandonaste amiche sponde. Col nuovo Sol lucido a par del sole.
Varano, Demetrio, atto III.
lo da le frondifere
t vedeste la divina Astarte
r di lutto le caverne ombrifere;
ree chiome sparte
* co l'ugna, ed abbracciar del bianco
Adon l'orrida piaga e il fianco.
CLI. in morte della sua donna»
L'alma, in cui d'ogni corpo immagin
[nasce
ndi l'annua da noi memoria triste Pe'sensi, e col desio cresce, e diventa
:ndo or si rinnova
rtrde serena età de l'anno;
Jti e ululati e voci miste
liti fan nuova
era pietà mostra e di affanno
ì al finto e squallido
steso nel mortai feretro;
l'immago del cadaver pallido,
[ lugubre e tetro,
trte, si consacra onor solenne,
iuta or di raggi ed or di penne.
I e cara a gii Dei biblide riva,
* lo mar crudele
di sacri a l'immortale Ammone
Esca di lei, che di pensier si pasce,
Le amate in sé volgea di beltà spenta
Rare sembianze, onde ragion fu vinta;
Troppo a cader pronta, e a risorger lenta;
E tal forma affinando al cupo avviata
Suo meditar co l'infiammato ingegno:
Oimè! Amennira, disse, è dunque estinta!
Tant'ebbe il Ciel gli uman i voti a sdegna.
Che d'eterna coprì nebbia quel volto.
Su cui partian grada e onestadeil regno?
Ah! se il bennatospirto in vaga avvolto
Spogliale concesso in dono a i bassi chio-
Innanzi tempo esser dovea ritolto, [stri.
Perchè in lui tutta unir quanta si mostri
la urna di giunchi al porlo arriva Virtù divisa fra mill'alme, e poi
locchier, né vele,
felice del risorto Adone,
«Ili tumidi
molle de'cedrini fiori
1 te dintorno, e i vapor umidi
in co i dolci odori;
quante Neltun co Tonde serra,
Mesto farne argomento a i pianti nostri?
E perchè al bel fulgor de^raggi suoi.
Mentre sparia, si chiaro aggiunger lume
Per gravar d'atra notte Amore e noi?
Ma, lassa! donde avvien chUo mi con-
' [snme
Fra sì tristi sospir? Vinto pur giacque
400 CULS'IOMAZIA POI.TICA
Chi a la miu liliertado arse le piume. v^olgeu, che mai lassù non furo affissi
Tre lustri il Sol rivolse in giro, e tacque Né più amorosi, né più amabirotchi.
De'miei desir l'agitatri<-e guerra, Tacendo essa, io pur tacqui, OQon ardissi,
Ch'ella destò, (he por mio duol mi piacque merendessse muto il mio stupore.
Pace altìn mi recò lontana terra Confuso altin ruppi il silenzio, e dissi:
Lunga etade, e men cruda immagin uova; O mia misera speme e mio dolore,
Ed or che il Irai di lei sceso è sotterra Fra le spolpate nel funereo seggio
Sveglia del loco mio l'antica prova Ossa tue carche di cotanto orrore.
Nelle ceneri sue? Dunque l'acerba Amennira, ed è ver ch'io ti ri veggio?
AJorte, che tutto spegne. Amor rinnova? O pur fra i sogni e i simulacri vani
Dunque uuo scioglie, e a l'altro il no- Del mio turbato immaginar ondeggio?
[do serba Da quali ignoti spazii, e alberghi arcani
Più amaro? E per chi è polve e per chi vive Degli antri, ode gli abissi, ametuvieui
Va in un colpo di due trofei superba? Tratta di Morte dalle ferree mani?
Deh! chi mi guida a le infelici rive, Ma da qualunque a me sede ti meni
Ove annebbiate da i lugubri orrori Sì amico volo, ah! tu soave spiri
Giaccion le membra pie di spirto prive? Grazia, e fra il lutto ancor mi rassereni.
Sì che di pianto e di fumanti odori, Io già credei che i caldi miei desiri
E di fior copra le gelate spoglie. Dal volto tuo per lunga via divisi
E se vive le amai, spente le onori. Nulla più desser esca a i miei sospiri;
L'ultimo cercherei, se pur s'accoglie Che interrogai del cor qurgl'indivisi
Ne i languid'occhi, scolorito raggio. Dal dolce palpitar moti, che furo
Che in me temprasse l'affannate voglie: Vive poi fiamme, ove a penar lo misi;
Udrei, o udir parriami il parlar saggio Né in lui conobbi de l'antico e duro
De le pallide labbra e taciturne, Suo nodo orma pur lieve, anzi mei finsi
UdC a spirar dolcezza a ogni uom selvaggio; Queto, e in sua libertade appien securo;
E stri guerci le fredde mani eburne E d'inni eletti a coronar m'accinsi
Con tanti d'amor segni e di pietade. Altre labbra ed altri occhi, e i novi rai
Che invidia ancor n'avrian l'altr'ossa e Dc'tuoi più vaghi al paragon mi pinsi;
[l'urne. Ma poiché quella che non rota mai
Varano, visione VL L'adunca falce invano, al mondo tolse
Teco il lume che ogni altro ombrò d'as«ai,
CLII. Sopra lo stesso argomento. Destossi l'ardor mio piùforte,eavvobe
Col primo laccio il cor, cui Valse poco
lo vidi L'*'»T«r suo, che il deluse, e noi disciolse.
Ililta fra i venti su l'opaco avello Seutii,quandoildì sorse, equandoilloco
D'Amennira la forma, e a i segni fidi Cesse a la notte, che squallida crebbe,
La riconobbi. Era il medesmo e vago L'iuimagiu tuaspirarmi affanno e fuoco;
Volto che m'infiammò ne'patrii lidi; E fin la mia ragi »n stessa m'increbbe.
L'aria stessa e il color: non avea pago, Che tanie in meditar sotterra mute
Né mesto, ma tranquillo il viso grave, Tue doti, il duolo e il desiderio accrebbe.
E maggior de l'antica era l'immago. La triste allor bramai mia servitale;
l-a mente, chrf le larve oscure pavé, E quella che parca tua cru dettate
Dal leggiadro senti spettro diffusa CjI vero nome suo chiamai virtute;
Alaravigliosa in sé luce soave; E per sì raro aggiunto a tua beltate
E da la piena calma al core infusa Pregio e fulgor Tavvelenato strale
Argomentò che quella fosse un'alma Più acerbe m'inasprì le piaghe usate.
K) dal ciel scesa, o in pace a viver usa* Ahi lasso! orso che l'alma a fuggir l'ale
Fisa io guardava l'impalpabil salma. Non ha, se Amor contrasta; ed or m'av-
Ch'o ve avvien che il vel doppio in sen tra- [ veggo
[bocchi j Che Amor,cheda virtù nasce,è immortale.
Stretta avea l'u uà insieme a l*al tra pai ma; Farano, ymot^e \i,
E a l'alto i lumi da pietà sì tocchi
SFCOLO DECIMOTTAVO iOl
E fa due solchi a le vermiglie gole; [de,
CLIII. La gara pastorale . Ma,pcrchè dentro il core amor non chiù-
Smarrita spesso fra le ninfe tace;
PILLI Ch*odian le ninfe le sue voglie crude.
Io ferma son,poicbc un avverso nume filli
Copri di crudo gelo e d'orror cieco * L'olmo a le viti, il muro a l'edra piace,
Dafni, che al viver mio fu scorta e lume, A i muti pesci i cristallini umori,
Di serbargli la fé. Questa ehbc meco Ed al mio cor la libertà e la pace.
Indivisa vivendo; e sia mio vanto glori
Ch'ei l'abbia in Stige eternamente seco. L'erbe piaccion a Tagne, a l'api i Bori,
Poi libertà miccara,e aTombreacanto, T.e tepide nigiade al fiore e aTerba,
Mio ^acer solo è sceglier fìor da fiore, Ed al mio cor i languidetti amori.
E innamorar i pinti augei col canto. filli
GLORI Io piglio, quando maggio i prati inerba.
Lingua che sdegna ragionar d'amore , Fra i varii grilli, quel che allarga e preme
Oh ! sarà dolce inver, dégna che mova L'ali, e ne trae la melodia più acerba;
1 sassi ad ascoltarla, e gl'innamorc. Poi men vo fra i pastori, e colPestrelme
FILLI Labbra tanti gli do baci, che alfine
Sarà dolce cosi, che, se a la prova Ognun d'invidia ne sospira e freme.
Meco verrai, queste mie nere chiome glori
Adornerò d'una ghirlanda nova. Iopiglio,qnando il di giunge al confine,
glori Le lucciole ne' prati ampii ridotte ,
Io pronta sono a gareggiar. Ma come E, come gemme, le comparto al crine;
Saprem dì chi più dolce il canto suona? , Poi fra l'ombre da'rai vivi interrotie
Ecco un p^stor. Chiamalo tu per nome. Mi presento a i pastori, e ognun mi dice:
filli ^ elori ha le stelle al cria come ha la Notte.
Qual da noi due più eletto stil risuona, filli
Giudica tu, Dameta, • siedi al rezzo. Odi quel rosignuol su la pendice,
I^ lite è il cantone il premio una corona. Che del visco, ove cadde, ancor si lagna,
dametjì e io mlserabil metro il canto elice.
O bellissime ninfe, io sono avvezzo glori
A giudicar de l'armonia de i carmi, Odi quel calderin che l'accompagna,
K a voi giusta darò la lode e il prezzo. E il visco benedice, in cui s'avvenne,
ncominciale. Io qui m'assidoai marmi Ch'ivi trovò la dolce sua compagna.
Che fan b'ase a ladea. Le frondi el'acquc filli
Ad ascoltarvi inlente esser già parmi. Jcr mi sdgnai che mille l^ianche penne
FILLI Eranmi nate al dorso, e che dal polo
Libertà pria d'amor ne l'alma nacque, Un vcnlii;el quaggiù rapido venne,
E fra' pastori crebbe e pastorelle Che leve leve m'innalzò dal suolo;
Semplice e pura; e libertà mi piacque. E udii de gli astri il suono, e vidi il giro.
GLORI Oh amica libcrtade ! oh dolce volo!
Amor discese in noi da l'alte stelle: glori
Ei sol regge quest'alma, e la con.sigifa, Jer mi sognai che mi premean in giro
K m'empie il cor d'immagini più belle. Tanti lacci di fior, che il core appena
FILLI Potea pel gran calor sciorre un sospiro;
Cleri ha biondi i capei, bionde le ciglia, E che per alleviar la mia catena
E i languid' occhi del color del mare, Mifacea vento Amor battendo Tali.
E il roseo volto che a l'alba somiglia ; Oh amica servliude ! oh dolce penai
Ma perche oudre in sen le fiamme ama re, filli
Co'sospir tronchi e con le luci immote l^tQo Pandora il vaso, onde a i mortali
Spesso, con fusa iufra le ninfe appare. Nembo d'affanni eternamente piove ,
GLORI E Amore il primo usci fra tanti mali.
Filli ha il volto seren, gravi le note, glori
E nel bel riso neri occhi socchiude, Pur questo male ancora piacque a Giove,
102 Cr.ESTOMAZIA
Ola per amor dal rielo, ov*ei soggiorua,
Scese, e vestì forme terrene e nove.
FILLI
Tu d'amor canti, e sai che d'arco adorna
'l'ode la casta Dea che ad Alleone
Fé per fallo minor nascer le corna.
CLOEI
S'io d'amor canto,aI mio cantar pcrdone
La casta Dea che pose in Latmo il piede
Per vagheggiar l'amato Endimione.
FILLI
Verdi prati, alte selve, opaca sede
De le Drì'adi care a i numi agresti,
Chiare, fresche acque, voi fatemi fede.
Ch'io lìbera anteposi errar per questi
Fioriti poggi, e in taci t'ozio ameni,
A quante Amor tenere gioje appresti.
CLORl
Eterno Sol, che il giorno a noi rimeni,
Acr azzurro, amiche aure giulive,
Nubi dipinte da i raggi sereni,
Fatemi fede voi che il cor non vive
Scevro d'affanni, e pace unqua non ave.
Se d'amor non ragiona, o pensa, o scrive.
FILLI
Soave geme tortora che pavé.
Soave il cigno che il suo fato molce:
Ma il tuo bel canto, o Clori, è più soave.
GLORI
È dolce il mele che ogni labbro addolce,
Dolce raccolto appena il bianco latte ;
Ma il tuo bel cauto , o Filli , è assai più
[ dolce.
DAMETA
Ninfe, a voi cede Orfeo, da cui fur tratte
A l'armonia le belve ; e la siringa
Pan vinto appende a l' odorose fratte.
A voi cede il gran Dio ch'ebbe raminga
Pastoral forma, e fé presso ad Anfriso
Dolce sonar Totrea rupe solinga.
M'avea il bel canto sì da me diviso,
Che innanzi l'ore al morir mio prescritte
Esser credea nel fortunato Eliso.
Nessuna vinse, ed ambe siete invitte.
ramno, e^doga II,
CLIV. L'età provetta.
Volano i giorni rapidi
Del caro viver mio,
£ giunta in sul pendio
Precipita l'età.
Le belle, oimc, che al fingere
Han lingua così presta ,
POETICA
Sol mi ripelon questa
Ingrata verità.
Con quelle occhiate mutole.
Con quel contegno avaro.
Mi dicono assai chiaro:
'Noi non siam più per te.
E fuggono e folleggiano
Tra gioventù vivace,
E rendqn vi loquace
L' occhio, la mano e il pie.
Che far? degg'io di 'lagrime
Bagnar per questo il ciglio?
Ah no: miglior consiglio
E di goder ancor
Se già di mirti teneri
Colsi mia parte in Guido,
Lasciamo che a queUido
Vadi con altri Amor.
Volgan le .spalle candide.
Volgano a me le belle :
Ogni piacer con elle "
Non se ne parte altìn.
A Bacco, a l' amicizia
Sacro i venturi giorni.
Cadano i mirti, e s* orni
D' ellera il misto crin.
Che fai su questa cetera ,
Corda che amor sonasti?
Male al teuor contrasti
Del nnovo mio piacer.
Or di cantar dilettami
Tra' miei giocondi amici,
Augurii a ior felici
Versando dai bicchier.
Fugge la instabil Venere
Con la stagion de* fiori ;
Ma tu. Lieo, ristori
Quando il dicembre uscì .
Amor con 1' età fervida
Convien che si dilegue * ;
Ma l'amistà ne segue
Fino a l'estremo dì.
Le belle, ch'or s'involano,
Sebi fé, da noi lontano;
Verranci allor pian piano
Lor brindisi ad offrir.
E noi, compagni amabili.
Che far con esse allora?
Seco un bicchiere ancora
Bevere; e poi morir.
Panni:
'Dilegui.
SECOLO DKClMOTiyiVO
d05
CLV. La caduta.
andò Orìon, dal cielo
nando, imperversa,
ggia e nevi e gelo
la terra ottenebrata versa;
! spinto ne la iniqua
ìae, infermo il piede,
fango e tra l'obliqua
de*carri la città gir vede;
per avverso sasso,
a gii altri sorgente,
lubrico passo,
> il cammioo stramazzar sovente,
e il fanciullo, e gli occhi
gonfia commosso,
cubitoo i ginocchi
)rge,o il mento, dal cader percosso
i accorre; e, oh infelice,
len crudo fato
) vate! mi dice; ,
10 ndo il parlar, cinge il mio lato.
1 la pietosa mano,
zrra mi toglie;
ippel lordo, e il vano
[, dispersi ne la via, raccoglie,
ricca di comune
, Ih patria loda;
blime, te immune
> da tempo che il t uo nome roda,
ama gridando intorno;
lolesta incita
ler fine al Giorno,
i cercato a lo stranìer ti addita:
ecco, il debii fianco
ni e per natura,
1 suolo pur anco
lannostrascinandoe la paura:
1 si lodato verso
occhio ti appresta,
salvi a traverso
ii dal furor de la tempesta.
;nosa anima, prendi,
novo consiglio;
à canuto intendi
attrarre a più fatai periglio.
;iunti tu non hai,
liche, non ville,
far possan mai
na del favor preporre e mille.
|ae per Terte scale
[)ica qual puoi,
atrii e le sale
Ogni giorno ulular de*pianti tuoi.
O non cessar di porte *
Fra lo stuol deVlienti,
Abbracciando le porte
De grimi che comandano a i potenti;
E lor mercè, penetra
Ne' recessi de' grandi;
E sopra la lor tetra
Noja gli scherzi e le novelle spandi.
O, sé tu sai, più astuto,
I cupi sentier trova
Colà dove nel muto
Aere il destin de*popoU si cova;
E fingendo nova esca
Al pubblico guadagno,
L'onda sommovi, e pesca
Insidioso nel turbato stagno.
Ma chi giammai potria
, Guarir tua mente illusa,
trar per altra via
Te ostinato amator de la tua musa?
Lasciala: o, pari a vile
Mima, il pudore insulti.
Dilettando scurrile
1 bassi g<*nii dietro ai fasto occulti.
Mia bile alfin, costretta
Già troppo, dal profondo
Petto rompendo, getta
. Impetuosa gli argini; e rispondo:
Chi se'tu, che sostenti
A me questo vetusto
Pondo, e l'animo tenti
Prostrarmi a terra? Umano sei; non giu-
Buon cittadino, al segno [sto.
Dove natura e i primi
Gasi ordinar, lo ingegno
Guida così, che lui la patria estimi.
Quando poi d*età. carco
Il bisogno lo stringe.
Chiede opportuno e parco.
Con fronte liberal, che l*aima piago.
(:J se i duri mortali
A lui voltano il tergo,
Ei si fa, contro a i mali,
Ne la costanza sua scudo ed usbergo.
Né si abbassa per duolo.
Ne s'alza per orgoglio.
Così dicendo, solo
Lascio il mio appoggio, e bieco indi mi
Così, grato a isoccorsi, [ toglie.
Ho il consiglio a dispetto:
E privo di rimorsi,
Con dubitante pie, torno al mio tetto ;
' PortL f urini*
iOA
CRESTOMAZIA POETICA
CLVI. Jl pericolo.
Invano, invan la chioma
Deforme di caniue»
E l'anima ^à doma
Da i casi, e fatto rigido
11 senno da Tetà,
Si crederà che scudo
Sian contro ad occhi falgidi,
A moLil seno, a nudo
Braccio, e a Paltre terribili
Arme de la beltà.
Gode assalir nel porto
La contumace Venere;
E, rotto il fune e il torto
Ferro, rapir nel pelago
Invecchiato nocchier;
E per uovo periglio
Di tempeste, a l^arbilrio
Darlo del cieco figlio:
Esultando^ con perfido
Riso, del suo poter.
Ecco, me di repenl<».
Me slesso, per rundeeimo
Lustro di già scendente.
Sentii vicino a porgere
Il pie servo ad Amor:
Èenchè gran' tempo al saldo
Animo invan tentassero
Novello eccitar caldo
Le lusinghiere giovani
Dfl. mia patria splendor.
Tu da i lidi sonanti
Mandasti, o torbid' Adria,
Chi sola de gli amanti
Potea tornarmi a i gemiti
E al duro sospirar:
Donna d'incliti pregi
Là fra i togati principi,
Che di consigli egregi
Fanno l'alta Venezia
Star libera sul mar.
Parve, a mirar, nel volto
£ ne le membra Pallade,
Quando, l'elmo a sé tolto,
Fin sopra il fianco scorrere
Si lascia il lungo crin:
Se non che a lei d'intorno
Le. volubili Grazie
Dannosamente adorno
Kcndeano a i guardi cupidi
L'almo aspetto divin.
Qual se, parlando^ eguale
A gìgli e rose il cubito
Molle posava! quale
Se improvviso la candida
Mano porgea nel dir!
E a le nevi del petto
Chinandosi, da i morbidi
Veli non ben costretto,
Fiero de l'alme incendio
Permetteva fuggir!
Intanto il vago labro,
E di rara facondia
E d'altre insidie labro.
Già modulando i lepidi
Detti nel patrio siion.
Che più? da la vivace
Mente lampi scoppiavano
Di poetica face,
Che tali mai non arsero
L'amica di Faon,
Ne quando al coro intento
De le laueiuUe lesbie
L'errante, violento,
Per le midolle fervide
Amoroso vele».
Né quando Io interrotto
Dal fuggitivo giovane
Piacer cantava, sotto
A la percossa celerà
Palpitandole il sen.
Ahimè, quale infelice
Giogo era pronto a scendere
Su la incauta cervice.
S'io nel dolce pericolo
Tornava il quarto dil
Ma con veloci rote
Me, quantunque mal docile.
Ratto per le remote
Campagne il mio buon Genio
Opportuno rapi.
Tal che in tristi catene
A i garzoni ed al popolo
Di giovanili pene
lo canuto spettacolo
Mostrato non sarò.
Bensì, nudrendo il mio
~ Pensier di care immagini.
Con soave desio
Intorno a l'onde adriache
Frequente volerò.
Paritù'
SECOLO DECIMOTTÀVO
jOi
LVII. Da piccoli e remoti pr incipit
gli animi divengono facilmente
inumani.
Lascia, mia Silvia ingenua,
Lascia cotanto orrore
A Taltre belle slupitle
E di mente e di core.
Ahi, da lontana origine,
Che occultamente nuoce,
Anche la molle giovine
Può divenir feroce.
Sai de le donne esimie
Onde sì chiara ottenne
Gloria Tanlico Tevere,
Silvia, sii tu ch(» avvenne?
Poi che la spola, e ii frigio
Ago, e gli studi i cari
Mal si rfcaro a tedio,
£ i pudibondi lari,
E con baldanza improvìda.
Contro a gli esempii primi,
Ad ammirar convennero
1 saltatori e i mimi;
PriartoUeraron facili
1 nomi di Tereo,'
E de la maga colchica,
E del nefario Atreo;
Ambito poi spettacolo
A i loro immoti cigli
Far ne le orrende favole
I trucidati figli.
Onde perversa Tindole,
£ fatto il cor più fiero,
Del finto duo! già sazio,
Corse sfrenato al vero.
E là dove di Libia
Le belve, in guerra oscfena,
Empiean d*arli e di fremilo
E di sangue l'arena.
Potè a Talte patrizie,
Come a la plebe oscura,
Giocoso dar solletico
La soffrente natura.
Che più? baccanti, e cupide
Di più nefando aspetto,
Sol da l'umau pericolo
Acuto ebber diletto:
E da i gradi e da i circoli,
Co*moli e con le voci
Di già maschili, app'ausero
A i duellanti atroci;
Creando a se delizia
E de le membra sparfe,
E de gli estremi antliti,
E del morir con arte.
Copri, mia Silvia ingenua^
Copri le luci, ed odi
Come tutti passarono
Licenziose i modi.
Il gladiator, terribile
Nel guardo e nel sembiante,
Spesso fra i chiusi talami
Fu ricercalo amante.
Così, poi che da gli animi
Ogni pudor discìolse,
Vigor da la libidine
La crudeltà raccolse;
Indi a i veleni taciti
Si preparò la mano,
Indi le ifladri ardirono
Di concepire invano.
Tal da Une principio
In fatali rovine
Cadde Tonor, la gloria
De le donne latine.
Parinif odeaSiUié*
ClVllL lodi del sonno .
Gi4 molte cose e molte sopra '1 sonno
Furono dette in prosa e In poesia,
Che ne gli autori leggere si ponno,
E se ne dicon molte tuttavia;
Che sia cosa cattiva alcuni vonno.
Cosa buona altri vogliono che sia;
Altri ne dicon bene ed altri male,
A misura del loro naturale.
Del sonno d'ordinario suol dir bene
Chi a dormir molto sentesi inclinato;
E da color che dormon poco, viene
Il sonno per lo più vituperato:
Siccome appunto de le donne avviene,
Son lodate da chi n'è innamorato;
E color che non san che cosa farne.
Le sprezzano, e son soliti a sparlarne.
Altri il sonno chiamò .sommo'dilrtto
Ristoratore de la stanca vita:
De*graziosi Dei dono perfetto,
De'mali dolce obblio, requie gradita.
De le cure sollievo: ed altri ha detto
ChVgli ha dal mondo ogni virtùsbandita,
Ch'è fratel de la morte: e v'ha chi dice
Ch'è figliuolo de l'Èrebo infelice.
Altri ha detto che l'uom sano m.intiene,
Echp agl'infermi è un gran medicamento:
Altri dice che '1 sangue ne le vene
106 CRESTOiMAZrA POF.TICA
Ingrossa, e il rende al moto tardo e leni i. Non si commefterian da le persone
10 non so tatit** cose, ma so bene Tante ribalderie, tanti peccati
Che quando dormo, libero mi sento Ma non si farian poi tante opre buone,
D'ogni noja e travaglio, e non vorrei Ne ci sarebber tanti letterati,
Che nessuno rompesse i sonni miei. Tanti bei libri d'erudizione,
11 sonno ad ogni cura, ad ogni male, Tanti altri beni non sarieno al mondo:
Se non dà pace, almendàqualche tregua: Sento che dite; ed io cosi rispondo,
Quando su gli occhi nostri spiega Tale, Rispondo che oggidì, signori miei,
Da noi parte ogni duolo e si dilegua: Sono assai rari gli uomini dabbene,
£, come lasciò scritto un ser cotale, Gli uomini dotti; e sono i tristi e i rei
Le altrui disuguaglianze il sonno adegua: £ gl'ignoranti più che nop conriene:
E quando io dormo, sono somigliante E de le donne, io quasi giurerei
A un gran signore,a un principe regnante. Chf si faccia da lor più mal che bene:
Anzi di lor più fortunato io sono. Onde, se si dormisse tutto Tanno,
Che n(m mi turba il sonno un timor vano Sarebbe assai più Tutite che '1 danno.
Ch'altri m'usurpi la mogliere, o *1 trono, N'eccettuo quelle poche, ov ver qu e* po-
li che guerra mi mova il grjin Soldano. chi
I sonni miei non rompe iÌTauco suono Che hanno la mente ad un bel fine inlesa,
Di fiera tromba, o altro rumore strano: Che non passano Tore in tresche e in giochi.
Mi rende sol le notti men tranquille Ma sopra i libri, o inqualche illustre ira-
11 suon talor de le devote squille. [presa:
Che se talvolta qualche immagin tetra Di questi non sen trova in tolti i lochi,
L'uomo dal sonno mal contento desta, Che troppo rara la virtù s'è resa:
Quante altre volte in sonno ei fende l'etra. Questi han da dormir poco al jiarer mio;*
Quante volte si trova a una gran festa? Se fossi tal, dormirei poco anch'io^
Or trova argento ed oro, o ricca pietra; Passeibniy GiceroBe.
Ora si sente una corona in testa: r«nv- a j-^x j* -•--««#.• j»
E molte altre veoture spesso s'hanno. C'^- «<"•<*•*'* <*» «"^*« *""** ^*
Quando si dorme, con soave inganno. persone. /
Io però non mi son mai maritato, Pochi sordi or vi son, ma tanti t tante
Per dormire i miei sonni in santa pace: Fanno a un bisogno orecchi da mercante.
E *1 medico non fo, né l'avvocato, Quanti e quante, poichcliannoriceTnlo
Ne 'l ladro, per dormir finche mi piace: Con promesse e con più di un ginrameuto
E quando per esempio ho ben cenalo, Un favor segnalalo, e hanno ottennio
Mirabilmente il sonno si con face
Con tuo grave disagio il loro intento;
Se hai bisogno da lor di qualche ajuto,
Al corpo mio, che subito si sdraja
Sul letto; e poi lascia bajar chi baja. Tu puoi chiamarli cento volte e cento,
E mi sovvien d'avervi recitala Che la tua voce sparsa va per l'etra ,
Sopra '1 sonno una certa filastrocca. Né de gli orecchi il timpano penetra.
Che quando un poco più fosse durata, O, se vi giunge a stento qualche volta,
Sebbene 11 dirlo forse a me non tocca, Entra per una, esce per l'altra banda:
S'addormentava tutta la brigata: Più d*un di loro estatico t'ascolU,
E mentre io non sapea chiuder la bocca. Che non giunge a capir la tua domanda.
Gli altrfm'accorsi che chiudevan gli occhi, E, se pur la capisce dopo molta
E col capo accennavano a i ginocchi. Fatica, in pace per lo più ti man U:
Forse qualche selvatico dottore, Se chiedi ajuto, egli ti dà consiglio
Chi dorme, mi dirà, non piglia pesce: Con ruvide parole e altero ciglio.
Questo a me, che non faccio '1 pescatore, Quanti che ne la lor bassa fortana
Non imporla mente e non incresce; f'udivan volentieri e faci! mente;
Massime che già disse un altro autore: Giunti in alto, fan poi come la lana.
Fortuna, e dormi: il che a molti or riesce: Che le parole altrui non cura o sente:
E poi chi dorme, il prossimo non secca; La tua vo<e a costor sembra importuna;
E finalmente chi dorme non pecca. E mentre con lui parli umilemente,
E, se fossimo sempre addormentati, Non ti degnan tampoco d'qaa sola
SECOLO DECIMOTTAVO 10l
Benigna occhiata, of^ur d^una parola. Quando V avemmaria voi recitate.*
Ti chiamano indiscreto e seccatore, E talvolta, per non incomodare
Se i tenpigià preteriti ricordi: Il can che russa, voi non vi :;egnate;
Se tu chiedi da lor grazia o favore, E fate cose taU, che mi pare
Non ti conoscon più questi balordi: €he col Petrarca dir voi pur possiate:
Grida pure, se sai, fa pur romore, Questo m' ha fatto meo amare Iddio,
Che, se noi son, costoro fan da sordi: Ch* io non doveva, e me porre in obblio.
£ non v'è, lo Speroni solca dire, PiovonvI amare lagrime dal volto,
Sordo peggior di chi non vuol sentire. Donne , e vi veggio co le guance smorte.
Co gli uomini superbi e co griograli, Le vostre smanie e le querele ascolto ,
Co* cortigiani, i quali del padrone £ del ciel vi dolete e de la morte:
Godon la grazia, e co gl'indebitati, Ah forse uu figlio,o ilgenitor v*ha tolto?
£ co'somari, e simili persone, O forse v'ha rapito il buon consorte?
£ finalmente co gl'innamorati, Io mi vergogno a dire la cagione
Se non ti hi sentir con un bastone, Di questa vostra desolazione ;
Tu puoi gracchiare e stridere a tua posta. Io mi vergogno a dir perche piangete.
Che fanno i sordi e non ti dan risposta. £ siete quasi dal dolore insane ;
PasseroiU, Cicerone. Ma '1 dirò pur: voi, donne, vi dolete
Per la morte d' un vostro amato cane
CLX. Amore verta i cagnolini» £ pure il lume di ragione avete ,
Almeu suppongo, e siete pur cristiane.
Quasi ogni donna oggi vuole il suo cane, £ siete donne di qualche saviezza :
£ Io vuol di Parigi, o di Bologna, Chi crederebbe in voi tal debolezza?
O ài Malta, o d'altre isole lontane; Voi che la morte di più d' un amico,
£ molte u'han tre, o quattro,se bisogna; £ forse forse di più d' un parente
£ taluna di lor che non ha paue. Avete intesa, ed io so quel che dico.
Non ha pan da mangiar, non si vergogna O donne , ad occhi asciutti, o veramente
Di far patir la hme a'figtiuolini. Avete pianto un po' per uso antico,
Per mantener il cane a biscottini Ma breve fu quel pianto ed apparente ,
Quelle poi che non hanno carestia Ur per un cane fate tante smanie,
Delieni di fortuna, un poverello Tanti lamenti ed altre cose stranie.
Potrebber mantenere, e sai mi sia. Voi senza il cane non sapete stare
Comodamente, ed anche due, con quello Un giorno, e i mesi con allegra faccia
Che spendono ne'cani: e, in fede mia, • State senza il marito ; e non mi pare
È cosa da far perdere il cervello Che questa cosa troppo onor vi faccia.
Il veder tanti ignudi e mal pasciuti. Ma tra marito e mogUc io non voVntrare,
£ tanti cani così ben tenuti. Che non e cosa che mi sì confaccia;
Fareste meglio a spendere pe'vostri Ne voglio far l' ufficio del demonio,
Figli,oinqualch'altraco$apiùimportante Mettendo mal nel santo matrimonio.
Quel chespendete, o donne, a'giorni nostri V^oi de l' amato vostro cagnnolino
In bestie ,che in fin d'anno è un bel contante: V'accomodatie ad ogni impertinenza,
Fareste meglio, senza ch'io vel mostri, £ discacciate un povero bambino
A risparmiar, se il ciel vi faccia sante. Senza cagion da la vostra presenza:
Quel, che gettate via senza giudizio, Volete il cane sempre aver vicino,
Ch'un giorno forse vi farà servizio. Co' tìgli non ci avete pazienza:
Se talora voi fate orazione, £ lasciate di lor la cura altrui,
Avete in braccio il vostro cagnolino, Fidandovi, Dio sa, donne, di cui.
11 qual vi rompe la divozione, E mi sovviene appunto d'un bel detto
E la rompe sovente anche al vicino: D' Augusto ad una dama che tenea
Se ascoltate una messa, od un sermone, Adagiato sul grembo un cagnoletto ,
Badar solete al cane ogni tantino, Al qua! vezzi e carezze ella facea:
£ disattente scorgovi a le note, Le chiese Augusto , se alcun pargoletlu
Arrossisco per voi, del sacerdote. O alcuna figlia in casa non avea;
Non v'osate né meno inginocchiare. E, ad una tal domanda inaspettata.
t08 CRESTOMAZIA roriicA
Quella donna restò morlificala. Donne, cliè amore in voi troppo potante
Ben s' accorse costei clic con modestia Certi occhiali vi mette amor sul naso,
Riprender la voleva rpiel regnante, Con cui quel che non è vi fa vedere;
Porcile più cura avrà d' una vii bestia K quel ch'è veramente, non e* è caso
E pili diletto che d' un proprio infante. Che veder voi vogliate, e, se sincere
A le donne io non vo' dar più molestia; Ksser poteste , io sono persuaso
Ma dico ben che vi son tante e tante Che direste che amor vi fa parere
Femmine in queslo secolo corrotto, Verdi, dirò rosi, le cose rosse,
Cui potria farsi un slmile rimbrotto. Grandi le lievi, e piccole le grosse.
Le quali son talvolta disumine Un che racconta mille insulse fole,
Col loro sangue, o almen sono indolenti, A voi pare un uom lepido e vivace:
K per un cane, eh' e poi sempre un cane, Uno che non sa ilir quattro parole ,
S*anpiisliano e si dan mille tormenti : Da voi si chiama un uomVhe pensaetart:
Si cavano per lui di bócca il pane, Uom cortese da voi chramar si suole
K caveriansi, sto per dire, i denti: Un vile adul.itor, perchè vi piace:
Lo voglion seco fin nel letto, e spesso Uno che lussureggiia a tutto pasto,
Man^ian col cane ad un piattello stesso. Amor vcl fa parere un uomo casto.
Passerotti, Cicerone. Quanti perdigiornate e quanti sciocchi
Pajon più dotti a voi del Dottrinale:
CLXI. Sopra i qiudizii che si fanno '^ questo avvien perchè per que' capocchi
d^i di felli altrui. È guasta in voi la virtù visuale:
Quella benda levatevi da gli occhi
Scnia vìrii non nasce alcun mortale. Che avete per quel tale o per la tale,
Kd ottimo e colui che gli ha leggieri: Quegli occhiali levatevi e quet panno,
Così disser già Orazio e Giovenale, E allor conoscerete il vostro inganno.
E i detti loro sono più che veri; E se alcune df voi giammai fur cotte
E mi contenterei, per manco male\ Per mi che ad esse- andava molto a verso.
D'averli lievi anch' io ben volentieri: Se con lui poscia venni ro a le rotte.
Ma gli ho pesanti e grossi, e, quel eh' è Sarà paruto lor coei diverso,
[ peggio, Come diverso è il giorno da la notte;
Benché grossi e pesanti, io non li veggio. Ed è vero verissimo quel verso
Il die non solamente a me succede, Che dice che non v' è giudizio vero,
Ma succede fors' anche a tutti vui ; Giudizio sano, ove Amor tien l* impero.
Che Giove due valigie a l'uomo diede: E siccome d'amor disordinato.
Quella eh' è piena de' difetti sui Amano molte madri i pargoletti,
Gli sta dietro le spalle, e non la vede; Quindi è che non ponno essere in istatb
Ma vede ben quella de'vizii altrui. Di giudicar de' varii lor difetti:
Perchè questa gli pende innanzi al petto^ E tal figlio lor par ben allevato,
E in lei vede de gli altri ogni difetto. E par maraviglìoso in fatti e in delti,
Quindi vien che ci son tanti censori, Ripieno di virtù, che d' ordinario
Tanti superbi e tinti farisei. E pien di quel ch'è ala virtù contrario.
Io del prossinrK) mio vedo gli errori. Passeroniy Cic«roDe.
E vedon gli altri i mancamenti miei:
Vede ri padrone que* de' servitori, CLXII. Sopra la forza e f V inganni
I servidor que' del padrone , e quei che alcuni uaano alte figliuole (ir-
Del marito la moglie, ed il marito ca la elezione dello stato.
Que' de la moglie, e così in infinito.
Un'altra cosa inabili ci rende, Elvia nel tempo di sua gioventute
Siccome d'aver letto mi sovviere, Poleva avere almeno cinque o sei
A vedere non sol le nostre mende, (Concorrenti; ma fu per sua* salute
Maqnelleancor di quei cui vogliambenc, Nemica capital de' cicisbei:
Perche la vista amor co le sue bende Pur, visto Marco pieno di virtute ,
Mirabilmente ad ingombrar ci viene : Ella di lui s'accese, egli di lei:
£ rio succede in voi più facilmente, Lo scelse per marito, ed i parenti
i
SECOLO DrClMOiTAVO 400
De la sua scelta fiiroiio contenti, Che starà meg'iocheuna prìijcipes»^,
Pensale uu (lOCo, padri di famiglia, Che non avrà i fastidii, uè le duglie,
Se coVi s* usa ancora al tempo nostro: Ne i disagi di chi diventa moglie.
lo sento dir che, se avete una figlia, Lp. mettono in orrore il matrimon io:
Volete maritarla a modo vostro; Dicono, screditando il viril sesso ,
E non guardate poi se a lei somiglia Che son tutti d' un pel, tutti d*uu conio
Lo sposo, o s'egli e un asino od un mostro; I mariti ed i giovani d'adesso:
Se uguali sien tra lor, se l'uno vada Le dicono che il mondo ed il demonio,
De l'altro a sangue, a ciò no» vi si bada. II che per altro oggi succede spesso.
Sento dir che il marito a lei scegliete, '^ «"•'^ marito e moglic/Pcaccia le corna,
Non co le sue, ma co le vostre mire : E la pace e il piacer da lor distorna.
Che il vostro genio consultar solele: Pjssoroni, Cicerooe.
^e a voi lo sposo aggrada, io sento dire
Che il nodo ir tatlo; e pur voi non avete CLXllI. Sopra i mnsici.
Ne da vegliar con lui, né da dormire;
E non avete mica ad ess^r dui L'udir cantare ascoso fra le fronde
In una car^e, o gcnitor, con lui. D'ombrosa pianta l'usignuol selvaggio,
Sento dir che, se trovasi uno sposo E la calandra udir, che gli risponde
Che si contenti d' una scarsa dote. Per le rime nel suo dolce linguaggio,
Allor si stringe il laccio doloroso, Ci fa obbliar le cure alte e profonde,
Che altri che morte sciogliere non puotie: E a l'allegrezza ci fa far p issaggio.
Al più cercate che sia facoltoso, Meglio che i nostri mu>ici non fann o,
Cercate quanto a Tanno egli rbcuote; E ci sgombra dal cor qualunque affa nno.
Quasi bastasse a rendere contento Non dico che la musica non sia
D' una ragaz^ il cuor l' oro e 1* argento. Un rimedio , un antidoto possente,
E voi sapete ben che ciò non basta. Per discacciare la malinconia,
E la mettete in ungran brutto imbroglio: Massime quando è un musico eccellente :
IVIai se acconsente, e peggio se contrasta. Ma de gli uccelli il canfo e l' armonia
Che vien sempre ad urtare in uno scoglio: Altrui solleva forse più la mente ;
E talor si risolve a viver casta, E di loro messer Francesco ha detto.
Per disposizione e per cordoglio: Ch'alzan da terra al ciel nostro intelletto.
Si chiude in una cella, bendic ne abbia Vero è che, udendo degli uccelli ilcan-
Poca voglia , ed uccel Aon sia da gabbia. N<m s'intende una sillaba, un accento, [tu,
E più d' un padre ancor con fìnto zelo Ma tu, lettor , se il ciel ti faccia santo ,
In questa gabbia , anzi prigione oscura Quando a un musico stia ben bene attento,
( Quando vi penso , al cuor mi corre un Credo, ne intenderai giusto altrettanto;
Col pretesto di renderla sicura Cgclo) lo d'ordinario un certo romor sento,
In questa valle, e di stradarla al cielo, Ma non giungo a capire una parola.
L'incauta figlia di cacciar procura; Per quanto egli apra un musico la gola.
HI quando ella è ingabbiata, non le giova Gli uccelli almeno non si fan pregare,
Il dir: mi pentole molte il san per prova. Come fanno oggidì molti cantanti,
Meglio quasi saria tirarle il collo , Che, prima che s* inducano a cantare,
Dio mei pardon!, come fa il villano. Si fanno strapazzar da' circostanti:
O la massara spesso con un pollo. Ma, se tu mostri avere altro che Care,
Che u^ar con essa un atto sì inumano: O fingi non curar de' loro canti,
£ pure da taluno, ed io ben sollo, Allora sì che, come dice Orazio,
li. da taluna per rispetto umano, T: rendono cantando stucco e sazio.
Se non si sforza, almeno si consiglia Basta che tiri loro una sassata ,
Sovente a farsi monaca una figlia. Se t'annojan gli augei, che l'armonia
Comincian da la sua più verde etade E la musica è bella e terminata.
Ad invaghirla, con qualche promessa, Che tacciono in queb punto, e vanno via;
Delchiostro, benché il chiostro non le ag- Il che non si può far da la brigata
Le dicon che sarà madre badessa; [grade: Co' musici: sebbene a l' età mia
Che soa meo dritte al elei tutte altrc:>Irade; Multi di lor ii tiran dietro i sasii,
•JIO CRESTOMAZIA POETICA
Quai nuovi Orfei, lontan due mila passi. Un dramma musical ySupcri>aniente
Quando La dato no uccel le prime mosse Ora un* arietta, ora un recitatilo
Al canto suo, seguendo la natura, F<ite cambiare senz* alcun motÌTO.
Canta, senza ristar, quattr* ore grosse, E pretendete che a la voAtra serra
bà anche più, senza caricatura: La noslr'arte, il ch'è contro la Fagìooe;
Un musico or si fa venir la tosse, Ed una bella poesia si snerva
Or di far mille smorfie egli procura ; Da un musico in più d*una occasione;
Per giunta poi vuol esser ben pagalo, E parlate di noi senza riserva, j
E cantano gli uccelli a buon mercato. E avete in «lapo tal prosunzione.
Passa in oltre tra lor questo divario, Che giudicar di Pindo u di P^umaso
Che gli uccelli del becco anche gentile Voi volete, benché non siate in raso.
Di vitto si contentano ordinario. Quando ve la prendete co' poeti,
E loro basta un cibo scarso e vile: , Voi fate uno sproposito, e fareste
I musici aMì nostri pel contrario Meglio, credete a me, distarvi cheti.
Tengono a l'altrui mensa un altro stile: £ d'abbassare a* detti lor ie teste:-
Voglion mangiar del meglio che vi sia, Se uomini foste un poco più discreti,
E dopo il pasto han più fame che pria. Quando vedete uno di lor, dovreste».
Io non voglio però che v'offendiate, Se aveste un'oncia e mezzo di cervello,
Virtuosi cantori e caiitatrici , Inginocchiarvi, e fargli di cappello.
Anzi voglio, se voi vi contentate. Perchè, se ciechi afiEatto voi non siete,
Che fra noi siamo sempre buoni amici ; Katuralmente dovreste vedere
Che cantiamo anche noi , se voi cantate, Quàì obbligo a' poeti oggidì avete,
Ma cantiam co le debite appendici; Che vi tengono in credito il mestiere:
E l'arte che poetica s'appella. Senza loro cantar voi non potete
È madre de la vostra, anzi sorella. Altro che '1 Die» trae, o 'i Miier^ni
Sicché quasi tra noi siamo parenti. Felici voi, che coli' altrui sudore
Quantunque in questi tempi sciagurati Sapete farvi in questo mondo onore.
ISou ci ahbiate né men per conoscenti, Passerotii, Cicfr<we.
Perché siete di noi più fortuuati:
Ma questo è colpa de' signor potenti, CLXIV. Sopra t comentatori,
£ colpa de' moderni mecenati.
Che, per tutte appagar le vostre brame, Color che fan comeati ,
I poeti morir lascian di fame. Dove la loro mente non arriva,
Capisco anch'io che ad un che mi diletta La interpre'tazion tiran co' denti:
E che consola la mia mente mesta, E non v'è autor, per chiaro ch'egli scriva,
Non dee qualche mercede esser disdetta; Che in mano di costoro non diventi
Ma poscia s'intende acque e non tempesta: Pieu di misteri e pien d'allegoria^
£ tanta roba dietro a voi si getta Che il poveruom non parpiù quel di pria.
In quest'età, che maraviglia desta: Però disse il Petrarca in flebil suono,
j<^, se la cosa non prende altra piega, Poiché si vide un gran comento ordire:
1 letterali puon serrar bottega. Spero trovar pietà, non che perdono.
Pur in questo di voi non mi lamento, Che or son rimaso in tenebre e in martire:
Perché la colpa non e tutta vostra: Quand'era in parte altr'uom da quel ch'i*
Se vi vuol caricar d' oro e d* argento, [sooo»
Se con voi solo liberal si mostra A dame e cavalier piacqne il mio dire ;
Chi può spendere, io non me ne risento, Or de'comentatori assai mi doglio» fglio.
Perché porta così quest'età nostra. Che spesso mi fan dir quel ch'io non vo-
Ne la qual sempre hanno i miglior hoc- E m'han lasciato in tenebroso orrore,
Adulatori, musici e buffoni. [ coni Che appena riconosco ornai me stesso;
E, se m'avessi a lamentar , più tosto E udendo ragionar del mio valore.
Io mi lamenterei perché sovente Meco di me mi maraviglio spesso ;
Nel recitar, con viso franco e tosto Che dcggio far, che mi consigli, Amore?
Voi pi storpiate i versi malamente; Come m'avete in basso stato messo !
E ad un poeta, poich' egli ha composto Tornatemi a. l'antico stato mio,
f ECO! O LFXn:01 TA vo 111
àitmi chi puòf che m'intend^io . Se avessero a difendere e salvare
disse il Petrarca; ed io Io scuso Tutti i termini lor contraddittori ;
in rollerà, e certo non fu poco, Avrebbero i meschini un bei che fare:
M comentator non ruppe il muso, Questa è fatica de gli espositori,
lan fatto parere un uom dappoco. Che ne* comenti loro han da mostrare,
un modo sì intralciato e astruso Per quanto e'sia palpabile e palese,
nelcomentar, che in più d*un loco, €he*I loro autoro sbaglio mai- non prrse;
dir meglio, in cento lochi e cento Hanno da sostener, quando si tratta
iogno essi stessi di comento; D' uno scrittor cui facciano il comento,
no costoro un don particolare. Contro color che vogliono la gatta,
uni dirsi, di saltare il fosso: Che quel buon uom non fé mai manramen-
'oscurità qualch* ombra appare, Hanno da sostenere a spada tratta [ to:
fermano punto e bevon grosso, Contro chiunque è dMtro sentimento,
intorbidar le acque più chiare; Che quell'autore èil quinto evangelista,
ine ira lor si danno addosso, £ che, se pur v*è errore, è del copista.
mo attaccar briga, sovente Anzi han da strapazzar quelle persone,
ricopia V altro fedelmente. ^ Le quali sono di parer diverso;
adergranchi è in lor cosa ordinaria; E hanno da tirar giù senza ragione
adono de' grossi, e fanno spaccio Colpi fieri per dritto, e per traverso;
ì dottrina poco necessaria ; K con cavilli ed ostinazione,
di ciò di cui non sanno straccio. Se si trattasse bene anche d'un verso,
più fanno castelli in aria, Hanno da sostenere il loro autore;
1 bei passi di Giovan Boccaccio, Peggio che se v' andasse il proprio onore,
te, delPetrarca,a quel che osservo, Passeroui, Cicerone .
[>erder coslor la grazia e 1 nervo.
)lti illustri e classici scrittori CLXVl. Sopra la moltitudine dei
lilio tenebroso adesso involve , venificatori.
lasciati in preda da' lettori
!, verbi grazia, ed a la polve. Oggi non si addottora ale un, che prima
j>a solo de' comentaibri» La sua dottrina in versi non si cauti :
dottrina spesso si risolve Senza esser messo da più d'uno in rima
: a chi li legge una tal noja, Oggi non si marita un par d'amanti;
anda il testo ed il comento alboja. btoiA sonetti sotto questo clima
ton costoro in vista tutti i detti l^on fassi officio a le anime purganti; .
or aulore ha tolti da' più degni E monaca non fassi una ragazza,
ri, e salloil ciel se gli ha mai letti. Se in versi da più d'un non si strapazza,
incontrano spesso i begli ingegni: Chi vergine, chi martire T appella;
Dentato autor tutti i difetti Chi dice che non sa quel che si taccia;
IO in vista, e scoprono i disegni; Chi dice ch'essa ha spento )a facella
'egli disse a mezza borea appena, A Cupido, che torvo la minaccia:
voglioD dira bocca piena. Altri, quantunque non sia punto bella,
cono color qualche menzogna , Lodano in versi la sua brutta faccia:
- orpello vendono per oro: Chiaman nere le chiome, che son rosse,
n cercare quel che non bisogna; E ne sballanpur anche de le grosse,
rsi scrittori i nomi loro Vuol vrrsi, quando vesta irsute lane
10 poi con biasmo e con vergogna Una fanciulla , e quando si professa
ati per grazia di costoro , E fa sonare a doppio le campane ;
jpo curiosi, or troppo arditi, E vuol versi quand'è madre badessa :
idice de* libri proibiti. Vuol versi quando muore un gatto, o un
Passórotu, Cicerone, ^ [cane:
Vuol versi un prete quando dice messa :
V. Sopra lo stesso argomento. Voglion versi da noi le cantalrici ,
I consanguinei, gli esteti, gli amici.
:tarebbcro freschi gli scriltori O, per dir meglio, sono cosi stglJi
112 CRESTOMAZIA lOETICA
Oggi i poeti e tanto poveretti Ma chi df* altro cavai non si proveJc ,
( rsoa dico tulli, ma ve ne son molti }, Faccia pur conto d'andar sempre a piede.
Che sopra magri, sterili soggetti , Voi su questo deslrier v' aliate a volo,
Compongon mille e mille versi sciolti, O, a meglio dir , d'alzarvi voi sognate;
Fan canzoni, capitoli e sonetti : E a un batter d'occhio l'uno e l'altro polo,
Flutto quel che a' nostri dì succede, Senza patir vertigini, varcate;
Lodato in versi subilo si vede. E or mille auree venture a uu fiato salo ,
Se nasce un iiglioaqualche gran signore, Or mille mali ci profetizzate^
Non v' è di lodi al mondo carestia : Ma crede a' falsi astrologhi e profeti ,
Tutto Parnaso mctiesi a rumore Chi crede a' valicinii de' poeti.
Per uno il qual non sassi ancor chi sia : Povero papa , egli starebbe fresco ,
Si profetizza che sarà dottore, Se'l loro profetar non fosse vano :
Che saprà varie lingue, e in poesia Non fassi un cardinale , o sia tedesco ,
Sarà unuuo\o Pelr. rva,unnuovo Dante, O francese, o spagnuolo, o italiano.
Chi poi per suadis^raziaè un ignorante. O sia prete, o de l'ordine fratesco.
Se prende moglie un ricco cavaliere, Che non abbia a sedere in Vaticino-
UnOrlando,uu Achille, un nuovo A jace Almen più d'un poeta se la incapa.
Fan nascere i podi ; e aste e bandiere Sebben più vecchio e il cardinal del papa .
Vedono tolte al già tremante Trace ; Passeroni, Cicerooc.
Additan di nepoti immensa schiere ;
L'uusaràchiaroiaguerrae l'altro in pace: CLXVII. Sopra la vanitàdelte cure
E faran gli uni e gli altri in pace e in guerra umane.
Cosechéstar nonpuonnè incielnèinter-
^^^' Se di profondo pojzo alcun vedessi
Nascerà , Italia, Ifalia , il tuosoccorso , Tirar su l'acqua, e per l'imbuto l'acqua
E fioùrauno in te virtù novelle , Versare in vase sforacchiato e fesso;
Gridano i vati , e vendono de l'orso , Non rideresti, o Mei? non gli diresti:
Prima che preso l'abbiano, la pelle; Lascia, o meschino: quanto tu di sopra
E portano , di penne armati H dorso , Versi ostinato, tanto esce d i sotlo?
I nascituri eroi lino a le stelle : Sciocco lavoro! giù nel bujo inferno
E spesso accade poi, come Dio vuole , sia di Danao a le figlia eterna pena.
Che muojono gli sposi senza prole. Ma perchè poi, rivolto a me, pur chiedi
K voi, poeti, avrete ancor coraggio Ch'io m'affatichi; e l'infingarda mente
Di dir che penetrate entro il luturo ; Svegliar procuri dal suo cupo sonno;
Di dir che in voi scende un celeste raggio, E d'Epicuro e Melrodoro gli orli
Chevirischiaraciò che agli altri è oscuro; Si mi rinfacci? lo dopo mille e mille
Che parlate in profetico li ngiiaggio , Perduti stenti, alfin m'adagio e dormo.
EcheunDiorendeilvostrodirsicuro? Chi vede a volo andare ogni speranza,
Affé, se debbo anch'io far da indovino, Disperi, e cerchi in se la sua quiete.
Tante bestialità , tante fandonie Grave doglia sentir; vedea da lunge,
Daraccontarsiavegghiaindìdifesta: O vederli volea, travagli e affanni:
Non son, compagnimiei, leninfeAonie; Fra pensieri e ripari, era la vita
Non è Febo che U suo favor v'appresta : Sempre in burrasca;emai non vedea porto.
In voi produce assai miglior effetto , Le cortine or calai; d'intorno a gli occhi,
tehe r onda d' Aganipp*, il vino pr*tto. Di mezzogiorno, di mia man m'ho fatto
Dovreste essere ornai disingannali, Bujo, tenebre e uollc; e quanto veggip
E non dovreste dir più tante insanie : Venirmi avanti, è appparimenti ed ombre.
Lasciar dovreste omai l' orror de' fati , Or, avvenga che vuol, dormendo dico:
Le vie de' venti e altre parole stranie ; Ecco il sogno novello. Ho detto, e passa.
E*l Pcgasco eavallo , e i cento alati Se l'immaginativa a noi dipinge
Dcstriar , su cui fate colonie smanie : Il fiorilo giardin, l'ombrosa selva,
SrCOLO BFXI MOTTA VO i43
geTole rito lo per l*crha, Medoro, che interine ha di hamhagia,
lensa, miniera, o scena lìeta<( Vivo non vivo, e d* un bel ghigno adornai
idei sogno: e se da monti il nembo La pellicina de le argute labbra,
scoppia la folgore, o cometa Chi seguirebbe in questo secol saggio
e striscia con l'ardente coda; Kusiicitadi di silvestre vita?
rerà la visione acerba. Scese dal cielo a rischiarar gl'ingegni
ta èia mia vita. Ah, ne'primi anni Florida Volatlade, e da l'Olimpo
nnò'l pedagogo. Odimi, o figlio, D' Epicuro ne gli orti i grati bulbi
studia, t* affamna e t'affatica : Piantò di nuovi fortunati fiori,
jra farai. Chiaro intelletto Per lei siam salvi. Abbiansi laude e Home
lanterna è la dottrina, molto D'asta e di lotta i secoli remoti;
lacquista: essoè onoralo! e inbreve Io del far buona pelle, e del riposo.
• brama possiede. Era menzogna : Così detto, sonnecchia. Odi, Medoro^
d\ colpa n'ebbi io? Tetà fu quella Lcndin dappoco: questa tua sì bella
la garrula vecchia, a lato al foco £ discesa dal dolo Voluttade,
?'ate credea le meraviglie, Non la conosci: non è dea che voglia
de le trinciate melarance Molli effemminatczze ed ozio eterno,
er le donzelle. Come più giova cristallipa tazza
joazi, Sermone Fi, al commenda lore Piena à^\ sagro dono di Lieo,
Cosimo Mei. Che brilli e spumi, se il palato in prima
Punse l'arida sete; e vie più grata
III. Contro Vozioelamoìlczza. In gargozzo affamato entra vivanda;
Cosi miglior dietro a^ pensieri e a Poprc
indo leggiam che Pinclite ventrajc Vien Voluttade. A noi l'olimpio Giove
Alridi e del figlio di Pcleo Mandò prima Fatica ; e dietro a lei
vau di buoi terghi arrostiti; L'altra poscia ne vien, ma zoppa e tarda,
tica rozzezza! esclamiam tosto, A terger fronti, a confortare ambasce,
ti bocchini, e stomacuzzi Ne vien , ne dura, se non dove il sodo
Ili cenci e di non nata carta, fg^ Zappator volta la diffidi terra,
chéammiriampoijcheilsenooppon- E mesfi coglie; ove l'immenso mare,
Scamandro burrascoso a' flutti Senza soffio temer di Borea o d'Austro,
ìncabile Achilie , e porlin aste Solca il nocchiero, e mercatante industre
isurate i capitani greci? Con util laccio nazioni annoda;
I consumava ancor muscoli e nervi £ in fin dove ogni stirpe, alta ed umile,
i morbidezze, trano in pregio, L' ingegno adopri e le robuste braccia,
lembroline di zerbini inerti, Pensier comune, universal fatica
tto immenso, muscoloso e saldo Vuole, ed invito, per venir fra noi,
di braccio, e formidabil lombo. Da tutle l'alme ; ed al romor de l'arti
u mariti s' offcrian le nozze Scende la Diva, od il suo carro arresta,
i locuste, ognor cresciute a stento Di popoli ristoro. Essa le ciglia
ine d' imbusti: era b^'l corpo Però sdegnata e dispettosa a{;grolta
ro corpo; ed Imeneo guidava Contro a chi fatto e sol peso di letti
>rti sposi, non balene o stringhe , di sedili, e fra gli altrui lavori
itaoze di vita: e i bene scossi Uso faccia di ciance o di quiete,
jngimenti avean prole robusta; Né solo ha cruccio: nel gastiga. Come?
ino Achilli; ed i trastulli primi Vuoi tu saperlo? Di suo bel sembiante
mani sfasciate eran le folte Veste la Noja. Una donzella è questa,
lironi maestri ispide barbe. Che chimerizza, e immagina diletti,
aii sudando; e l' anime, di petti Né mai li trova: un'invisibil peste,
trici stagionati ed ampli, Che là dov'entra , fa prostender braccia,
) anch'esse onnipossenti e grandi. Sbadigliar bocche; ed a volere a un tempo
bari tempi; in zazzerin risponde Cupidamente e a disvoler sospinge,
imasi pesce uno dei muscoli del braceio. Questa or viefl tcco, c Voluttà ti sembra ;
lEOPARDi, Crestomazia, li. ^
ili CRESTOMxVZrA POETICA
Che in tue brame soffiando, le travolve, i.anlerne che fan lume a* primi pasM
Qual di stale talora in mezzo a l'aja De le vite novelle, e i mastri sono
Vento fa pula circuir e foglie. Scelti a fondar de le città più chiare
0immi: se fai si dilettosa vita. Gli aspettali puntelli e i oaloardi.
Perchè rizzi gli orecchi e mille volte Chiamisi allor di Sofronisco il figlio^
De lo scocco de V ore al servo chiedi , £ provi s* egli può scuoter da tali
Infastidito, e di tardanza incolpi Cresciuti allievi T incrostata muifa.
Or il carro del sole, or de la notte? Quanto n*hai voglia, o Socrate, ti sfiata,
£ perchè spesso : oh voi Leale, esclami, Predica, scrivi, l'onorato esalta
Teste di plebe! se staggirà Cecco De gli studi! sudor: predichi a^ porri.
Citarizzando, o va cantando Bimbo È già il vaso inzuppato, e son le pieghe
In zucca per le vie, cencioso e scalzo? Prese cosi che più giovar non può te
A te stesso nojoso , in te non trovi Del Fcrrarina ó d'Archimede ingegno.
Di che appagai ti- t'accompagnan sempre Gozjsi, sermone XVI.
Torpor, languore; e là dove apparisci ,
Sei tedio, hai tedio: Voluttà ne ride. CLXX. / caitelli in aria.
Gozzi, sermune XII .
' FATOLA.
CLXIX. Cohtro la negligenza Andò la sciocca
dell' educare i figliuoli. Villanella al mercato, e un vase avea
Pìcn di latte sul capo: e fra suo more
De le balie ì capezzoli le vite Noverava il danar. Ne togliea polli.
Stillano ancora, è ver; na in un con esse Indi un porco, e con quel, vitello e vacca;
Indole di lascivie e di mollezze Tutto a memoria: e fra sé dice: oh quanto
Ne* novellini picciolctli infanti. Vedrò lieta balzar fra Paltre torme
Né, divezzali da le poppe, scole 11 mio vitello! e per letizia balza.
Trovano più corrette. Ecco il paterno Cade il vase, si spezza e vrrsa.il latte.
£d il materno amor che gli accarezza; Castelli io aria. £ la fortuna chiusa
Ma sol per passo, che di più non puote : Da nera nube. Parmi averla in mano:
Tronca lor tenerezze un mare, un mondo Fa come seppia,- schizza inchiostro.e fugge.
D'importanti faccende. Colà danza Gozzi, sermooe VI.
Il tanto a lungo desiato Picche^
Commentator con gli atti e con le gambe CLXXI. / visitatori importuni.
D* antiche storie di Romani e Greci.
Qua tavola si mette; e la condisce O Diogene saggio, a cui di casa
Cucinier nuovo, che i più rari punti Servìa la botte, e d*uno in altro borgo
Tutti sa de la gola. Ivi la veglia. Potei * cambiarla e voltolarla sempre!
Di qua la dauza, o l'assemblea gli attende Che facciam, folli! ognidì termi? Ognuno
Del giuoco. Andar si dee; conviensi a forza Sa dove io albergo: e da le prime strida
Squartar le notti in particelle e i giorni» Del gallo, insinu all'imbrunir del giorno,
Senza speranza d'aver posa mai. L'uscio martella* Chi è là? da P allo
£ ben si pare la fatica a' visi Suona: eh, son in; di fuori. £dorla fune,
Di pallor tinti, e a l'ossa onde s'informa Ora i serrami, e i gangheri e le porte.
La grinza, asciutta e scolorita pelle. Per aprir, per serrar, fanno rimbombo.
Fra SI gravi importanze, a gli scommessi Donde faccende cosi gravi, e tanta
Padri e ale madri con le membra infrante, Fretta han le genti? O miseri, s' apprese
Qual più tempo rimane e qual quiete A le case la fiamma? O di soccorso
Per darsi cura de gli amati germi? Altro v*èd'uopo?Honmano petto, e senio
Col caguuolin, col bertuccin, col merlo, Pietà d'umani casi. Uno o due iarbìni
S'accomodano a' servi: lor custodi Son le faccende; le oziose lacche
Sono un tempo le fanti; indi i famigli. Ripiegar su i sedili; e tirar voce
Malcreati, idioti, e spesso brutti Fuor de'polmoni, e non dir nulla; e dire:
D' ogni magagna, e d'ogni vizio infami. Che abbia m di nuovo? iulliofi iBokslo!
Questi ìc prìmt, questi son le prime • Potevi.
SECOLO DKCIMOTTAVO ii5
lor di stagione! A te che sembra? Da rombile immaginn materna,
con 'ar^a mano amico cielo Che diresti, se Pilade», pietoso
era gli arìdi campi? e quando IVmali suoi, per confortarlo allora
i caldo, e tornerà frescura? Gli presentasse o passera o civetta
imi allora ne le spalle, e taccio, Per passar tempo, ed uccellare al bosco?
ro indotto. Oh com*è caro il cibo! Tu rideresti: ed io rìdo, cbe senio
rtunali nostri antichi! allora Quanto ad ognun son le sentenze in bocta
) era comperar beccacce o starne, De Pamicizia. Chi trovò l'amico,
illina oggidì, l.c sporte vote Trovò il tesoro; e, se in bilancia metti
no un occhio: e noi peggior nimico L'oro e l'argento, più l'amico pesa,
bhiam oggi de'nemici denti. Ben è ver; ma noi trovi. Odo parok
e ne dici? lo compero non molto Gravi, ma il cuor è vólo. Commedianti,
molto non posso: e il ricco piatto Diciam la parte; e monimfnti ed arche
tier cambio nel più sano bue. Mostriam belli epitaffi, e nulla è dentro.
Hli? Nulla. Jo ni>n lo credo, amico Goxzì, sermone VlU»
muse: tu détti. Io giuro allora
>n détto; e sbadiglio, e fra me dico: QLXKll. Sopra i damerini del suo
tentò, folle Prometeo, a farne tempo.
di ciance? io mi rallegro quando
su l'aita rupe il padre Giove Pensoso in vista, come soglio, edeniro
1 l'uccel che il fegato ti rod^. Senza pensier, n'andava non jer l'altro
i periti mortali, che ogni cosa Per la via de le merci. A passo a passo,
m co'nomi, hanno si fatta noja Dotto moderno, i'rivblgeva il guardo
nza chiamata, officio e norma Spesso a'iibrai, di qua, di là leggendo
rizia, d'amor, di cortesia: Frontispizii di libri, eorquesto,or quello
te stoltezze. A che, se io dormo, Comprando in fantasia. Come saetta
uti ini svegli? a che, s'io scrivo,- Che fere e passa, sento darmi d'urto
mia stanza il Galateo ti manda. Ne l'omero sinistro, e passar oltre, [chio?
bm'empiailcervel di frasche e vento? Veggo.... ma chi? dirò femmina, o mas-
tuo amico. Anzi tuo amico sei: Dica! chi legge. Un personcino veggio
quando noncuranza, ed ozio grave In su la gamba, in manteltin di SPta
nimati pesa, ed a te incrrsce. Terso come cristallo: il capolino
ai mio albergo, e ricrear te sfesso Non ha torto un capei, che man maestra
i, non Putii mio. Siedi: parliamo. A compasso ed a squadra la divina
va, poetino? Ah gii aspri nembi Pilosa cresta ha con tal arte acconcia,
itemo terren grandine dura Che infiniti capei sembran d'un pezzo,
iversata: furioso vento Sotto al mantello che svolazza, a sorte
tastò le campagne; enfiato il fiume Sitoproungherondel suo vestito. Oh Frine,
!, gli alberi e i buoi seco mi'tragge. Quando mettesti al corpicino rn'O'rno
1 tua risposta. Umani casi. Colori a un tempo sì diversi e vivi?*
orali correnti: or son due lustri Vuoi saper come va? passini industri
} stesso m'avvenne. E mi dipingi E frettolosi, ci-tpo intero, a vite
sato tuo mal con tanta forza, 11 cullo; duro si rivolge, e guata
novermi a pietà d' antichi danni Con la coda de l'occhio, ed una striscia
ttc rovine oggi procuri. Lascia indietro d'odor, com" canestro
do presente mal dentro mi cuoce, Di giardiniero, o profumiera ardente,
amentanza di dolente amico. Cui fanticella in altra stanza apporti:
ìba ascolti: e, se de'fìgli il peso Dissi allora fra me: donde vieii questo
larro, o le febbri, o de' ligigi Coppier di Giove? mille oggi ne veggo,
na rete; hai somiglianti rasi Ma non sì lisci. Ecco il modello: questui
irrar del vicino, e mi conforti È semente di tutti. Aguzza, aguzza,
S liciti, con chiacchiere, con fumo. Minerva, l'occhio mìo. Dietro gli trotto:
Oreste trascorre per la scena, Vo'studiar quai pensieri han quelle teste,
Furie cacciato, ed urla, e fugg* Ed in che giovinezza ogji s'iinr»i«%lù.
^16
CRESTOMAZIA POETICA
Entra in una Lotlrga: in essa miru
JWoFiii di ferro da frenar mascelle
A foioso deslrier; veggo pennaccliì
Di due colori da ingrandir l'onore
De la fronte a Bucefalo, e di staffe
Di rilucente fon o e giallo ottone
Parecchi paja; e fra me dico: vedi
Falso {giudizio ch'io facea di lui!
D'animoso destrier premere il dorso
Forse ei ^ftrrà: ca\alli>reschi arredi
Mette a la lingua, e molle a te lo stende.
Se il chiuso loco e la soverchia gente
Riscalda l'aria, sringiie un nodo al petto,
£ con r omero accenna: accorri tosto,
Levale il mantellino; e gliel rimetti
Se le spalle ti volta, e a' fianchi appoggia
1 gombiti, e le man dirizza al collo.
Se non l'intendi, vedrai tosto un lampo
De l'accese pupille , e un tuono udrai
D' amara lingua e subita tempesta
Ecco egli acquista. Intanto, o bottegajo, Di c^po d'oca, di babbione e tronco.
Dic'ogli, fuor le scatole e le carte
De le spille fiamminghe, e fuori tosto
Forchettine tedesche. Ecco le merci:
Splegansi rarte; egli le mira; elegge,
Fine conoscitor; cava la borsa;
lo noto. Mentre novera i contanti,
Giunge amico novello, che passeggia
Anch'ei come cutrettola, e su l'anca
Si fra me dissi, e fuor ne venni, e lieti
Di lor fortuna ivi lasciai gli amanti.
Gózzi ^ sermoue I.
CLXXIII. J^opra i eattivi poeti.
Sorgi, a l'erta, o Scghezzi; a te discopre
Febo ambo i gioghi. i> gufi, o uccei di
Or destra ed or sinistra il corpo appoggia I^e pendici radete; a voi sì aito [ notte,
Leggiadramente. Oh bella gioja, ei grida. Volar non dassi: eccovi tronche l'ale ;
Conosco i segni di novella fiamma: Egli le spieghi, e su e su s' innalzi.
Forchette e spille! Servitor di dama In qual nido vesti piume si forti
Tu se'novello. Il primo ghigna, e nega Cotanto augello?... Di figura usciamu:
Con un risino, qual chi nega il vero. Scrivasi aperto. Solitario visse ,
Che! ti vergogni? Ha già tre volte corso Non infingardo: piccioletta stanza
La luna il ciel, che ser\itor son fatto Che jiensier non isvia, poco ed eletto
Anch'io di donna. Vuoi vederIo?Etraggc Numero di scrittori, una lucerna
Da la saccoccia un lucido specchietto, Nel bujo de laTiolte, un finestrino
Inverniciato un bossolo, ove chiude Che lo illumina il di, penna ed inchiostro,
Polver di Cipri, un aureo scaiolino Anima ne gli studii, a lui son ale.
Di nei ripiei.o, un pettine pulito O poeti godenti, le gentili
Di bianco avorio, un vasellin di pu)-o Mammelle de le Muse hanno a dispetto
Cristal con acqua, onde arrecar ristoro, Bocca piena di cibo , e che si spicchi
Se mal odore il dilicato naso Allor dal fiasco.- O le pudiche suore
Offende, o se de'ncrvi occulto tremito Seguite , o il vostro ventre : or l'uno, or
Fa la dama svenir. Fra mio cor dico;
Oh beali d'amor servi cambiati
in pettipiere, in casscttine e bolge!
Trotta, sesso più nobile e maschile,
Come asincl (he sul mercato porti
Forbici, cordelline, agucchie e nastri
Di qua, di là su gl'incalliti fianchi,
E del rigido legno a le percosse
Desti l'anche, e le natiche a la voce
Del severo padrone incurvi e affretti.
Non aspettar che la tua dama chìegga
Con domestica voce: a cenni impera.
[ l' altro
Seguir non dà dottrina. A le fatiche
Amica e poesia: di là scn fugge
Dove si dorme, e Dio fassi del corpo.
Vengo mille quaderni : e chi mi spiiga
Lunghe canzoni; con vocina molle
Altri legge sonetti, e posa il fiato
Or su-^' unquanco, or su le man di neve.
Ma che vuol dir , che meùtr' ei legge il
[sonno
M' aggrava gli occhi , e cade il mento al
[petto,
't'u dunque apprendi , interprete novello, E se voglio lodar parlo e sbadiglio ?
A far comrnto a' femminili cenni. Oh ciechi! quel che voi con sonnacchiosa
Spilla vuol? Tragge fuor due dita, iu punta Mente scriveste, in me sonno produce.
L'indicee il vicin grosso, allungali braccio: Così non detta quest'ornato ingegno:
E se neo le abbisogna, a te con l' occhio Veglia scrivendo, ed io veglio s'ei legge^
Si vol^je, e il dito al pollice danpresso Se tu, che scrittor sei, fuggì il lavoro,
SECOLO DECIMOTTAVO -117
K ti basta ìmLraltar di righe i fogli , Diede a giialtrui costumi. I* vidi s^zsso
Perchè presumi di tenermi a bada De la cailuta neve alzarsi al cielo
Con la tua itcgligxnzae con gFimbratti? (Jast<:ila e torri, fanciullesca prova *
Vcg^o la noja in te, m* annojo leco. Che a vederla diletta : un breve corso
N >n uscir dì tua stanca : ivi ti leva Del Sol la strugge, e non ne lascia il se-
Di là dove scrivesti , e^ come chioccia, Breve fu la fatica, e breve dura. [gno.
Kkhiamazza, croccia, e su e giù rileggi. Fondamenta profonde, eletti marmi,
Passeggiando contento, a le muraglie, Dure spranghe, e lavoro immenso e lungo
Con qual voce più vuoi, Topra tua fresca. Fanno eterno edifizio. Or tremi, or sodi
Me lascia in pace; senza le tue carte Chi salir vuole d'Elicona al monte;
Io viver posso: se tu vuoi ch'io ascolti. Poi, salito lassù, detti o riprenda.
Allettami, ammaestrami, e mi vesti Gli altri S' n voce. iV ogni lato ascolti
L'amo di dolce e di gradito cibo. Nomi di fantasia, d' ingegno. Tutti
Ho natura felice; in poco d'ora Proferir sunno buon giudizio e gusto :
Detto quanto la man corre sul foglio. Paroloni che han suono. A l'opra, a i*Opva,
Biasmo la tua natura, che sì spesso Bei parlatori. A noi dà laude il volga;
Mi travagli gli orecchi. In prima, taglia Cerca laude comune. Allor fia d*uopo
Una parte de* versi, lo paziente Cercar laudi volgar, quando da* saggi
Sono a la rena tua, quando congiunta Cercherà laude la comune schiera.
Sarà con l' arte. La feconda vena, Gozzi, sermone V, all'abate Mamanu
'1 toppe -produce: l'arte soia, e magra. Martinelli»
Rompe il coperrhio ogni soperchio. Sciogli
D'ogni freno il destrier; corre pe* campi CLXXV. / buoni giudici di poesia.
A lanci, a salti, e nulla non avanza.
Strinici troppo sua bocca; esso è restio. Se in colto zazzerin Damo vagheggia^
'i idii nel mezzo. Misura occhiale, e vezzosetio morde
Gozii, sermone IV, al signor Jntoti L'orlicciuzzin di sue vermiglie labbra,
Federigo Seghezzi, ^ spesso mov« in compassati inchini
La leggiadria de le affettate lacche ,
CLXXIV. Sopralostesso argomento. Il nobil cor di maestosa donna
Hide di Damo; e vie più rid<> allora,
Se tu allevi il bracco Che di lui vede imitatrice turba
Ne la cucina fra tegami e spiedi. Di giovinotti svolazzarsi intorno.
Quando uscirà la timorosa lepre Ride, ed ha sdegno che ai celeste dono
Fuor di tana o di macchia, esso,inobblio Di pudica beltà iodi si dicno
Posta la prima sua nobil natura. In sospir mozzi e da non saggc iingae,
Lascia la lepre, e per appresa usanza A cui nulla giammai porse l' ingegno.
De la cucina seguirà il leccume. Debbonsi a Frine, a CaUìni«*c, a Flora
Molti a la sacra poesia disposti Si fatti incensi, o a l* infinito storno
Intelletti son nati, e nas<'erann:i ; De le sciocche e volubili civette.
Ma ciò che giova ? La cultura e l'arte Credimi , amico, da sì uobil donna
£ Tarator fanno fecondo il campo Non è diverga la beata figlia
Di dotnestiche biade; e chi noi fende D* Apollo, poesia, de* rari ingegni^
)r larghe solle, poi noi trita e spiana. Rara forza, e de l'anime ornamento.
Vedrà nel seno suo grande abbondanza Tienloti in mente, è sua beltà celeste.
Sol di lappole e ortiche, inutil erba. Non piace a lei che innumera bil turba ,
Ecco in principio alcun sente ne l'alma Viva in atti di fuor, morta di dentro.
Foco di poesia. Sono poeta, Le applauda a caso, e mano a man percuota;
Esclama tosto: mano a* versi; penna, Né si rallegra se le rozze voci,
Penna ed inchiostro. E che perciò? vedesti Avveeze spesso ad innalzar al cielo
Mai, Martiuelii mio , di tanta fretta Perito cucinier, sapor di salse,
Uscire opra compiuta? Enea non venne Volgano a lei quelle infinite lodi
InJtalia sì tosto., e non ,sì tosto Ch'ebber prima dajorquaglia ed acceggia. '
Il fatirico Orazio eterno morso Vanno al vento tai lodi, e nero obblio
118 CRLSTOWAZIA FOtTICA
Sii vi stende gran vele e le ricopre. Qui ten giaci quieto, e non soccorri
Quei pochi cerca lodatori, acquali )l desolato figlio, e non Io vedi
Dier latte arti e dottrine. Un liquor santo Comici si a£9igg<*. e si martira? braccia
Questo è che nutre, nonossa, ubn polpe, Paterne; a me v'aprite e mi accogliete
Ma la possanza del divino ingegno, Alfìn tra voi, rhè tal quiete è a tempo.
Vita di dentro. £i vigoroso e saldo Qual durezza di vita ! Ov'è chi ciancia
Pel suo primo alimento, allo sen vola» Che sì fragile e breve è il tìver nostro?
£ può di poesia comprender quale Poco non dura, se fra tanti mali
Sia l' eterna e durevole bellezza. Ostinalo si serba; e non so come
Né creder già che di schiamazzi e strida Alma possa stanziar, dove la strazi!
Largo a lei sia, ne che sue laudi metta Chiovo^ spina, tanaglia e orribil fiamma.
Iji alte voci ed in romor di palme. Mecenate da Dio dato a Petade
Tacito, cheto e fuor di se rapito, Nostra, che più dirò? perchè narrarti
L' ammira , e seco la sua immagin porta, Che questa penna e l' intelletto mio,
!Nè più Tobblia. Se «io nessun ti disse, Liberi nati, più volar non ponno
Or r odi , onde a gli Dei caro intelletto. Dove gl'invita naturale affetto?
Segui la bene incominciata via: Non è piccolo male ad oncia ad oncia
liapisd l'alme, e non temer che noti Metter l'alma in bilance, ed il cervello
A l'altre etadi i versi tuoi non sieno. Vendere a dramme; e peggìor male è an*
Gozzi, sermone XV* [ COra,
Ch'a minor prezzo l'anima e il cervello
CfiXXVI. Sopra le proprie sventure. Vendansi, che di boe carne o di ciacco.
Oh mio dolore ! oh^mia vergogna eterna!
Semai vedesti in limpid'acqua un pesce Pur, poirh'altro sperar più non mi lice,
Trascorrere, guizzar, girarsi intorno Almen potessi non indegna e alquanto
Velocemente, colto indi a la rete, Men oscura opra far, che tragger carte
Contrastando balzar, e sleso alfine , Dal gallico idioma, o ignote o vili,
Agonizzare e boccheggiar sul lido: A la lingua d' Italia. Ho la testura
Credi, o Viituri, somigliante ad esso Di grand'opra intrapresa. In quanti iati
Fatto è r ingegno mio. Libero un tempo, Scorre eloquenza io dimostrar voIe«,
Vivace, giubilando, aperto mare Volgarizzando ben eletti esempii
Lievemente scorrea : fortuna tutto Di Latini o di Greci. Anzi una parte
Di rete il cinse; dibattendo ei fece Ilo de l'opra condotta. A cui non sono
Lunga battaglia per fuggir servaggio': Palesi i casi miei, par ch'io l'indugi
Non giovò; giace, e a poco a poco manca Oltre il dover; e tu medesmo forse
Vigor di vita, onde si stende, e pere Infingardo mi chiami , e tal mi credi.
Spossato e vinto su l'asciutta arena. Ahi ! si discopra il vero. Io paziente
Misero mei di non ignota stirpe Giobbe, tal nome soiferii mott'anni,
Nacqui, ed'amicie servi era il mio albergo Pure tacendo altrui che in vili carte
Ricovero una volta; io ne' primi anni E in ignote .«scritture io m'aiFatico
Speranza avea di fortunata vita. Con sudt>r cotidiano; e già son pieni
In dolce ozio fra' libri i dì passai I banchi de' librai di mille e mille
£ gli anni più fioriti; allor crcdca Fogli e di carte, ammassamento enorme
Dar cultura a lo spirto , e a tal guidarlo. Di mia mano apprestato a i men g/entili
Che di vergogna al mio nascer non fosse. Popolari intelletti; e perciò tardo
Questa sì bella e sì dolce speranza Sembro a' migliori che lo ver nod sanno.
Sfiorì del tulio. Fra' miei pochi beni Ma che far posso ? Rondine che al nido
Sol uno è quel che a me pace promette £ a' rondinini suoi portar dee cibo»
K ricchezza sicura, lo di te parlo, Non può per l'aria s]»aziare invano
Rigido sasso, in cui scolpito è il nome O dov' essa desia: però che intanto
Infelice de' miei; te sol rimiro Le bocche vote de' figliuoli suoi.
Con fiso sguardo, e desioso piango Dopo molto gridare e ingojar vento ,
Che per me tu non t' apri. Oh padre, oh Sarebber chiuse, e in sepoltura il nida
[ padre !
SECOLO DECIMOTTA VO 1 19
rebbe a* non possenti corpi. Che staura» in aria si sostiene appena ;
I, «emione XIV, a sua eccellenza
Bartolomeo yitiuri.
LXV]]. Sopra lo stesso
argomento.
Misero! quale,
pra guerra è 1* avvilir de l'alma
isi, ed al suo nobil volo
il corso ! Pattuir convenne
vello , ed opera jo farlo
ordi librai ; di giorno in giorno
* parte. Come a filo a filo
locchia vecchierclla Iragge
ino, perrhè Topra a lei
veglie il sabato compensi ;
Tvello a fibra a fibra io spicco
lette sue fra noja e stento
magri non famosi , i quali
) il fiato ne la gola e il nome,
mpo, che il cor mi rode questa
)rda. Ippocrate non vide
•r malattia più crudi effetti,
edioo greco, a gli aforismi
>to ai^giungi; esperienza il detta:
so, occhi affossali , corpo
, secche guance, sonno
ì , leggiero, interno crollo
nervi, negligente obbiio
auto si sa, narrarlo a caso,
di dar noja a cui si parla ;
I statua, tener chini gli occhi,
:rchi di genti ; a chi domanda
ndere a cenni, che a parole;
li altrui costumi , e de la sorte
gnarsi , segni son che langue
le di librai spirto non vile.
Gozzi, sermone XIII.
IH. La madre degli uccellini
ha perduto i figliuoli»
dre che trovar i figli crede,
3n Tesca in borea, a l'arbor fido;
[ intorno, misera, e non vede
e'I vóto e depredato nido:
a tanto mal non sa dar fede ,
i chiama, e ne raccoglie il grido,
:ino, o in più riposta fronda ,
e piange sì, qualcun risponda.
vien da questa a quella parte
a te, come amor la mena.
I tanto errò rn P ali sparte,
Dà un ramo , a l' aura miserabit parie
Fa de la doglia sua, de la sua pena;
E guarda il cielo, e guarda la campagna;
£ non cessano momento che non piagna.
Lorenzi, Coltivazione de' mooli.
CLXXIX. La gelosia.
Cessa: gli Diimì tolgano
A l'odiata vista.
]| crederai ? per lagrime
Forza il mio sdegno acquista .
Tuo mi chiedesti: arrisero
Gli avversi Fati ; il sono:
Godi, se puoi, rallegrati'
Di sì funesto dono.
Lasso ! così celava si
Sotto al tessalic' auro
11 sangue infausto ad Ercole
Del traditor centauro.
Ardo; un gelato incendio
Pel vinto cor s'aggira.
Se non è questa, ( ahi misero! )
Qual de Perinni è Tira?
O gli occhi tuoi rivolgere
Soavi in giro io veda:
Tremo: tu sei colpevole
Di ricercata preda.
O i neri crin soggiacciane
A leggi estranie e nove.
Ohimè! di Leda piacquero
I neri crini a Giove.
Tremo se ignote grazie
Ostenta il petto e *1 viso;
A impallidir condannami
Una parola, un riso.
, Parli n segrete, accrescono
Le ancelle i miei timori.*
Guai &e il tuo seno adomasi
Di sconi^sciuti fiori.
M*è grave il dì; le tenebre
, Sul mio dolor non ponno ;
E indamo gli ocrhi invocano
II fuggitivo sonno;
Egli non ode : o il seguita
D' ombre drappel nefando,
E i sogni a me presentano •
Quel eh' io temea vegliando.
E nn freddo orror la torbida
Quiete infetta e scioglie.
Lascio l^ piume, e rapido
Accorro a le tue soglie.
Taccion le porte immobili;
li
CliKSTOMAZIA POETICA
Begna profon.la pace:
Ma nel comun silenzio
11 mio terror non tare.
£ scintillar Imifero
Sul pai! ideasse io vedo;
£ I* alba aifretto, e a i talami^
Gridando, il Sol precedo.
Invan smarrita e attonita
Rivolgi al cielo i lumi,
£ chiami in testimonio
Del' innocenza, i numi.
In te di colpa indizio
La mia ragion non trova :
Il veggio» il sento: e crederti
Spergiura e rea mi giova.
D' ogni più nera istoria
Gli esempii in te pavenLp.
Inorridisci: io Biblide,
lo Pelopea rammento.
4Ji m' abbandona, e lasciami
Preda a i rimorsi miei :
No , tu con me dividere
Lo strazio mio non dèi ^ ,
Ahi, questo dì medesimo
Io barbaro, io profano,
In te Yolea commettere
La scellerata mano.
Degni de V opra il Tartaro ^
Supplizii aver non puote:
Non l' urne infami bastano.
Non d' l^sion le ruoie.
Né fuggi ? e in me s* afEssano
Pietosi i lauguid' occhi;
£ piangi, e supplichevole
Abbracci i miei ginocchi ?
Cessa: del rio spettacolo
Tutto l'orrpr comprendo.
Cessa. Tu segui? Ah, Furie,
L* abisso aprite: io scendo.
Savioti.
CLXXX. All' Amala inferma.
Odi; i mornenti volano;
Odi una volta, e cedi:
Ohimè, gli Dii ti perdono
Se in Ksculapio credi.
£i r erbe indarno e i farmachi
In tuo favor prepara,
Tue labbra indarno chieggono
La pia corteccia amara.
Lasso ! una Furia, immobile
Veglia a le porte, e grida;
J De,vi.
L* altre d'infami aconiti
Coiman la tazza infida:
Morte r offerta vittima
Impaziente affretta.
Trema: il Ino capo, o misera,
È sacro a la vendetta.
Va ; con promesse e lagrime
Stanca la tua Diana;
Offendi il casto imperio
Con servitù profana.
Altro giurasti: intesero.
Per danno tuo, gli Dei;
Lo sa Diana: il Tartaro
T'avrà, se mia non sei.
£ssa al figli uol di Venere
Turbar non osa il regno:
Anzi il difende e il libera.
Il serve , e n' è sostegno.
Mentre Cidippe affidasi
A le devote soglie.
Si vede a pie discendere
L' aurato pomo, e *i coglie.
O Dea, sarò d* AeontiOy
Ardito amor vi scrisse :
Vide r incauta vergine
Sarò d* Acanzio f e il disse.
Del giuramento incognito
Indarno il cor si dolse :
Giurato i labbri aveano;
Diana il voto accolse.
L' accolse : invano i talaiqi
Altro imeneo chiedea ;
Febbre crudel vieta vali,
£ il petto infido ardea.
Ah, se ad uguale ingiuria
Dar piena ugual li j^cc,
Compi l'antico esempio.
Gran Diva , e accorda pace.
Pace: d'Amor la gloria
Serba: costei si pente.
Partite, o febbri indomite.
Dal bel corpo languente.
£ tu, che incerta e tacita
Lasci a* sospiri il corso,
O da terror derivino,
O pur dal tuo rimorso :
Deh, con più fido augurio,
L' ignuda destra porgi ;
Rompi il crudel silenzio;
£ morte inganna, e sorgi.
Qual speri onor se a V Èrebo
Discendi ombra spergiura?
Quai voti allor ti salvano
Ùa Le roventi mura?
SECOLO Di:
a4'uaa vita inulile
»o ilCH mi privi;
a gli Dii ti rendano
; promesse, e vivi.
Savìoli.
LXXXI. Al Sonno.
1 sotto al carro i TÌgili
'.ri atri aifaiica
!gnator silenzio
tebrosa amica;
1 cielo e terra e oceano «
è tranquillo e tace;
3n però la tenera
lilla nostra ha pace,
a, d^Amor, che T agita ,
il lato raanco,
a le piume incomode
ov inetto fianco.
;ià del fosco Mennone
insolata madre
tre volte a togliere
bre agghiacciale ed adre,
e pupille cernie
trovò tre vohe
be, e per veglia languide,
veglia ancor non tolte,
i, a ì bruni luoghi ov*a biti,
ece, Sonno, arriva ;
lesti mai , posandoti
occhi a qualche Diva ;
ni: il leteo papavero
m le tempie ingombre »
rand* ali fendano
;re e rigid'ombre.
ichiusi usci non vietino
ile non t* inno! tri;
servato e placido
i a le fide coltri.
cure aspre e sollecite
3verai d* intorno,
I di non rimoversi
neppur col giorno.
inaspettato, e carico
io, liquor le asperga ;
toccando, dissipi
iturna verga,
u la sponda assi desi
, si corchi , e taccia ;
ove il volo movere
è tu stai; gli piaccia.
ì manca ov' ei rivolgasi
A^tancabilVally
CIMOTTAVO 121
Se al regno suo soggiacciono
Gli Dii, non che i mortali.
che più? se al chiesto ufficio
Altro s*oppon, si toglia;
E a te fedel Silenzio
Guardi la muta soglia.
Col dito al labbro , ei rigido
li passo a ciascun vieti :
Solo V entrar sia libero
A miti sogni e lieti.
l'igli di le, vestendosi .
Di cento ombre leggiadre,
Escan da l' uscio eburneo
Accompagnando il padre ;
Escano, e me presentino
A la fanciulla mia :
Oggetto indarno cercano
' Che caro a lei più sia.
Seco fra* sogni elP abbiami ,
Poich' altro a lei non lice ;
E i sogni almen le fingano
Il nostro amor felice.
Ma deh però, che fervidi
'Non sian ne 1' opra assai;
Deh , che la gioja insolita
Non la svegliasse mai.
Sovente ancor Penelope
Sognò del Greco amato ,
E nel sognar destandosi ,
Credette averlo a lato:
Poi, fra le piume vedove
Stesa l'incerta mano.
De Terror, lassa, avvidesi,
E pianse a lungo invano.
Savioli,
CLXXXII. Amore e Psiche.
E tu, cura soave
Di tacite donzelle ,
Cui mentre Ebe* sorride il giovin seno
Penetri ardilo; i nostri carmi avrai:
Né la candida tua Psiche, e le belle
Forme, e la notte, e gli amorosi guai ,
Inonorati andranno.
Or ella è tcco : e de 1* antico affanno,
Che ricompensa uu più propizio lato,
Dolce memoria suona
Per l\ ili mpo beato.
Vergine avventurata, in mortai velo,
Di belleue immortali adorna apparve;
Stupì vedendo, e l'adorò, la terr^.
Venere al terzo cielo
'LaGiuveotù. • . . ,.
122 CRESTOMAZIA POETICA
Tornò da* freddi suoi vedovi altari, E medicava la pietosa mano
Te consigliando a la giurata guerra. L* offese de la tua dolce nimica :
Ma la vendetta in vano Mentre la sconsolata
Volgean* gli occhi di Psiche : Te richiamava, lagrimando^ invano.
Ardesti ; e a te P antiche Parlò a lungo il dolore.
Arme cadeau di mano. Poscia il furor non tacque;
Vìttima incerta, entro a funereo letto E invocò morte, e si lanciò nel fiume:
Tradotta al monte, abbandonata e pianta, Cara un tempo ad Amore
Giù per valli profonde in ricco tetto , La rispeltaron l'acque.
Peso a un seffiro amico, ella scendea. Lei. che raminga in traccia
Là, di sé in forse, i vóti dì vivea , Del perduto signor scorrea la terra^
Fra tema e speme, a sconosciuto amante: Incoraggi soave
£ tu le usate prove, LaDea che al crìn le bionde spicheallacdaf
Terribil nume, esercitar solevi A lei stende le braccia,
Sovra I^ettuno e Giove ; Racconsolando, e la compianse Giano:
Poi, col favor de l' ombre , Solo Venere altera
Ti raccQgliea ne la segreta reggia Non calmò 1* ire gravi ; e sa l' afflitta
Talamo aurato d' immortai lavoro: Compier giurò la sua vendetta intera.
Ivi a le tue fatiche Chi dir potria Poscara
Offria dolce ristoro Carcere e i duri affici ?
Il molle sen di Psiche. Chi 1* auree lane e la difficil onda?
Irrequieta Diva Amor, dov' eri ? a te che tutto sai ,
Che ne legioje altrui t'angi e rattristi, Come furono ignoti
Ta da l'inferna riva De la tua Psiche i guai?
L*aure a infestar del lieto albergo uscisti : Elia, come imponea la sua tiranna^
La giovinetta intanto Osò d' entrar per la tenaria porta.
Gli avidi orecchi a'iue menzogne apriva; E por vivendo il piede
Kè vide più ne Pamator celato, Ne* tristi regni de la gente mortat ,
Che spoglie anguine, ed omicida artiglio: A lo splendor de Tauro,
Finché il terror poteo ^ nel cor turbato Lei l'avaro nocchier pronto raccolse ;
Strano eccitar d'atrocità consiglio. E varcò la palude.
E già un placido sonno Latra Cerbero invano:
Gli occhi d' Amor chiudea , Le gole il cibo, e gli occhi il sonno chiude:
Quando a le qnete coltri Ella passa, e il soggiorno
Perversa il pie volgea : Tenta di Pluto, e il fatai dono chiede:
Apparia ne la manca Ricusa i cibi, e al giorno
La lucerna vietata; Da Proserpi na riede.
Era r infida e mal secura destra Deh, qual ti mosse feminil disegno,
D* ingiusto ferro armata. Psiche, ad aprir la chiusa lima fatale?
Primi s'offrirò a i desiosi sguardi, Là de Tira immortale
Sovra 1* estrema sponda, Era il più orribil pegno:
Amor , gli aurei tuoi dardi : Ed ecco un vapor nero
Psiche gli tocca appena, e n* è ferita. Uscia, la cara a te luce togliendo,*
Scorge la chioma bionda, E rendea Palma al mal lasciato impero.
Il volto e Pali; Amor conosce, ed ama; Ma vide Amor da Paltò,
E cade il ferro; e la lucerna incanta Vide, e pietate il prese;
Coli* ardente liquor P omero impiaga. Sentì P antica fiamma ,
Fuggiva il sonno. A lei vergogna e duolo Ed obbliò le offese;
L' alma pungean: tu rapido movevi E a più heata sorte
Per Paure lievi a volo. La conservò da morte.
Te ritenne Citerà. Ivi t'accolse E volgea ratto al sommo Olimpo Pali,
La rosata di Psiche emula antica; E innanzi al re che i maggior Diigovema,
* YolgeaDO io vaDo , cioè mandavano vota Narrò di Psiche e di se stesso ì mali,
d^etìTetto, » Potè. E cfaiedea modo a tanta ira «atenia.
SECOrO DECIMOTTAVO 123
LosÌTa il gran Tonante: e Imene, £, rompendo i capestri , ir da le staile
ne piacque a Citerea placata, Correndo incerti a la campagna. Oh come
) versò su le fraterne pene : Fnggian da i boschi i paurosi augelli
ibrosia celeste £be ministra A cercar tra noi tetto: uh quante schiere
a Psiche porgea: Di topi immondi e di schifosi insetti
evve, e fu Dea. Da i nascondigli uscir; che Tabborrita
Savioli, Luce già più non abborriano. A un tempo
Mirò nel porto un ondeggiar di navi
KXlll. Napoli, e suoi contorni, Tra l'onde in calma; ed alberi ed antenne
veduti la sera dal mare. Strìder , piegar, strapparsi. Allor , la
bocca
li già di lontan fumar le ville; Già rosseggiando da le cime ardenti»
3C0 a poco dileguarsi in giro; Ecco fumo, ecco lampi, ecco scintille,
giorno venir manco gli obbietti Etuoni, e fiamme, e folgori. Oh qaalvaski
pareva or or tutta ingemmarsi Vomitar d* infocati ignei torrenti!
er le due gran braccia inn^ar distese Quai ri?i e fiumi, ridondante piena,
arvata riviera, e i lidi opposti. Di bitume, di zolfo, e di metalli
vedi , ai primo uno spetiacol novo Disciolti, in giù movea tra le volute
icceder più vago , ove si stende Di fumo immense, e i nebulosi globi
i, e siede quasi «entro al cerchio. Di cenere, di calce, e di rotanti
in col cielo a gara in ogni parte Enormi massi; onde coperte ed. arse
e stelle e inordinati fuochi Qua e là campagne, e con gli armenti op-
là, da i tetti, e da le logge, e lungo l presse
ina Vi* ogni colle e d*ogui spiaggia ; Ville e pastor, città, capanne, e genti,
Q mar riverberando, a noi rassembra Ebbero mortela un tempo solo e tombat
avvampar d'incendio la marina. Bettinelli
olo intanto, scintillando, e a Chiaja,
la nova via, scorrono ardenti CLXXXIV, AlV orologio,.
ile, a cento e cento cocchi avanti,
le ignee strisce in sul sentier lascian- O d^ Anglia nata su i* estreme rira
i rappresi e fermentati in alto L do. Macchinetta gentile, onde 1* eterna
1 effluvii, che, rompendo in fiamma, Virtù motrice misurando alterna
on segnando in ciel lucidi solchi, L^ore diurne e de la luce prive;
gravi di pingue atro bitume , Su le tue ruote assiso il Tempo virt,
ambendo il terren; larva notturna. Ed ituoi giri equabili governa»
or grave al peregrino ignaro, Che poi distinti, su la faccia esterna,
più fuggendo, più sei vede a tergo, Volubil freccia in numeri descrive,
che, col fuggir, seco lo tragge. Escon divise intanto, ad una^ad una,
quale, ahimè, fiamma improvvisa L'ore fugaci; e mentre fuor sen vola,
L io miro Col suono accusa il suo partir ciascuna,
lell'erlo apparir giogo fumante? Deh: fra tante che t'escono dal seno,
nella certo, del Vesuvio è quella Macchinetta gentile, un'ora sola,
tremenda, onde qui spesso udimmo Segna un'ora per me felice almeno,
er la gente e ragionare insieme. Sondi,
occhier, dàne i remi; e quinci ratto
im la proda, e rifuggiam ne l'alto. CLXXXV. Alla tg^emoria,
li rammenta ancor quai ne sostenne
'un' antica etade orridi sccmpii: O tu, memoria, che i passati eventi
do da prima i sotterranei chiostri Rapisci al tempo, e da l'obblio difendi;
urlar sordo, d'un muggir profondo E al cupido pensier rinnovi e rendi
dar segni, indi annerarsi tutta Quante un tempo provò giojeo tormenti;
, tremare, il suolo, e gli animali Deh tu ne gli anni miei primi e recenti
anti vedea perdere il molo. Con sollecito voi ritorna e scendi,
manto abbajar, nitrir cavalli, £ quei che incontrerai; trasce({li e prendi»
ìH cuf.stomazia iof.tica
Di più puro piacer porhi momenti. Ma, poi che in lui, quasi in suo trono.
Poi lutti insieme al mio pensier gli a- [ assiso
K di questo ristora estremo ajulo [duna; Un Lei decoro amabilmente altero
L'alma, d*ogni altro ben (alla digiuna. Vide, e la rosea guancia, e rocchio nero,
Onde al misero cor, che il ben perduto Dove, qual lampo in ciel , balena il riso;
Non ha di più goder speranza alcuna, Fcrmossi a contemplarlo; e del ritorno
ttesti il conlorto almen d*avcr goduto. Già dimentico ornai, stupido e muto,
Da quel di sempre gli sì aggira intorno.
D*avcrgli aperto il varco invau si pente
L'anima, e il chiama invan: sorcio, e per-
[ dui»
Nel dolce i ncanto,ei non si scvotcosente.
£ondL
lì OH di'
CLXXXVl. / beni umani.
No il posseder, ma lo sperare alletta
L' uom; che nel senso e ne l'idea d'un be-
[ne
Sempre trova minor qnelh) che olfiene, CLXXXIX.i^ partenza dalia reffffia
Finge sempre maggior quello cli'as|)etla. del Piacere.
Mesto può fare un cor gioja perfetta,
Se è tal, che di maggior tolga la spene : Vagan gli ospiti intanto, e in ogni parte
Se non lusinga l'avvenir, già sviene, Godono esaminar la reggia aprica.
Nato appena, il piacer che ora diletta. ^ Il liaccr mai dal fianco lor non parte,
Per prova il so. T'amai, d'essere amato E mostra, iin ch'ei può, la faccia afliica;
Presi lusinga; e il tuo futuro amore, Ma innoltra sempre; che in quel loco mai
Sperato solo, mi Iacea beato. Non è concesso di fermarsi assai.
M'amasti, il seppi: ah che in quel sol Molti il bramano, è ver; ma noi coBseute
[ momento 11 Tempo inesorabile, che avanza.
S' esaurì la natura ; or langue il core, Lieve ci corre cosi che non si sente;
Fatto incapace di un maggior contento! Né indietro ha mai di ritornare usanza:
Bondi. Spingesi innanzi l'affollata gente,
Che di mal grado va cangiando stassa;
Ei pur la incalza, e di partir fa fretta.
Ne per preghiere o per lamenti aspetta.
Da lui sospinta, al declinar del giorno,
Passa la turba , e di partir s* attrista:
Altri intanto sottentra, e il bel soggiorno,
^LXKXVW, A novella sposa.
Ricca di fregi, dal materno nido,
Che te difese in chiuso asil contenta.
Del mondo approdi a V incantato lido,
Giàdelsuon pieno che i tuoi vanti ostenta. Che vanno i primi abbandonando, acqai-
Fórse n'esulti*, e di tue lodi il grido
L'inesperto tuo ror lusinga e tenta :
Ma, scopo ai voti rei di stuolo infido,
Le ignote insidie e i pregi tuoi paventa.
Tal d'indico tesor ricco naviglio
Giunge aspettato de l'Europa a i mari;
E ne la sua ricchezza ha il suo periglio:
Che de l' Affrica rea da i lidi avari,
Aguzzando vèr lui l'avido ciglio.
Corrono a i remi i predator corsari.
Jìondi;
CLXXXVIIL 11 pensiero.
Corri, ma presto riedi, al caro viso;
tstJ.
Giran quelli, partendo, il guardo intorno,
Ne più il Piacer né la Speranza han vista;
Che sol con loro il Desiderio resta,
E la Memoria sterile e molesta.
S'avvian taciti, soli, e senza scorta;
Che mai chi parte accompagnar noB s'usa:
La scontentezza sul sembiante porta
Ognun dipinta, e il suo destino arcosa. '
Giungono in (ine a la dolente porta.
Che guarda a sera, ed è a l'uscir dischiost;
Dove ognor veglia su marmoreo scanno,
Invan pentito, il tardo Disinganno.
Come uom che di se stesso ha maravi-
C Rlia»
Slupidoha il guardo, el'ariagra^e elenta;
Disse l'anima un giorno a un mio pensiero: Stringe le labbra, e ficca al suol le ciglia,
Ed ei, con volo rapido e leggiero, E il fronte chino con la man sostenta:
Jl^aseipergVì occhi e corsevi impro v viso . Fatto cauto per prova; .altrui consigliai
SFCOLO DECIMOTTAVO l^^i
i scorsi con dolor rammeula; Che forza è pur che suo malgrado ascolti:
idielro sovente, e poi sospira, Qual pellegrin che per deserta via,
n onde uscì, bieco rimira. Collo a 1* aperto da improTvisa pioggia,
Ira parte, iu Tc<lpvile spoglia, Kicoyra al tronco di ramosa qncnia,
r con lui Vecchiezza siede. E in se, ristretto e rannicchiato, aspetta
n lei non cangiar pensieri o vo- Che passi o scemi il tempestoso nembo*
[ glia; K qual por frenoa l'impeto che il norta?
à incurvi, e le vacilli il piede-: Digli che taccia: ei non t'ascolta. Parla
ter più entrar parche le doglia; Tu slesso: ei grida, e ti sopprime. Dormi:
tizie a chi vien fuor richiede; Egli segue a parlar. Svegliati: e il trovi
voce tremolante e bassa. Che parla ancora; e con perpetuo suono
co accomiata ognun che passa. Ti senti intorno l'iustancabil voce,
cian l'aIbcrgo,allorche il raggio Come notturno svegliarin se scocca
china a T occidente, e manca. L' interno gioco , al turbinoso giro
està a compiere il viaggio; De la veloce sprigionata ruota ,
'appressa, e il lardo pie si stanca . L* elastico martello il cavo seno
rrando van muto e selvaggio. Celere batte dei sonoro bronzo;
destra declinando e a manca: Onde, a i colpi frequenti, e quai di densa
re acutissima; e di stenti Grandine spessi, dal percosso orccriiio
. strada , e di pensier pungenti, lapido fugge e spaventato il sonno;
van, che inevitabii ombra, Tal non mai ferma la sua lingua o muta,
», aununzia la l'unerea sera; - Di molle sembra artifizinso ordigno ,
sonno i lumi stanchi iugom- E si mota volubile e sonora,
[ bra; Che il capo introna, lo stordisce e assorda,
hiude la mortai carriera. E, con le mani ne gii orecchi , sforza
lora il breve incanto; e sgombra A cercar scampo con la fuga altrove,
bergo, e non appar dov'era. Ma fuggi ind.irno; ch'ei t' incalza, edove
seri, gli occhi;ein quel momento Non giunge il passo, alza la voce, e parla
01 nebbia dileguarsi al vento. Fin che ti vede ; e poiché sol limane,
Bendi, Della Fclicilà, canto II» A parlar segue; e, di parlar contento,
Poco si cura poi che alcun l'ascolti.
:XC. Il Cianciatore. n„^!'t^ T ì' "'•'"'■'' •" """,,?'■,'«'"'
(guanto il silenzio: ne a null'attro nacque
Fuor che a parlar. Parlando visse, e vuo'e
\ gliorccclii, amico, e dal torren- Parlar morendo, e ne la tomba ancora
se e rapide parole [ le Continuando de la lingua il moto,
, se puoi; sento che giunge Di franger spera il ferreo sigillo
3 Alcimon. Odi già come Che morte al labbro taciturno imprime.
a soglia ancor da lungi grida Bondi, Conversa «io ne
voce, e a le atterrite crei chic
irrivo suo non dubbio avviso. CXCI. Lo scioperato dormiglioso.
te timpano o sì forte
che un'ora a la incrc<iibil regga Egli non ha nemico
quacità. Dovunque ei giunge, Maggior del tempo: e a consumarloeì suda
ppena, interroga e risponde E mette ogni pensier. L'ozio e la noja
i solo: e mille cose ei chiede , A lui numeran i' ore, e dangli avviso
informa; logico ragiona. Del souar di ciascuna: oud'ei «i aggira
tarra, ed orator perora: Solo occupato de l'impiego eterno
rende: e, se altro a dir non resta, Di chieder sempre e di aspettar che arrivi
cora; e senza posa ei parla. Ora il meriggio, ed or la sera; e intanto
incontro ne paventa, e schiva ' 11 lunghissimo dì passa e distrugge
li appresso. Misero colui Su i Caffé in parte, e poi di casa in casa
;lie incauto. Ei si contorce invano L'obeso ventre strascinando, e il peso
ole al diluviar dirotto; De resistenza sua. Grave egli giunge
125 CRESTOMAZIA POETICA
lu ogni luogo; e al suo venir si stringe A scuoter i distratti. Al suol talora
Ne gii omeri ciasGuuo, ed ogni labbro China gli occhi dimessi, e fa un'occhiata
Freddamente il saluta. Egli non bada-. Lungamente aspettar; poi, quando intenti
Stupido avanza, e ad occupar s'affretta Crede gli spettatori, alza improvviso
Quel che entrando adocchiò libero ancora Le sicure pupille, e gli occhi incontra
Più morbido sofà. Mira: ei da prima Di chi meno Taspetta, e fino al fondi
l<e vesti dietro ad ambe man raccoglie; De l'alma il cerca, e lo sconcerta: ìnditiu
Poi tutto altìn vi si abbandona, e lento Di sicuro trionfo. Indi abbandona
Vi si sdraja gemendo. Ìl frale scanno La vinta preda, facil opra e breve
Cigola sotto l'improvviso incarco Di un sol guardo fugace. Or mira come
Di tanta soma. Ei guarda iutornoalquanto; Sul volto a Tirsi lanj^uida e cadente,
E poiché nulla del discorso intende, Diresti a caso e involontaria, fisa
E l'orecchio digiuno allunga indarno, D'amoroso desio le luci accese
Per fuggir Tozio al solito s'appiglia Pietosamente. Immobile si arresta
Ingegnoso ripiego ; e a poco a puco A contemplarlo, e poi si scuote a un tratto, '
Le palpebre inchinando a sop;)r lento. Come allor se ne accorga; e, russa in volto,
La vegetabil macchina e lo spirto Si volge altrove, vergognando quasi
Colloca alfine ne l'anfibio stato Di avere incauta del suo cor tradito
Che in mezzo è posto tra la veglia e il sonno. Il geloso segreto, e fa sembiante
Bello il. vederne l'anima impotente Di sconcertarsi, e timida e confusa
Con lunghi sforzi contrastare indarno, Finge schivar de le sue luci accorte
E resbler cedendo. A l'occhio intanto, 11 nuovo incontro. Misero se il crede:
Già semichiuso, gli appannati oggetti Che tardi poi de l'error suo pentito,
Mostransi appena ; e d'indistinte voci £ deriso sarà.
Lieve susurro mormora a l' orecchio Vondìj CoDverr'iiofic.
Semisopito. IVIa il sospetto eterno
De'sguardialtrui,gustar non lascia in pace CXCIII. La bella affettata.
La furtiva quiete: e tratto tratto
Scuotesi d' improvviso, e le luci apre Bella saria, ma troppo
Attonite, e sogguarda; e tosse intanto', Gliel dissero gli amanti; ond' ella, vana
Con accorto consiglio, onde dar segno De' plausi lor, la prodiga natura
Ch'egli è pur desto. iVla di nuovo il preme Viziò con l'arte, e per piacer dispiacque.
Il vincitor letargo; e a lui sul petto Breve viaggio a gì' itali confini,
Ricade il capo languido. E di nuovo In poche lune l' arricchì di mille
Pur si riscuote, e il nobil gioco alterna. Ridicole maniere. Ai patrio lido
£, poiché tutta l'onorata impresa Straniera ritornò. Già ul le suona
Alfin compiè, ne di dormir più spera; Il nativo idioma, e tratto tratto
Si rizza in piedi risoluto, e in fr«*tta Chiama in soccorso le adunale frasi
Da lo stuol si congeda : e caldo allora (Pedantesco tesoro ) e i molti arguti
Di nuovi spirti e di sublimi idee, Che da la Senna volano leggeri,
Passa animoso a pigliar sonno altrove. K a pie de l' Alpi poi rancidi e stanchi
Bolidi, Conversazione. Cadono in bocca de* lombardi Adoni
E de l'itale Veneri, che a gara
. CXCIl. Le occhiate della donna Se li rubano in giro, e senso e accenti
civetta. Storpiano gentilmnte. Or tu l'o.^serva
Come languida avanza. 11 breve' passo
K chi potrebbe i movimenti e il muto Modera il fianco dondolando; e spira
Vario linguaggio, il magistero e l'arti La grandmarla di corte. Oimè, frenate^
Tutte scoprir de le maestre luci, (Giunta sul limitar, sembra che imploTÌ\
Al fido specchio, consiglier secreto, Vulgari lingue ( ed a l' orecchio offeso
Lungamente educate? Òr vibra il guardo Forma riparo con la man ), frenate
Quasi lampo che abbaglia; or lento e inerte L'incondito garrir; che troppo , ahi, soffn
Errar il lascia indifferente: il niega L'organo molle e delicato a l' urto
Òorente s chi io cerca, e irl vol^e intaito D' una voce sonora Inuollr^, o alunni
SECOLO DECIMOTTAVO
iil
E di sereno giubilo improvviso
Fa gli occhi scintillar. In simil guisa
Si modifica e sforza; e ad aver vanto
Di sensitiva ed irritabil fibra,
Cangia moti e color, e mille affetti,
Che vorrebbe sentir, simula.
Bondiy Conversasiooe*
CXCIV. /; discioglimento della
conversazione.
Ma già la notte del suo cheto giro
La metà segna, e un non so che diifoude
llichc Grazie; e voi V udite
il labbro semichiuso ad arte ,
ppena sortir, di suono in vece,
ito sibilo soave,
sommessi non uditi accenti
orecchie tormentando bea.
labbro solo l'armonia presiede;
è, l'occhio e la man, tutto risente
e legge. Il metrico compasso
i moti; ed aniinan le molle
ìtudiato meccanismo questa
la armoniosa. Ogni suo gesto
laun vezzo; ogni momento scopre
> nuova beltà di brio vivace, ^ Che gli occhi aggrava, ein un gli spirile t
to languor. Sovente obbliqua
a molle guancia, oud'altri possa
iplarne il giustissimo profilo
ente declinar: poi d'>po
. ed attonita richiede
sa cosa, cui da lungi accenna,
agendo d'ignorarla, e allunga
ra intanto, e del tornito braccio
COSI la degradante e liscia
ita. Che se gentil novella
prende a narrar, mirala come
to a chi ragiona immobìl ferma
nte luci: dal loquace labbro
; estitica penda; e pur non ode
o non bada , e medita frattanto
i vezzi far pompa, e come usarne
Intorpidisce e allenta. 1 dritti suoi [sen^i
Morfeo ripete, e con la molle verga
Or questo or quello lievemente tocca:
£ da quel tocco inimpedibil segue
Scherzo gentil. Tu, prode Erasto, il primo
Fosti che in arco .spazioso apristi
Le tue labbra sonore. Il noto segno
Non fuggi inosservato: emula gara
Di mano in mano Io propaga e addoppia.
Quii se al gambo lalor d'arida canna
Fuoco s' apprende, su i fogliosi nodi
Fino a l'estrema cima in un momento
Lieve serpeggia la scorrevol fiamma;
Tale, a l'esempio tuo, diffuso in girò.
Di bocca iu bocca per la lunga fila
Tacito vola un languido sbadiglio,
insegreto,eadogniaccento,adogni Che noja e sonno universale accusa,
r diverso ì movimenti adatta. Altri chiede de 1' ora, altri oziando
ride improvviso; e pur non v'era L'orologio consulta, e co 1 vicini
Te cagion: ma il bianco avorio Confrontando il registra. Esauste e tote
ti, minuti, uguali dènti llan del garrir le fonti: e già più rare
scoprir. Poi cangia scena, e mostra E più dimesse suonano le voci,
turbarsi, e ricompuusi a un tratto; Tarde e interrotte ; e del silenzio sono
la speme ed il timor sospesa, Gi' intervalli più lunghi. Alfin pur s'ode
il respiro volontaria : e intanto
lati palpili frequenti
» pretesto a l'anelare alterno
osa'pevol sen. Che se il racconto
&£Ìoso narratore intreccia
iti eventi; o d'improvviso scossa
lisce con gentil ribrezzo, •
tria di pietà sul volto chiama
:o pallor, che il dolce imita
ir d' un gigli » m )ribond(): e poi
ne face che, a spirar vicina,
il soccorso d' alimento amico,
viva a scinlillar ritorna;
e la storia a lieto fin si volge,
1) spino le rivenga, anch'ella
orte guance scolorite avviva,
Per le sassose taciturne vìe
De i lungamente desiati cocchi
11 sordo pria romoreggiar lontano.
Che a poco a poco s'avvicina, e cresce
Gradatamente ; ed a la soglia innanzi ,
E pur ne Patrio, volgouo gli aurighi
E arrestano i destrier. Le orecchie allora
Tendonsi, e gli occhi disiosi; e ognun«4
Il proprio nome impaziente spera
Dal servo anuunziator. Poiché più volte
Sperarlo invano, alfin di tutti arriva
11 bramato momento. Ecco già in piedi
Balzano i lieti, e a subito congedo
Si atlej;gian destri, a la fede] memoria
Chiamando intanto il formulario usal^
Che suqI Hirsi al partir. A le lor dam^
128
Cr.ESTOMAZU rOETICA
Porgon le destre i cavalier compngiii:
Tutti sorlon altìn; col sacro patto
Di tornar pronti la ventura sera,
A V ora islessa, quelle istesse cose
A ripetere e udir, e con la speme,
Sempre delusa, di godervi un'ora
Di piacer vero, e poi partir di nuovo
Non di. sé stessi e non d'altrui contenti.
Bolidi, ConversazioDC.
CXCV. La polenta.
L* opera ferve; e già del pranzo ornai
L'ultima parte a terminarsi è presta:
Di lesso e arrosto n' han mangiato assai;
E sol l'estremo e miglior cibo resta.
Ognun l'aspetta, e volge avido i rai,
E con la man fa cenno e con la testa.
Ma già l'accusa il vivo odor fragrante,
Già l'aspettalo vien piatto fumante.
Come talor se rondine discende
Con l'esca usata in bocca al tetto fido,
Lo stuol digiuno de'pulcin, che attende,
A l'arrivo di lei solleva il grido;
Ognuno a gara il collo allunga e stende,
E il rostro aperto mostra fuor del nido;
Tale, al recarci il cibo saporito.
Ognun sorge # veder dal proprio silo.
Cresce nei nostri campi un seme eletto,
Che grosso e lungo ha il gambo, ampia la
Dal natio rido,grano turco è detto; [fronda;
K mette, al maturar, pannocchia bionda,
Che curva piegar suol sul gambo eretto
( Si numerosa di granelli abbonda);
Ha lunga barba, e conica figura;
Ed è d' un palmo e più la sua misura.
Ben macinata la farna e sciolta,
Che gialla è di color, morbida al tatto,
Dentro uno staccio s'agita e si volta,
E d'ogni crusca si rimonda affatto .
Indi in bollente e cavo bronzo accolta.
Si mesce a l'onda; e poi per lungo trailo
Sul focolar uom di robusta lena
Con un grosso baston l' aggira e mena.
Né cessa dal lavor infin che, colta ,
In sodo impasto si restringe e addensa.
Dal foco allor si toglie; e mentre scotta ,
Sopra si versa a ripulita mensa.
Indi su lei, che in fette è già ridotta,
E burro e cacio larga man dispensa;
E, condito così, grato diventa
Il caldo cibo: e chiamasi p denta.
Giaeque lunga stagion, esca abborrita,
Soì Ira'viìbggìf inonorata e vile;
E, da le mense nobili .^bandita,
Cibo fu sol di rozza gente umile:
Ma poi ne la città, meglio coadita.
Ammessa fu traU popolo civile;
E giunse atfin le delicate brame
A stuzzic;)r di cavalieri e dame.
Giunse il gran piatto adunque ; e fece
[ in fretta
Aprir la bocca, ed inarcar le ciglia:.
Ne solo giunse già; che seco eletta
Venne d' angei multiplice famiglia,
Altri selvaggi, ed altri da civetta.
Ma buoni e cucinati a maraviglia.
Chi gli assaggiò vi dica il lor sapore :
Tocca il fumo a'poeti, e il solo odore.
Bondi, Giornata villereccia, canto il.
QX^CVl. Il caffè.
Or mentre questi con'dolcezza rara
Del gentil Silvio l'armonia diletta,
i.a turba de gli Dei silvestri a gara
Ne la cucina si affaccenda in fretta;
E, com'è l'uso, a gli ospiti prepara
L'egiziana pozione eletta,
Che, sdrajali su i morbidi sofà,
Bcvon pipando i b irbari bassa,
Chi di lor nel fornello allo a tal uso
Fa fuoco, e soffia nel carbone ardente;
E chi nel cavi» rame il caffè chiuso
Volge intorno abbrostendo,in{in che sente
Misto cui fumo il grato odor diffuso ,
E de* granelli il crepitar frequente:
Dal foco allora il toglie, e il gitta fuori*,
Vestito a bruno di novel colore.
Altri in ordigno addentellato il trita,
E polvere ne trac minuta e molle :
Altri l'occhio e la man pronta e spedita
Sul vaso tien che gorgogliando bolle .
Fin sopra l' orlo in un momento uscita
L'occhiu'ta spuma, pel calor s'estolle:
Ma poi lascia il liquor purgato e mondo
L' impura feccia, che ricade al fondo.
L' opra è compiuta: e su la mensa èprf-
Già la bevanda in porcellana fina. [ sta
Silvio il zucca ro infonde, e destro appresta
Le colorate tazze de la Cina :
Indi, colma e fumante, or quella or questa
Con gentil atto a ognun porge e destina.
Gustanla a sorsi: e la bevanda amara
Poscia corregge il rosolin ^i Zara.
Bondìy Giornata villereccia, cant0 li.
SECOLO PEGIBiOTTAVO iS9
Se tolto noi concenifion solo obbietto^
VII. Sopra il WMtrimonio, Erra distratto, e vóto langoe il core^
Uom, cerca il bel cbe non declina o more,
soscoU terra; ivano a squadre £ s^^rà stabil cagion costante effetto,
errando, esi mesccanqoai fere: Né ié senza Wrtù, né senza fede
seo da ie celesti sfere, Amor, né senza amor gioja aver puoi:
sanza ab di qoal ben fu madre! Mal abbia il guasto cor che ciò non crede.
»mi s' udir di sposo e padre; Per chi sacra a Virtode i pensier suoi,
i virtù fessi il piacere; Ventila Amore ad Imeneo le tede,
enne amor, dolce dovere. Sposi, non sogno; no: favello a voi.
:ggi, cittadì, arti leggiadre. Cesarotti.
imi^lia uria, quel che fu poi CXIGVIII. A Fille.
patria: che ad amar s* apprese
'. stesso, e ne la patria 1 suoi. Odi, Fille, e m* aita. Ardo; e delpetto
i&r chiari nomi, avite imprese; Tengo a lei, che il destò, l* ardor celato,
mbiàrsi, e s' inuestaro eroi: Ellaol' ignora, o il finge; edelmio stato
iene a tal fin sue faci accese. Prendesi (e il crederò?) crudel diletto.
Mandai nunzio del core un sospiretto.
Iti il gregge vii, secol che detto Che piaupian mormorava il home amato:
•rto de V oro; io ti condanno. £i gemea verso lei; passoUe a lato:
ato tuo bene ombra ed inganno:. Ma tornò non inteso, ovver negletto. .
a é piacer , se noi condisce af- Fille, teco ellaé sempre: ah dille ch'io
[ fé Ito. Per lei, solo per lei, peno e mi sfaccio,
a in culla il desio facil diletto ; Ma tu chiedi qual sia: scherzi, o noi sai?
to onor non si dicea tiranno : No, non é Silvia o Nice.Eurilla? oh Dio.
I, senza scelta, e senza affarfno, Licori? ah no. Chi dunque? ah, Fille, io
pice istinto, un cespo il letto. [ taccio:
) fessi il comun; leggi e pudore Vattene a qoesta fonte, e la vedrai,
istodi: onde il desio, che sciolto Cesarotti»
ìsì pei sensi, invase il core.
. parti respinto, in ceppi avvolto, CXCIX. Alla itanza della tua
ossi in un punto: e nacque amore: donna >
'Eliso é in questo nome accolto.
Fida stanza romita, ove si spesso,
lome é dover: d'ogni diletto Co* suoi dolci pensier, trova ricetto [to,
ke mani inaridisce il fiore. Quella rh'é de'miei voti il sommo obbiet-
ingo riposo alato Amore, £ mi fa, perché suo, caro a me btesso ;
ccio a sicurezza assonna affetto. Poiché il mio fato ancor non leggo es-
hiude tutto il bello un solo oh- [ presso,
[ bietto; Dimmi: vedesti mai fuor di quel petto
t di tutto libello ha vago il core. Uscir lento e furtivo un sospiretto
nasce desio, s'allenta, e more: Mormorante il mio nome in suon som-
varia cagion, non dura effetto. [ messo?
I è d'accesa mente , eterna fede: Ah, se ciò fu, se un dì mai fosse (oh
ffri, natura; uom, tu noi uuoi; Serbami quel sospir,serbalo intero; [Dei],
ige é tiran, folle chi '1 crede. fa eh' io sugga quell' aure, e il cor ne bei.
irla il mondo cogli errantisuoi: Velerà, fidai stanza, un bel mistero
pradita al del, felici tede, ^ Mia gioja occulta; ed ii mio sguardo a lei
1* empio linguaggio opra é da voi. Dirà sempre che bramo, e non che spero.
Cesarotii,
dover, tu di terren diletto
il fimtc, e ingentilisci il fiore. CC. Alla iua donna,
scorta tua che fora amorel
a d' alma, e periglioso affetto. Già la Ragion eoa più severo volto
OPABDI; Cnstomaiia. IL ^
430 CRESTOMAZIA POETICA
S* appresenta de l*a1ina in su le soglie. Feroce apparve di virtù selvagg^e^
£ a sé chiama dinanzi aifetti e voglie, La dura Sparta, memorando esempio
£ sgrida ogni pcnsirr fallace e stolto. Di quanto possa di robusta mente
Un more, un iangue, in fuga un altro Ardito genio, che con forza afferra
[evolto: Alto principio dicivil governo,
Questo nodo si spezza, e quel si scioglie: E le disperse e mal composte partì
Sgombro intanloil mio cor di vane spoglie, A quello trae con violenta destra.
Beala sol di tue forme impresso e sciolto. Ed in un tutto armonico le annoda
Verna su Talma, ed Aquilon campeg- Tenacemente, e abbatte e svelle e spezza
[ già; Senza pietà quanto ripugna ed osta
Di fronde e fior tutta la piaggia è sgom- Ai maschi sforzi de la man sovrana.
[ bra: Sparta, che a tutte passioni umane.
Ma V immagine tua solo verdeggia. . Di natura stupor, travolve il corso;
£Ua un deserto, unica pianta , adom- Ed amìstade, umanitade o sangue
Tutto colle radici il cor passeggia: [bra: Doma e calpesta ed ala patria n'erge
E Ragion con Amor siedevi a T ombra. Atroce ed ammirabile trofeo,
Cesarotti, £ l'uom fa fera per cangiarlo in nume.
Ma senza sforzi e violente prove,
CCI. Il sospiro. Quasi del suol latin spontaneo frutto,
Mira, il Genio direa, semplice e bella,
A i fidi amici, a i cari poggi Estensi Far di se mostra la virtù di Roma:
Tornate voi per me, caldi sospiri, Roma, che de la Fama ancor già spenta
Nunzii di ricordanze e di desiri; Tutta riempie la capare tromba:
Onde il cor se ne allevii e si compensi. Roma; di tutte Tarti alta maestra
Vedrete là chi di me parli e pensi. Di conquistar, di conservar gì' imperi:
£ chi del mio partir dolce s' adiri: ^ Ch*e, a forza d' indomabile costanza,
Qual di voi grazie renda, e quale spiri Dietro il suo carro incatenò Fortuna;
D» affetto e d' amistà teneri sensi. ^ E, a tempo enorma, or generosa oraspra.
Ben volerà ciascun pronto e giulivo, Or audace or accorta, e grande ognora,""
Mormorando quel nome a cui l'invio; 1)' occasion gì' impercettibil punti
Sol un fra tutti andrà tacito e schivo. Preparando o cogliendo, e misto a forza
Felice me se un gentil viso e pio, IMeghevol senno, ed a virtudi eccelse
Mentr' ei sen passa timido e furtivo, Viaii abbaglianti ed a virtù simili;
Dolce il sogguarda, e fra sé dice: è mio. Fé T universo, attònito e sorpreso
Cesarotti, Di rimirarsi sua provincia fatto
Per insensibìl via, baciar contento
CCII. Alene r Sparla e Roma, Le sue felici e splendide catene.
Fatai grandezza, che il vigor vitale
Ecco al suo sguardo, del gran Genio a De i gran principii, e de le leggi antiche »
[ i cenni, Stemprò, disperso in sì remote parli:
Mostrarsi Atene, luminoso misto Che troppo denso impcnelrabil velo
Di difetti e virtù; d'eroi nudricc, Tra il guardo altier d'imperiosi duci,
Punitrice d' eroi; leggiera e grande; £ de la patria l'adorata immago.
Solo in suo danno del parlar regina; Frapponean l' Alpi; e si perdea la voce
Sempre ondeggiante in popolar procella. De l'alme leggi, in tanti mari assorta.
Sempre discorde; zelatrice ardente Quindi l' incauta plebe, e le supi<!l)e
Di libertade, a liberlade inetta^ Italiche città chediero a Roma
Splendida madre e forsennata amante 1 ar>e di cittadini, e compri voti;
D'aiti ah per lei troppo leggiadre e belle, Vile si fér ' d' ambizìon strumento:
Che in alto soa\ issimo letargo Onde l' antico salutar conflitto
L'immerser tutta, onde poi scossa indarno De i dritti alterni de i diversi corpi^
Al suon de la guerriera emazia tromba Rotto il costante edequilibre moto,,
Svegliossi in braccio di fatai servaggio. Ch' era di libertà iermenta e vita, « *
B/ir petto a Ì€Ì la fiua rivale altera, ' Fecero.
SECOLO DECIMOTTAVO 131
M in aspra e torbida tempesta; Le difese abbandona , e invan s' asconde
giacque, in alto mar funesto Dietro un leggero focosetta velo,
sangue civil naufraga e spenta. Che più che di vergogna è di desio,
està ialina, o sacro nome, Così scorrendo ognor di bella in bella,
» di gloria, « sudor vani, Pago non è se trionfante in Guido
lustri è più d*alte virtudi, Non entra, e cinto de Pidalio mirto,
iungeste! £cco depreda il frutto Conquistator de V amoroso regno.
imprese, e le midolle e il sangue Miser: dhe, sempre Hi piaceri in caccia,
stato, e lo dinerba e spolpa Gii sfuggon sempre; in un forato vaso
nia, queir esecrabil mostro Versa un'onda infìnila; e quasi a un punto
ì braccia, e di sanguigna bocca Gli germogliano in cor diletto e noja.
ice di giustizia e leggi: Sfasciasi intanto il corpo; e move il pa$so
ito da i baratri profondi, Aifrettata vecchiezza, li van desio,
a terra a sèsimil, V Inferno. Che sopravvive alle defunte membra,
:rrà, ma verrà pur, vendetta Lo fa segno di scherni: e al fm consegna
che troppo a cor romano acerba); De la sua vita gli spossati avanzi
le* prischi eroi, cui fu di morte A vergogna, a rimorsi, a doglie in -preda,
di servitù, dolce 1' aspetto. Cesarotti,
;roci popoli selvaggi
freddo Aquilon torbido nembo, CCIV. V autunno.
li stragi, che pe i larghi vóti
onnesso e vacillante impero Già s'accorciava il giorno;e iltempera-
l'on rovinoso orrido scroscio. Ottobre ergea la pampinosa fronte. [ to
olosso smisurato, enorme, Incominciava a impoverirsi il prato
asto giarda mille vizii interni, D' erbetta , e il verde a impallidir del
'A no, ma si reggea col peso; [ monte;
>strato, e colle sparse membra E frequenti stridean del viandante
il mondo, che copria coli' ombra. L' aride foglie già sotto le piante.
Cesarotti. L' anno maturo dechinava: ed era
Il suo modesto ammanto assai più caro
CU. X' amatore leggero. Che quello della steril primavera.
De gli avidi bifolchi a V occhio avaro:
colà doTe, in dipinte logge La pingue oliva, l'auree e rosee poma
1 teatro le beltà raccolte. La curvata prcmean ramosa chioma,
tacol si fan che spettatrici. 11 dì sorgeva: era sereno il cielo;
a messe amorosa! £i la divora Mentre, qual mar^stendea su le soggette
n l'alma, che, divisa e sparsa. Valli la nebbia un biancheggiante velo*
bbri di Silvia, e s'iede a l'ombra Fuori i colli sorgean, quasi isolette;
lìglio di Nice; a Cloe tra i crini Kd apparian su le lor verdi spalle
, e strìscia , e si perde a Fille in I rozzi tetti e le fumanti stalle.
[ seno. Del sol mezio scoperto e mezzo ascoso.
Ite a un punto; e d'un sospiro ì- Tra iìrossi grappi, e pampani stillanti,
[ stesso Tremolavano i raggi: al pasco erboso
>io k per Delia, il fin per Clori. Già i greggi si movean, lenti e belanti:
ispetto, ingegno, età diversa E ora apparian gli augelli entroil sereno,
ente l' alletta. Aria vivace Or disparlan di folta, nebbia in seno,
danza, ritrosia l'irrita, Pìg notti, noveìW HI,
cotto l'adesca; e, se riscontra
;uardo di gentil fanciulla CCV. / palloni volanti.
udore ed innocenza alberghi, *
vana idea gii empie la mente De lo stupor che desta .
r de le prime amorose orme Un volante pallone,
; intatto; e di veder già pargli A dirli il ver, non vedo la ragion*».
, che, sedotta e palpitante, Qnal è mai la virtù che io sublima?
i32
CRESTOMAZIA POETICA
Che asconde entro di se, da cui la forza
Per gire in aito e per volar rieere?
Fumo sol wì si asconde, ed aria lieve.
Onde la meraviglia? e quando fu
Nuovo vedere il fumo andare in su?
Or sai la diiferenia, e perchè il ciglio
Ciascun V* affisa, e si riman stupito?
È fumo, è ver; ma fumo rivestilo.
Con varie fogge per attrar io sguardo,
In ampio globo ascoso, in varia veste
Il fumo si traveste;
Ora in più vile.ora in più ricco invoglio;
Ma il più comun vestito è quel di foglio.
Scuotousi i polverosi scartafacci,
£ cento e cento per vestire il fumo
Pongonsi in opra letteraril stracci.
Quanti intarlati, né finora aperti.
Vergini libri, già vecchi, e coperti
Di quella ancor che vi cade primiera
Polvere inonorata.
Libri cui si fé nolteinnanzi sera;
A le tignole tolti.
Si schiudono; e disciolti
Dal manto, che quantunque aureo gl*iu-
A r oblio non li tobe, [ vobe,
Ora impastati al fumo intorno intorno,
CJon meraviglia a Ifin veggono il giorno!
Qua s' ìnnaLÌzsL un pallone , e ne 1* alzarsi
Mostra su V ampio suo ventre distesi
I magnifici titoli
Di teologiche tesi.
Sdrucite, e insiem confuse,
Volano le poetiche Raccolte .
O quante odi pindariche.
Sol di vano rumor pompose e caricfaei
Che con sonanti rime,
Mentendo in stil sublime»
luvitaron si spesso gli uditori
A rimirare il loro eccelso volo,
Ne si mosser dal suolo;
Ecco, con nuovo inaspettato salto,
Pregne di fumo, alfin volano in alto!
Voi pur (chi '1 crederia) mostri di Pindo
Che, col coturno in pie, da pulcinelli
Travestendo gli eroi.
Montate in palco; e voi
Che, impastati di un quarto di commedia,
D'un altro di tragedia,
£ il resto di follia,
Daniello ed £tìa
In lungo, strano e non ^inteso gergo
Ragionar fate; e per le colpe sue,
Nabucco in scena trasformate in bue;
yoi che, nati, restate ognor sepolti
De l'oblio fira le tenebre onicide;
Gioite: alfiu v'arride
11 fato amico: è giunto
Il fortunato punto
Che tragghiate del pubblico gli sguardi:
£ mentre, in giri ora veloci or lardi,
V* inalzate a le nubi.
Quei che speraste in sul teatro invano
Lieti plausi sonori.
Grazie al fumo, vi fan gli spettatori.
Ma questi benché adofuo
De le dotte fatiche di Parnaso
E di più d' un Liceo,
Quest'abito del fumo è il più plebeo.
Altri di tela il cinge,
Che di vaghi colori orna e dipinge;
Altri di nobil più, serica veste,
Su cui scorrono, inteste,
K in vago ordine miste.
Auree cpurpuree liste.
a il vario suon di gioja ed il clamore
Del volgo, pare a me che sia mafj^iore
Quanto più ricco e bello
È del fumo il mantello.
Di questa folle ammirazion, di questo
Strano evento tu ridi? e pure in esso
Ravviserai, se eoa attento sguardo
Prendi a mirarlo ben da capo a fondo,
L' immagine di ciò che avvien al mondo.
De gli uomini l' immensa
Folta che scorre inosservata e queta
Per r usata e secreta
Via de la vita, rassomiglia appunto
Al fumo non vestito ancor, che sotto
La sua vera figura naturale.
Senza attrarre un'occhiata.
Per la solita strada in aria sale.
Ma vedi come a un tratto,
Rapidamente tratto,
Da destrieri spumanti.
Di ricchi fregi adorni ed aurea brigl ia,
Stride su i ferrei elastici sostegni
Fastoso cocchio, e il popolo scompiglio*
Vedi come la turba
Stupida il guarda, e risguardandoamnQ*
Quei servi rapidissimi e volanti, C ta
Che gli scorrono avanti ,
Come i destrieri anch'essi orAati d*oiO|
E resi eguali a loro;
Quello stuol d'oziosi impertinenti
Dietro al cocchio pendenti;
L'aureo fulgor, lo strepito, il rimbooiio»
Che la vista così fere ' e .l' udito,
* Ferisce.
SEGOLO PECIÌfOTTAVO i 33
l forno un nagnifico Testilos Ma si raffredda il fumo; e già ricade
DO, o sia di quel ricco e dorato
,chesdrajato
irstosa impertinema siede
ante guanciale e la pedestre
d'un guardo sol degna non crede,
rapido cocdiio
i, strideDdo in minaccioso metrò,
uperfao indietro
?olgo cencióso: ed a punirlo
ui tri^po appressò , mentre tra-
Stt quelle, onde partì, fangose strade:
£ allora, ad onta de la nobil vesta.
Senza degnarlo d' una occhiata sola.
Vi passa sopra il volgo, e lo calpesta.
Pienotti»
GCVI. Il gatto e il pesce éUtrato.
FATOLA >
Sopra marmorea vasca, ove il cristallo
a, o, allor eh' ei fiogge, [ passa, Emula van le pure onde tranquille,
e fimgoso spruizo asperso il lassa. Ed a l'argentee conche ed al corallo
un fumo negletto era poc'anzi Faceano specchio, e a le petrose stille;
li piegànsi innanxi Infra i gatti il più bel, JBuricchio, as-
fronti umili. £ ben, che avven- [ siso,
:hiave*dorata, che gli pende [ne? Stavaammiran do entro il cristallo ondoso
fianco*, quello l.e negre orecchie, ed il rotondo viso,
titolnovello, Le candide basette, e il pel nevoso.
ne la tHKca alteramente, e suona Mentre contempla la sua bella imago,
nposo rimbombo E in basso e rauco suon va borbottando,
ibora de' servi ogni momento; Mira sotto di se nel picciol lago
Un non più visto pesce ire ondeggiando.
Aguzza i lumi allor, la serpeggiante
G)da inarcando, e in lui s'affisa attento;
Che di dorate squame fiammeggiante,
Per l' onda se ne va fastoso e lento.
Buricchio allor, che sotto un serio e
igon, qnai zodiaci, oblique il seno Venerabile aspetto ricopria [ grave
del forno: sì, gemmato fumo, Indole ghiotta, e voglie ingorde e prave;
pomposi, e tremule scintille Sì bel pesce assaggiar tosto 'desia* t
lo, le pupille E crede che, di vaga e pellegrina
j;o abbaglia sì, che in lui s'affisa, Spoglia sì ricca un pesce rivestito,
' fumo nessun più lo ravvisa. Più de l' argentea trota e de l' ombrina,
1 fumo il più leggiero, il più set- De lo storion sarà più saporito, [ruote:
che il ^olgo umile itile; Guizza per l'acqua il pesce in spesse
con più stupor; quello che abba- Stende la zampa il gatto, e l'unghia al-
ibi troppo fiso lo rimira , [ glia I tuffa
fuino un fastoso abbigliamento,
el fumo son quelle splendenti
»ntif legacce,e stelle, e fere;
tinte, altere
fasce, d* a urei fregi ornate
nme stellate,
I strana vertigine
il capo gli gira;
le cangia ogn' istante
> e di scmbbnte,
veste i più pomposi e vani;
no lusinghier de' cortigiani.
3r fosca e torbida atmosfera,
i d' incostante aura leggera,
crei palloni, errar li mira,
a le più instabili vicende:
lonta, altri scende.
[uando il favore,
àtal calore,
a il fumo, vedi come s' alzi
simo il globose in un baleno
a le niu^ insano.
Ne l'onda alquanto, e la ritira e scote;
E accostali muso,, tocca l'acqua e sbuffa.
Sorge alfine a fior d'acqua, apre la bocca
Il pesce incauto, e più e più s'innalza: '
Buricchio attento il fatai colpo scocca;
L^adugna e tira, e sopra il suol lo sbalza.
Si dibatte su II' erba egro e languente
Il pesce: e il gatto a lui saltando addosso.
Straccia coll'ungbia, e ficca avido il dente
Ne l'aurea pancia e nel dipinto dosso.
Ma quando poi l' insipida e stopposa
Polpa gustò, che già sperato avea
Trovar sì saporita e preziosa;
Burlato, malamente la rodea.
E abbandonando il nesee non finito,
Fra sé concluse, pien di mal umore^
434 CKESTOMAZIA POETICA
Che creder non si deve a un bel vestito,
Né rinterno apprezzar da quel cb*è fuore.
Pignoni,
CCVII. La mosca,
FAVOLA
Da V infiammate rote
Febo scotea sul suol V estivo ardore;
£ il robusto aratore
Stava a Tarso terreno
Col vomei^e tagliente aprendo il seno.
Accciso iii voltO; di sudor bagnato,
Col crine scompigliato,
Curvo le spalle, il cigolante aratro
Con una man premea,
Cbe col chino ginocchio accompagnava;
£ coir altra stringea
Pungolo acuto; e colla rozza voce,
£ co i colpi freq uen ti ,
Affrettava de' bovi i passi lenii.
Stava sopra l'aratro in grave volto
Una mosca arrogante,
Ch'or su l'irsuto tergo
De' stanchi buoi volava,
£d ora al tardo aratro
In fretta ritornava;
£ quasi in alto aifar tutta occupata,
Smaniante ed affannosa,
Corre, ronza, s'adira, e mai non posa.
Un moscherino intanto
Passando ad essa accanto.
Le disse: e perchè mai
Tanto sudi e t'affanni? e cosà fai?
Rispose con dispetto
Queir arrogante insetto:
Noi vedi? è necessario il domandare
Qual importante affare
Ci occupi tutti adesso? Ad ignorarlo
Veramente sei s«»lo.
Non lo vedi, balordo? ariamo il suolo.
È assai comune usanza
Il credersi persona d' importanza.
Pignoni.
covili, ilrosignuolo e il cuculo.
FAVOLA
Già, di zefìra al giocondo
Susuirare, erasi desta
Primavera; ed il criu biondo
S'acconciava, e l'aurea vesta.
L'aer tepido e sereno^
De la terra il lieto aspetta
Già destava a tutti in seno
Nuovo brio, nuovo diietto.
Sopra l'erbe e i fior uovellt
Saltellavano gli armenti;
Ed il bosco, de gli angeilt
Risonava a i bei concenti.
Con insolita armonia
Entro il vago stuol canoro
L' usignuol cantar s' udia,
Quasi principe dei coro.
Le leggiere agili note
Sì soave or lega or parte,
Che dimostra quanto puote
La natura so{n-a l'arte.
Ora lento e placidissimo.
Il bel canto in giù discende:
Or con volo rapidissimo,
Gorgheggiando, in alto ascende.
Tra le frondi ei canta solo;
Stanno gli altri a udirlo intenti:
Ed avean sospeso il volo
Fin P aurette riverenti.
Sol s'udia di quando in quando
In nojoso e rauco tuono
Un cuculo andar turbando
Il soave amabil suono.
K lo stridulo rumore
Importun divenne tanto,.
Che del bosco il bel cantore
A la fin sospese il canto.
L' importuno augel nojoso.
Dispiegando allor le penne,
Al cantore armonioso
A posarsi accanto venne:
E con ciglia allor di grave
Compiacenza e orgoglio piene,
Disse al musico soave:
Quanto mai cantiamo bene!
L'ignorante ed impudente
D' accoppiarsi al saggio ha l' arte,
E con lui tenta sovente
De la gloria esser a parte.
Pignoni-
CCIX. La rosa, il gelsomino
e la quercia.
FAVOLA
D' un rio sul verde margine.
In florido giardino,
Su siepe amena stavano
La rosa e il gelsomino:
Che, con piacer specchìaiidosi
SECOLO DECIMOTTAVO
135
Eotro del* onde chiare,
Insiem de* proprii meriti,
Presero a ragionare.
1 fior diletti a Zefiro
Noi siam/dicea la rosa:
Noi sceglie sol, per tessere
Ghirlande a la sua sposa.
Alcun non è che uguaglici;
Alcun non ci somiglia,
Fra tutta la più nobile
De* fior vaga famiglia.
Leggiadri ed odoriferi
Noi siamo; è a noi permesso
Di lusingare e molcere
Due sensi a un tempo istesso.
Punta da dolce invidia,
Btn mille volte e mille
11 mio colur desidera
Fin la vezzosa Fiile,
Quando davanti al lucido,
Fido cristal si pone,
E a la sua guancia accostami
Per fare ilparagone^
Noi l'auree chiome a cingere
SiaUio sii gli altri eletti,
O i palpitanti a premere
Turgidi eburnei petti:
Trattati ognor da morbide
E delicate mani,
D* Amor spesso partecipi
De* più soavi arcani.
In somma, o tra l* ombrifere
Piante, o tra l'erbe e i fiori,
Non V* è chi al nostro merito
Non ceda i primi onori.
1 detti lusinghevoli
Con gioja altera intese
Il fior stellato e candido,
£ poi così riprese:
Vedi là queir altissima
Deforme quercia annosa?
Guarda che foglie ruvide,
Che scorza atra e callosa.
Chi mai qui presso poscia?
La semplice sua vista,
Se in parte non detarpami.
Almeno mi rattrista.
Ella, cpme sei merita,
Da la callosa mano
Trattata è sol del rustico
Durissimo villano.
Tra 1* opre sue mirabili
Certo sbagliò Natura
A prodnccasì sotica.
Pianta, si roiza e dura.
In vece d* olmi e frassini|
Di querce, abeti e pini,
Crear sol si dovevano
E rose e gelsomini.
Scosse la nobil arbore
Le chiome maestose,
£ a le arroganti e garrule
Voci c\m rispose;
Frenate i detti frivoli^
O mesrhinelti, o vani\
Che forse il vostfo pregio
Non giangerà a domani.
Tanti morire t nascere
Sa questa piaggia amena
Di voi vid'io, ch'esistere
Voi mi sembrate appena.
Solo per pompa inutile
Dei suol voi siete nati;
Quasi a un tempo medesimo
E colti ed obbliati.
Io da la spessa grandine,
10 da gli estivi ardori
Presto un grato ricovero
Al gre^e ed a i pastori.
Co* miei rami prolifici
Son già cent* anni e cento
Ch' io porgo un util pascolo
Al setoloso armento.
E quando, fiacca ed arida,
Sarò a morir vicina,
Spero di sopravvivere
Anche a la mia mina.
Del minaccioso oceano
Andrò solcando l' onde,
£ tornerò poi carica
Di merci a queste sponde.
E voi, che siete, miseri.
Da tutti oggi odorati;
Demani, guasti e putridi,
Sarete calpestati.
Del saggio arbor non erano
Compiti i detti appieno.
Che i fior -già cominciavano
Lancruidi a venir meno.
Già inariditi perdono
11 lucido colore;
£ al suol negletti cadono^
Sformati e senza odore.
'Ìlu, che qua! bruto ruvido,
Ogni uom di senno spregi,
Lesbiu, se non adornasi
De* tuoi galanti fregi;
Ne' miei fior la tua imagiHe
iù6 • CHESTOMAZIA POETICA
Non vedi al vivo espressa? La ragion ne diro: perchè i segreti
La vedrai tosto: aspettati De la natnra san meglio i poeti.
Tu ancor la sorte istessa. Quando uscì da le man de la natura
Fignotii, II cigno, anch' esso nacque
Con voce rauca^ dissonante e dura,
Come gli augei che vivon» ne l'acque.
Niuoiv di lui però prendeasi gioco;
Perciocché presso a poro
Cantavan tutti su l' istesso tuono.
Per sua disgrafia un giorso
Infra i rami d' un orno
Sentì del rosignuob il dolce snono:
£ allor vedendo quanto
L'armonia del pantano era discorde,
Del rosignolo chiese a Giove il canto:
Che sul principio fé l'orecchie sorde;
Ma, quando ei volle poi. furtivo entrare
Di Leda ne le soglie,
Si fece allor prestare
Dal cigno le sue spoglie;
£ allor concesse al candido animale
Canto del rosignolo a quellovegnale.
Di questo nuovo pregio il cigno adorno,
Credette esser più illustre
Infra i compagni de lo staol palustre.
Ma quei gii furo intorno
Con sibili di scorno.
Gridando che il cantar così, non era
Il tuono e la maniera
Conveniente a la palnslre starna.
Invidia forse fu, forse ignoranxa:
L'altrui doti sprezzare, avere in pregio
Le proprie solo è naturale istinto:
Ognun sa come i mori hanno in dispregio
I bianchi, e il dia voi bianeii hanno dipinto.
Fosse insomma ignorante ovvcr maligno
II gracidante stuol, con schenn e basse
Perseguitò tanto e poi tanto il cigno,
Che, disperato essendo» egli s' indusse
Pigmtti. A richiedere a Giove alfin l' antica
Voce discorde: e in quella
Ora soltanto canta, ovver &veU«,
£ quella schiera, a lui tanto nemica,
I fisici più gravi e gli eruditi Sol si potè placare
Fecer ne' tempi addietro, e fanno ancora» Quando l' udì gracchiare.
£ lunghe e dotte e strepitose liti, Infra i balordi, per istar d' accordo,
Perchè una voce armonica e canora Spesso, o lettor, c<mvien far da balordo.
£bbe ne' tempi antichi il cigno» ed ora fignouù
}fon canta no, ma gracchia,
Appunto ecune un'oca o una cornacchia: CG^II. Il eavallo, il fttM, U manton9
£d hanno mille lune acutamente e l' a$ino»
Dette, piene però d'erudizione, »AVAt *
Or 10 per risparmiar d un innocente
CrJsihm iAchioitro tanta effosione» Quattro animai» divani
CCX. La ehieehera e la pentola,
FAVOLA
Una dorata chicchera
Dì porcellana fina.
Spezzata in più minuzzoli, .
Tornò mesta in cucina.
Pria che i rottami inutili
Fosser gettati via:
Che t'aweime, una pentola
Disse, sorella mia?
La chicchera sarehbesi
Sdegnata un' altra volta
A tal nome; ed ora umile»
Per pietà, disse» ascolla.
Tu sai con che mirabile»
Con che sottil lavoro .
Cinese man, di porpora
M'avea fregiata e d'oro.
Sopra^ bacile argenteo»
D'argento circondata.
Da la}>bra e mani nobili
Ognora palpeggiata;
La mia fragile origine
Alfin dimenticai;
£ in un vaso che cadere
Von volle il luogo, urtai.
£ra il vase metallico:
£d a la prima botta.
In pezzi minutisùmi
Caddi schiacciata erotta.
Forse su V argomento
Di questa favoletta
Necessario è il comento?
CCX). Jl cigno,
FAVOLA
i e d'umore;.
sorridere,
le serio e piea di gravità,
ia parca di qualità,
lo vontoac, ed nno anello
to asinelio;
ndo di fame in meizo a tasta
pianura,
cando ventura.
ungo viaggio
SECOLO DEC1M0TTÀV0 " J37
Così si fa fortuna in questo oiondo.
Pignottì,
CGXIII. La iueea»
FAVOLA.
Dolevasì «na zucca
D' esser da la Natura condannata
A gir serpendo sopra il suolo umile.
Io, dicea, calpestata
afflitti, a&aiati, in aria trista Mi trovo ognor da ogni animai più vile;
alfine in vista
'deggiante, ameno
rasso terreno,
tea turba impaziente
urava ed arrotava il dente:
tgendo dappressso,
vago prato
circondato
£ dentro il limo involta,
£ nel crasso vapor sem|>re sepolta.
Che denso sta su l' umido terreno.
Mai non respiro il dolce aer sereno.
A cangiar sorte intenta,
Volse e rivolse i rami serpeggianti
Ora indietro or avanti,
Strisciando sopra il suol con gran fatica;
rgo fosso , e da una siepe folta; lanto che giunse a un'alta pianta anti-
iico varco stava assiso,
) e brusco viso,
> villano,
dia colla mano
» bastone, e si pesante,
ggir la fame in un istante,
r generoso»
ne al* aspetto
oersi io petto
non so che,
me passar tosto gli fé:
le tremava:
liberava;
unga deliberazione,
star lungi dal bastone.
) allor, senza pensar di pia,
^ro un salto, .
U>n va incontro al fiero assalto:
ano il custode,
duro legno in arsa scote,
percole,
resfùnge, invan lo pesta:
ipra tempesta
orrendi V asino s* avanza;
de a dispetto,
orfe nel florido ricetto,
t in mezzo a V erba
ita superba.
si allora a* tristi amici
cessi felici
dnatoeroe
con occhio invidioso;
pinmaraftey
volto placido e giocondo;
I pieghevoli rami avvolse allora [ca.
Al tronco de la pianta intorno intorno.
Strisciando chetamente e notte e giorno:
Talché, fra pochi dì, trovossi giunta
De Palbero a la punta:
£, voltandosi in giù, guardò superba
Gli umii virgidti che giacean su l'erba.
Questi, ripieni allor di meraviglia,
Chi mai, dicean fra loro,
Portò con lieve inaspettato salto
Quel frutice negletto tanto in alto?
Bispose il giunco allora:
Sapete con qual arte egli poteo*
Giungere a l'alta cima?
Vilmente sopra il suol strisciando prima.
Pignottì»
CCXIY. AW Italia.
Italia! me felice!
Sotto il ciel più sereno»
Bella d'arti e d'artefici
Begina e genitrice,
Nacqui anch' io nel tuo seno.
Le mani alzo a gli Dei,
Eil dond'iulacuna
Pregio piò che in estrania
Terra non pregerei
Don di regia fortuna.
Se naequer lungo il Nilo,
Se Grecia le fé beile.
Nacquero e s'abbellirono
Sol per prende! asilo
' Polc.
158
CHESTOMAZIA POETICA
Tra noi l' arti sorelle.
Quante man corser pronte!
Quant*alRie innamorate!
Ecco a le Dee risplendere
Tutta la hice in fronte
De la natia Leltate:
D* eccelso orgoglio oh come
Inusitati moti
L'acceso cor m' investono,
Sanzio, s' odo il tuo nome,
S' odo il tuo, Buonarroti!
Ovunque il guardo io giro,
Cento m*invitan segni
D' are che al Gusto alzaronsi:
Quanti r aure eh* io spiro, •
Spirar sovrani ingegni!
De l' arti io vi saluto
Monumenti diletti:
In voi pascendo l'anima,
In genio anch'io mi mulo,
£bhro de' vostri aspetti.
Altri fra il tuon de' cavi
Metalli ami aggirarsi
Fra monti di cadaveri;
E l'irto crin si gravi
Di allòr di sangue sparsi:
Tu, Italia, in mezzo a l'arti
Pacifica ti resta;
Italia, ecco il tuo imperio:
No, il Ciel non potea darti
'Sorte miglior di questa.
Grecia potuto avria
Lagnarsi? un sol sospiro
Trasse ella mai d' invidia
Su l'alta signoria
De' successor di Ciro?
^ Ma de l' onor più vero
Sempre, se vuoi, ti sono
Tutte le vie domestiche:
Scopristi un emisfero,
E altrui ne festi ' un dono.
Di tue ricchezze il fonte
Avrai tu sola a vile?
Se, mal suo grado, apprezzale
D'oltremar, d' oltremonte
Ogni spirto gentile?
Qiial corra a te non pensi
Estrania oguor ^miglia,
Su' tuoi tesori estatica
£ in prede a mille sensi
D' invidia e maraviglia?
Reso a le patrie rive,
Se oltraggi alena frappone
' Facesti,
Al vero inevitabile;
Quel che sua invidia Scrive,
Detesta sua ragione:
Ma, se l'invidia cede,
L' industre peregrino
Giura, per te dimentica
D'aver la patria; e chiede
Farsi tuo cittadino..
BertUa,
CCXV: Partendo daPosilipo.
Addio, beato margine,
S icro per tanta età
A l'aurea voluttà,
Sacro a le muse.
Se ne le fibre languide
Mi ribolli vigor,
Se nettare sul cor
Mi si diifuse;
Se più letea caligine
A l'etra un.vel non fa,
Se a l' arti é a P amistà
Dolce io rivivo;
Tutto a te deggio: e deggioti
L' insolito avvenir
Ond' eccito i desir
Pigri ed avvivo.
Come veloce a serpermi
Per le midolle fu
La provida virtù
Di questo sole! .
Così pietoso penetra
Raggio del dì novel
Entro r esangue stel
De le viole.
Com' io sentia, ne l'agili
Vicende del réspir, '
Me stesso rifiorir
De' tuoi bei doni!
Su cento sassi inciderli
LMndustre man tentò:
Forse gli eternerò
Con grati suoni.
Se ben d'Azio ' ne'nomer
Pinta e famosa è già
La magica beltà
Del mar, del lido;
De' colli, che pompeggiano
1 n curvo ordine àltier;
De gli antri, ove i piacer
Formato hau nido.
lo quindi alzarsi, io créscere
' DelSjiaaaszarOt
SK<!:OLO
Quindi i noTelK albor,
b TÌdi i salsi amor
D* oro poi farsi.
£ numerava i fulgidi
Solchi pai mar y pel ciel ,
Qoai da mortai pennel
Non pon * ritrarsi.
lo di Vese?o sorgere
Da la montagna foor,
Ke l'ampio suo cbiaror,
Cinzia vedea;
£ da i'-alte vulcaDÌche
Foci la fiamma uscir,
Che il sommo orlo lambir
Di lei parca:
£ vidi in manto argenteo
I fluttti tremolar,
E P ali ivi tuffar
L* aura leggiera.
Da l' arenoso margine,
Dai sasso al mar vicin,
Più non vedrò il mattin,
))oQ più la sera.
Addio, ^e iberno turbine,
Coir arme d' Aquilon,
De r umile magion
Flagella il piede;
Gr incisi sassi a frangere
Non mova il suo furor:
Lunga d' un grato cor
Far deggion fede.
Addio. Se, allor che d'esperò
L* amabil lume appar,
Vrrraii solcando il mar
Gli eletti amici;
L' erma mia stanza guardino
Dicendo: or più non v*è:
Come sou brevi, oimè,
L' ore felici !
Oh, il più gentil fra i Zeffiri,
Erra tra i cedri e i fior,
£ de* ben misti odor
L' ale ti carca;
£ ne profuma 1* aere
Quando s* appressi qui,
Dov*io raaolst un dì.
L'amica barca.
Avvezzi, o bel Posili pò.
Te gli occhi a vagheggiar,
Te cupidi a cercar
Sempre verranno.
£ spesso in parte scorgerti
Da lunge ancor potran:
* Poonot Possono.
DECIMOTTAVO
Ma invan fra poco, invan
Ti cercheranno.
ìi^
Bertela :
CXVL II fiore del prato,
PBa NOZZE DI UN AMICO
È pastorella, h semplice
Nel volto, e più nel core;
£, quella che innamorali.
Come del prato un fiore.
Sta fra l'erbette incognito,
De' pregi suoi contento:
£ s* ha men Sol che scaldilo,
Non ha timor del vento.
Altri d' un bello è cupido
Che sia fior di giardino;
In vasi accolto, è celebre
Per nome oUramariuo
Ma che far mai d' un titolo
Che dal capriccio è nato ?
O quanto è meglio scegliere
Un fior di mezzo il prato!
Sì, le fogliuzzze ha tenui.
Poca fragranza spande;
Ma è delicato, ingenuo.
Se non robusto e grande.
Come l'avea nel nascere,
Ha sempre il suo candore:
£ perchè tutto è candido.
Ami del prato il fiore.
Gli sguardi non solletica
Con variopinta testa;
Ma quel candor soddisfati,
Ma quel candor i' arresta.
Ah , non di tanto strazio
Sarìa cagione amore.
Se ognor le belle fossero
Come del prato un fiore.
Sai ch'egli ancora è suddito
De' fiori al comun fato;
Ma sai eh' è più durevole
De gli altri, il fior del prato.
Non cerca ombra o ricovero;
A sdegno ha la coltura;
¥1 da sé solo vegeta.
Come lo fé natura.
Tal, deh, si serbi Fillide
Nel volto, e più nel core;
£ sempre per te serbisi
Come del prato un fiore.
Striate.
i40
CRESTOMAZIA POETICA
CCXWÌ.L'ineostanxa.
Ve* che freme su per l'onda
I^a più nera traversia;
Che farà la barca mia?
La mia rete che farà?
Disse Cromi, che sedea
Sur un greppo con Nigella:
£ risposegli la bella:
Sei qui meco, e pensi là?
Cromi allora: né a la barca
Né a la rete io penserei,
Se tu fossi come or sei
Sempre tenera con me:
Ma voi, ninfe, al par de l'onda
A cangiarsi usate siete:
Troverommi sènsa rete.
Senza barca, e senza te.
Bertela,
CCXVIII. La malinconia.
Non ha, non ha sul viso
L'asprezza, o la burbanza;
In atto è di sorridere;
£ pinge il suo sorrìso
Le idee de la speranza.
Fisse ha le ciglia; e pare
Che ^1 pianto abbian versato;
Ma già noi versan; simili
Ad aspetto di mare
Quando il turbo é cessato.
Ama i poggi romiti,
£ lo speco odoroso;
Ama le sere tacite:
£ son suoi favoriti
Il silenzio '1 riposo.
Ma quel silenzio dove
Al cor Natura parla;
£ '1 cor risponde, e palpita,
£ gli spontanei move
Sospiri a corteggiarla*
h quel riposo in cui.
Se al sonno s' abbandona,
Certa é d' un sogno placido;
Onde co'pensier sui
Scherza, se non ragiona.
Malinconia! qui sede
Meco perpetua eleggi;
Qnì fonda un regno; dettami,
In premio di mia fede.
Tutte qui le tue leggi.
Ed or che rìede aprile,
Cerchiamo il sen del bosco.
Fra i solinghi ricoveri
So dove é il pia gcatile:
Ogni arbor «e conosco.
Aprii su la Terrore
Voglio che teco asiiflo
Mi trovi. Ah, sonnùuncaroerc
Le cittadine mura;
£ quella, un vero EJdso.
Pur fn le piante e l' erbai
£ntro i patemi lidi.
Te, di pochi delisia,*
Te, al volgo ignota o acerba,
La prima Tolta io vidi»
lo su la destra palma
Il mento e l' una gota
Appoggiava; ne' languidi
Sguardi la suddit* abóna
Del fanciul ti fu nota.
Poi, ne l' età fiorente,
D* indole mansueta
Per te, l' arti m' ornarono;
£ fra l'itala gente
Fui creduto poeta. .
£ a' boschi fei ' ritorae,
Ospiti de la pacei
Cantai de' boschi; ingenuo
Fu il canto e disadorno;
Pur so che piacque e piace.
£ Talma apersi a tanti
Amabili tumulti.
Quanti de l' alba il zefira
Desta fioretti e quanti
Fa tremolar virgulti.
Tu i fantastici oggetti
Moltiplichi, e colori
Di quel dolce patetico.
Per cui piaccion gli affetti
Del cor laceratori.
£ tu Y anima infondi
Ne' sassi e ne le piante;
Per te gl'insetti parianow-
Tu crei novelli modi.
Amabilmente errante.
Un dolce tuo consiglid
Fu che i tesor m' aprio
De' pensieri britannici;
Onde con ierma ciglio
Guardai la morte anch'io»
Tranquillamente fiero»
De le tombe su V orlo*
Esaminai gK schektrs:
Entusiasta pel reiOi
«Feci.
SECOLO
al'ottibreftGorlo!
cor mei posi, e *1 trassi
ttadi meco,
ck'ìo posso perderlo,
leerli mìei passi
agon sempre teco,
tu a consigliarmi
iva. i campi aprici,
il rbchio togliermi
to, e di tant* arti
iasidiatrici.
i udir fammi rivo
rgogli fra sassi?
pioppi che il cingano,
ìuol fuggitivo,
ai frescura, e stassi?
qoaad* espero è fuore,
di selva bruna
ciò, ove penetri
tio il chiarore
orgente luna?
he così t* adoro,
ni si contrasta
in drappei ' festevoli:
far mai di loro?
ico mi basta.
: al tempo il mio nome:
re a più begli estri
le il lauro porgono,
su le mie chiome
ose silvestri,
i genio non mi chiama
ii portenti:
potrei lagnarmene?
)lo di fama
>oi tanti stenti?
rivo, e per me slesso
mio cor 1* immago.
1 per me gli oracoli
co consesso,
nistade appago?
ido nojato o stanco
no tetto arrivo
identi tenebre,
3nia m* è al fianco;
a un verso; io scrivo,
re, o mio ritiro,
pen$ier; costumi
e genti io visito;
ape m' aggiro
tti volumi!
I mia giovanezza
, eh* io sol amo,
lU.
DBCIMOTTAVO
141
Fra voi, fra l'amicisia
Mi trovi la vecchiesza.
Coi non odio e non bramo:
'É fra' campi mi trovi, .
Sempre cultor di schietti
Canti, sempre sensibile,
Quando aprii si rinnovi,
A i boscherecci .oggetti. '
Tu, come dio maggiore
Del genial tempio, e come
Dlspensator d'un nettare
Che spirto inebbria e core,
(Onorate il gran nome)
Tasso, tu meco; e sempre
Con te vegliar mi giova;
In quel tuo dolce pelago
Di patetiche tempre.
Sé stesso il cor ritrova.
Ma in te quanti gran semi
Di divin foco pregni!
Che gelo in me! che spazio
Fra questi punti estremi,
padre de gl'ingegni!
Berloia.
CCXIX. Epigrammi,
Chi più, di lor, potesse,
Tra Fortuna ed Amor contesa nacque.
Nerina il brutal Davo a sposo elesse:
Chi più? dbse Fortuna; e Amor si tacque.
Pasci cupido il guardo in quel bel volto;
Ma in van dal roseo labbro aspetti accenti.
Forse nuda è d'ingegno? Anzi n'hi molto;
Ma vuol vanto di bella, e non ha denti.
perversa e vezzosa,
Non dir che tosto avran tuoi vizii fine.
Specchiali ne la rosa;
Perde prima le foglie, e polle sj^ne.
A Torquato Tasto.
Due chiare itale genti entrano in guerra
Per te già estinto, e ti vuol suo ciascuna:
£ vivo, ignudo errar di terra in terra
Ti vider tutte, e non ti volle alcuna.
Al Colómbo.
Tu scopri un mondo, e il doni al so-
[ gì io ibero;
£ chiudi i tristi giorni in ceppi indegni:
142 CRESTOMAZIA BOETICA
Dà il soo nome al tuo mondo altro nocchie-
[ro:
Questa ban mercede! sovrumani ingegni.
Seriola,
CCXX. FAVOLBTTE.
La Serpe velenosa
Rampogne al Riccio Tea ',
CV altre arme non a\ea
Che una scorza spinosa:
JBen con arme sì frali
Ad assalir tu vali
De gr insetti la plebe,
Cbe striscia fra le glebe;
O meglio ancor fai guerra
A i grappoli vicini,
Fra cui, lordo di terra,
T' avvolgi e ti strascini.
E il Riccio: e pure ho fede
Esser meco cortese
Più cbe con te natura.
Tanto solo mi diede
Cbe basti a le difese:
Dolce vita e sicura:
Cbè altrui timor non movo,-
D'altrui timor non provo.
Ne la lingua cb' Esopo
Primo intese fra noi,
Così parlava un topo
A due de* figli suoi:
Del nemico al ritratto
Mente, o figli, ponete;
E a fuggirlo apprendete.
Un mostro orrendo e il gatlo:
Occhi cbe gìttan foco;
Eternamente ingorda
fiocca, di sangue lorda;
A' pie, feroci artigli:
Ecco il ritratto, o figli:
A fuggirlo apprendete.
La coppia fanciullesca
Cerca fortuna ed esca.
Un di, mentre a l'amore
Fea con un caciofiore,
A un tratto ne la stanza
Vispo gattin s'avanza.
Buffoneggiando va,
Corre qua, corre là,
•Salta, volteggia; e ogni atto
È un vezzo, è un giocolino.
Non è già questo un gatto,
' Face
Van dicendo coloro,
Intenti a' fatti loro.
Ma l'amabil micino
D'improvviso si slancia.
Uno afferrò a la pant'.ia
Colle zampe scherzose;
E r altro in fuga pose:
li qual per la paura
Si chiuse in buca oscura;
E prima cbe morisse:
Padre, di fame io pero;
O padre, tra se disse,
Tu non dicesti il vero.
Mal prendi al colorire
Deforme il vizio ognora:
Mostra cbe sa vestire
Ridenti forme ancora.
Una sera al focolare
Sì sedean Dori Ilo e Nina:
Ei dicea: veder regina
Ti vorrei di terra e mar:
Di superbe vesti adorna,
E di gemme preziose.
Ma perchè, Nina rispose,
L' impossibile bramar ?
Se formar desiri godi,
Brama il prato ognor più erboso,
Brama il gregge numeroso;
Quello alfin che aver si può.
A cbe prò? l'altro rispose:
Se provai finor, bramando,
Che il piacer vieii meno, quando
L'alma ottien quel che bramò?
In erma piaggia solo,
Di canti un rosignuolo
Empieva l'acr bruno,
Non udito da alcuno:
Se non che ì vanni foschi
Movea per quel contorno
Gufo; elle disse un giorno
Al musico de' boschi:
Perchè cantar così
L'intera notte e il dì,
Quando per darti lode,
Nessun qui passa e t' ode?
Quello non gli rispose:
Ma da le armoniose
Note che pur sciogliea,
Dolcemente parea
Questa sentenza espressa:
Yirlù premio è a sé stesssa.
SVXOLO DI CINOTTAVO
143
i zefirelto lic^e
ai r agili penne,
fior, clw parea Bete,
eggiar sen f enne,
d moUemente
;lia compiacente;
, -sei ripiegarsi,
be goda incontrarsi
ato dolce dolc&
ento che la molce.
to a poro a poco
•e Tamabil gioco:
ro s* avanza
orza, con baldanza;
! far distaccate
ambo ad una ad una
glie delicate.
ent«» intanto? il vento,
ndo altra fortuna,
spiegò pel prato,
efìro spietato!
miglia al zefiretto
cer scd ultore:
innocente petto
magine è del fio^e.
raresi gioghi a V officina
stre scultor tratta una pietra,
pietre che giacean qui' sparte
terrogata: a che, sorella,
Ipina patria hai tu lasciata?
io son venuta a farmi bella,
ir r immago [so,
me di un ero^: negletto mas-
a sepolta in ermo loco;
tra poio
atta m' ha fuor, dl^semi il vero)
aurata o in ricco tempio altero.
1 tuo desio; ti si prepara
n, riprescr Taltn; allora:
jardar non dèi * le statue sole^
, come noi, pietre deformi:
a qua, sorella,
ferri, e là martelli enormi,
ne di un eroe pria che V im-
liveuire, [ mago
y\i e percosse hai da soffrire!
uoi saper che sei tu? disse
Capriccio 'un giorno Amore:
sempre; e ne l'errore
[ inulil libertà,
n leggier desio ti guida,
Che n' ha mille in $è raccolti.
Che si slancia a quanti volti
Gli presentano beltà.
Vola intorno il tuo diletto;
Ma non entra in mezzo al core»
Ne sa mai di quei licore
Che si chiama voluttà.
Non conosci tenerezza,
Non raffini il sentimento;
Forse privo di tormento,
Senza aver felicità.
Vuoi saper che sei tu, Amore?
Il Capriccio gli rispose:
Tu di lunghe idee nojose
Malinconico inventor.
La tua brama ti dà pena;
Soddisfatta, te 1' accresce:
£ indistinto in te si mesce
Il contento coi dolor.
£ d'un folle non è questo
Il carattere più espresso?
Forse sono un folle io' stesso; .
Ma di noi chi folle è più?
Vario è il corso d'ogni cosa,*
Vario ancora è il genio mio:
10 più godo. E non son io
Folle men che non sei tu?
Sì, rispose Amor, tu passi
Più di me giorni ridenti,
Perchè poco o nulla senti:
Sempre al volgo avvien così .
Ah, S(m l'anime gentili
Nate al duol: ma quando viene
11 momento del lor bene,
Val per mille de' tuoi dì.
Era il verno; e fean ^ gli augelli
Essi ancor conversazione:
Giovin, vecchi, brutti, belli,
D' ogni pelo e condizione»
Dopo il lieto desinare
Divertivansi a ciarlare.
Una lodola, famosa
Per tragitti in lido estrano.
Era sempre la vogliosa
Di tener le carte in mano.
Or narrava aver veduto
Animai ^ di forme rare;
Ur, fra i turbini perduto
Un naviglio in alto mare:
Cose belle; ma tal gente.
Ne la storia poco esperta,
S' annoiava fieramente.
' Facevano. ° Ammali.
144
CRESTOMAZIA POETIGA
Per più giorni fa soffcrUs
Indi alcun par che borbotti ;
Sopra tatti i passerotti.
Un de'qoai, più petulante,
Disse altau: cne? un verno intero
Sopportar qaesta seccante?
Non fia vero, non fia veros
Eh si cacci, eh vada altrove
A spacciar quelle sue nuove.
£ accettato il suo consiglio,
£ la lodola ha V esigilo.
Vuoi tu agli uomini piacere?
Parla a ognun del suo mestiere.
VCCElll
Pesci, o pesci, felici
Più di noi quanto siete!
Se vengono nemici
O con amo, o con rete,
Tosto giù nel profondo
Correr v' è dato. In fondo
ì)t\ mar, de' fiumi e chi
Mai d* assalirvi ardì?
PESCI
Augelli, augelli, voi
Felici più di noi!
Che a ritrovar lo scampo,
Libero avete il campo;
£ gir v' è dato Innge
Ove fucil non giunge.
Presso a le nubi e chi
Mai d* assalirvi ardì?
UCCELLI
Ma quale aere a parte,
O quale erma campagna.
Dal rischio ci disparte
De i' aquila grifagna?
PESCI
E noi chi salvi tiene
Da le immense balene,
£ da gli altri pirati
Pesci, disumanati?
Non ti lagnar de' mali;
Non creder soli i tuoi:
Ognuno de' mortali
Ha da soffrire i suoi.
Fra' sommi augelli accolto
Era un augel civile:
£ con benigno volto
V aquila signorile,
li falco e gli altri grandi
Lo volevano a' prandi,
A k feste, a le cene;
Non si godea d' un bene
A cui r Augello amato
Non venisse chiamato.
Curioso a vedere
Era un furor di gare:
Che ognun seco tenere
Volealo a pernottare.
Festevole, giocondo
Di molto era e facondo;
E i grandi insieme uniti
Tcnea ben divertiti.
Abitator di un lido
Remoto ei si dicea;
Ma fatto sta che nido
11 miser non avea;
Né farsen un poteri.
Sentia qualche vergogna
A dir la sua bisogna;
Altin tra sé discorre.*
Eh, son questi i momenti
Onde frutto raccòrre
Da amici sì potenti.
Col suo narrar faceto,
Un dì, dopo aver messo
fn umor assai lieto
Tuttala compagnia.
Parlar, disse, è permesso
De la persona mia?
Nulla celar più vo':
Stanza ove prender possa
Sappiate eh' io non ho;
Né trovarne ho speranza
Or che il verno s' avanza»
Di fabbricarla io stesso.
Ho invan brama nutrito;
Invan tantalio , e spesso:
Ne le gambe ferito,
Sono di forze privo;
Ed è mirabil cosa
Se dopo il colpo io vivo.
Questa che tra voi meno
Vita, è ben dilettosa;
Ma potria venir meno.
Di tanti augei magnati
Alcun può facilmente
Un de' nidi più usati
Cedere all' indigente.
Ognuno a lui sorrise,
E monti e mar promise.
Ma da quel giorno innanzi
Alcun più non gli fea .
Invito a cene o a pranzi;
E quando lo vedea,
Servo a vossignoria,
SECOLO DECIMOTTAVO
143
:ea da lunge, e yia.
ispro ver ti si svela,
loi da gli uomini- ajulo?
uo bisogno cela:
il mostri, sei perduto.
Bertola.
\. Conchiglie^ pescied ossa
fossili.
\t ami più de l' eritrea marina
ite Gonchiglie, inclita Ninfa,
vivi color, di quante forme
fi il bruno pescator da Tonda!
ira forse le spruzzò de' misti
e godè talora andar torcendo
rosata man lor cave spire.
] collo tuo le perle in seno
verginella; a 1* altra il labbro,
anguigna porpora ministro,
e; di questa la rugosa scorza
:on l'or su la bilancia, evinse;
i fér * (ma invan dimandi come)
e nido ingrembo al sasso. A quelle
lea del mar d' incognite parole
Col verde pian 1* attrice terra apparve:
Conobbe Abldo il Bosforo; ebbe nOme
Adria ed Eusin. Da l'elemento usato
Deluso il pesce, e sotto l'alta arena
Sepolto, in pietra rigida si strinse:
Vedi che la sua preda ancora addenta.
Queste scaglie incorrotte, e queste forme
Ignote al nuovo mar, manda dal fiolca
L' alma del tuo Pompei patria Verona.
Son queste l' ossa cne lasciar sul margo
Del palustre Tesin, da 1' Alpe intatta
Dietro a la rabbia punica discese.
Le immani afriche belve? o da quest' os*
Già rivestite del rigor di sasso, [ sa.
Ebbe lor pie non asp(>ttato inciampo?
Che qui già forse italici elefanti
Pascea la piaggia; e Roma ancor non era;
Né lidi a lidi avea imprecato, ed armi
Contrarie ad armi la deserta Dido.
Mascheroni, tuvito a Lesbia Cidonia*
ce XXII. Orto botanico.
Andiamo, Lesbia: pullular vedrai
Entro tepide celle erbe salubri,
l'eburneo dorso? E chi di righe, Dono di navi peregrine: stanno
itervalli, sul forbito scudo Le prede di più eli mi in pochi solchi.
1' arcana musica? Da un lato Aspettan te, chiara bellezza , i fiori
e ferrigne giaccion molte : e grave De T Indo: avide al sen tuo voleranno
nane peso, assai rosa da 1' onde, Le morbide fragranze americane,
ica di Triton buccina tace. Argomento di studio e di diletto.
)adun tempo è pesce ed e macigno, Come verdeggia il zucchero tu vedi,
I è qual più la vuoi; chiocciola o sei- A canna arcade simile; qual pende
C ce. 11 legume d' Aleppo dal suo ramo,
npo già fu che le profonde valli A coronar le mense util bevanda;
ibifero dorso d' Apennino, Qual sorga l'ananas; come la palma
nOki salsi flutti; pria che il cervo Incurvi, premio al vincitor, la fronda,
està scorresse, e pria che l' uomo Ah non sia chi la man ponga a la scorza
gran madre antica alzasse il capo. De 1' albero fallace avvelenato,
rica allor su le pendici alpine Se non vuol eh' aspre doglie a lui prepari,
irmorea locò famiglia immensa: Rossa di larghi margini, la pelle,
tilo contorto a l' aure amiche Questa, pudica, da le dita fugge;
a vela, equilibrò la conca; La solcata mammella arma di spino
ico poscia al minacciar, raccolti [bo. Il barbarico cacto; al Sol si gira'
ilil remi, e chiuso al nicchio in grem- Clizia amorosa. Sopra lor trasvola
t il mar: scola al nocchier futuro. L'ape ministra de V aereo mele:
>va intanto di sue vote spoglie. Dal calice succhiata in ceppistretta
;i de la morte, il fianco al monte. La mos<*a,in seno al fior trova la tomba.
10 da lungi preparato e ascosto Qui pure il sonno con pigre ali , molle
rtal guardo da V eterne stelle, Da 1' erbe lasse conosciuto dio
vvennedeslin. Lasciò d' Aliante S'aggira; e at giunger d'Esperò rinchiude
Tauro le spalle, e in minor regno Con la man friesca le stillanti bocce,
Che aprirà ristorate il bel mattino.
£ chi potesse udir de' verdi raxn.1
isse il mar le sue procelle e l'ire:
cero.
.''OPARDi, Crestomazia, II.
146 CRESTOMAZIA POETICA
Le segrete parole allor che i furti Di quai lagrime amare il petto inondo
Dolci fa il vento, su gli aperti fiori* I^el veder eh' oggi ìnoDorata resti!
De gli odorati semi, e in giro porta Prezioso diaspro, agata ed oro
La speme de la prole a cento fronde ; Foran debito fregio, e appena degno
Come al marito suo parria gemente Di livestir sì nobile tesoro.
L* avida pianta susurrar! Che nozze Ma no: tomba fregiar d' uom eh* ebbe
Uan pur le piante: e Zefiro leggiero, [ regno
Discorritor de V indiche pendici, Vuoisi, e por gemme ove disdice alloro;
A quei fecondi amor plaude aleggiando. Qui basta il nome di quel divo ingegno.
Erba gentil (ne v* e sospir dì vento) Al/ieri.
Vedi inquieta tremolar su! gambo.
Non vive? e non dirai ch'ella pur senta? CCXXV. Partendo dùlV Italia.
Bicerca forse il patrio margo e '1 rio;
£ duolsi d' abbracciar con le radici Italia, o tu che nulla in te comprendi
Estranea terra, sotto stelle ignote; Di grande ornai, che 1* aurea tua favella,
E in-europea prigion beverc a stento E la donna che a me fra tutte è bella,
Brevi del Sol^ per lo spiraglio, i rai. [mi Ch'or rattener contro sua voglia imprendi;
£ ancor chi sa che in suo linguaggio i ger- Verrà quel dì ch'io 'Iduro fallo ammendi
Compagni, di quell' ora non avvisi Itria, D' esser libero figlio a madre ancella,
Che il Sol, da noi fuggendo, a la lor pa- Col non ripor mai piede entro tua fella
A la Spagna novella il giorno porta? Terra, ove il varco a virtù sol contadi?
Mascheroni, Invito a Lesbia Cidonia. Rapido vento orleutal m' invola
Già da la vista di tua infausta*riva; [la.
CCXXIII. Sopra gì' invidiosi. Ma il cor, l'alma, il pensiero indietro vo-
Fatal contrasto in cui forsaè eh' io viva!
O gran padre Alighicr,se dal ciel miri 1' amata mia donna lasciar sob,
Me, tuo disccpol non indegno, starmi, O rivederla ove di pace è priva.
Dal cor traendo profondi sospiri, Jljlert.
Prostrato innanzi a' tuoi funerei marmi;
Piacciati, òthy propizio a i be" desiri, CCXXVI. Ritornando VultimavoUa
D'un saggio di tua luce illuminarmi. in Italia.
Uom che a primiera eterna gloria aspiri.
Contro invidia e viltà dò' ^ stringer Par- Per la decima volta or l'Alpiìo varco:
[ mi? E il ciel , deh, voglia eh' ella sia l' estrema:
Figlio, i' le strinsi : cassai men duol: L'italo suol queste ossa mie, deh, prema;
[ch'io diedi Poiché già inchina del mio viver l'arco.
Nome in tal guisa a gente tanto bassa. Di giovanile insofferenza carco,
Da non pur calpestarsi co' miei piedi. Quando la'mente più di senno è scema,
Se in me fidi, il tuo sguardo a che si lo di bìasmarli, Italia, assunsi il tema,
[ abbassa? Ne d'aspre vcritadi a te fui parco.
Va, tuona, vinci: e, 'se fra' pie ti vedi Doma or da lunga esperienza, e mite
Costor; senza mirar, sovr' essi passa. Da i maestri anni, a i peregrini guai
Aljkri. Prepongo i guai de le contrade avite.
Meco è colei eh' oguor seguendo andai.
CCXXK.^fZa camera del Petrarca. Sol, che sian pari le due nostre vile
Chieggioti, Apollo, s' io fui tuo pur mai.
cameretta, che già in te chiudesti Alfieri.
Quel grande, a la cui fama angusto è il
[ mondo, CCXXVII. Viaggiando per luoghi
Quel SI gentil d'amor mastro profondo, corsipochi innanzi dalla sua don-
Per cui Laura ebbe in terra onor celesti; na.
O di pensif r soavemente mesti
Solitario ricovero giocondo; Per questi monti stessi, or son due lane,
'JScJ, BclU, » Dee. Deve. Passava il raggio, la cui striscia aurata
SKCOLO DECIMOTTAVO Hi
egiiendo; e fea ' di se beata
ispra terra da le selve brune. CCXXX. La vita umana,
i via sol mi accade aver cornane
, ma il tetto spesso; e m' è toccata Sperar, temere, rimembrar, dolersi;
talor sua coltre arventurata, Sempre bramar, non appagarsi mai;
r me non andò di baci immune. Dietro al ben falso sospirare assai,
dico, rio cammin noja le dava: Né il ver (che ognun V ha in se) giammai
scogli quel lago un piacer muto , [ godersi;
ave trblezza, le arrecava. Spesso da più, talor da men tenersi;
i* atterriva questo bosco irsuto: Né appien conoscer sé, che in braccio a*
li te fors* anco sospirava. E, gì unto a l'orlo del sepolcro omai, [guai;
lien pago in lagrime tributo. De la mal spesa vita ravvedersi:
Aljicrì. 'l'ai, credo, è l'uomo,- o tale almen son io:
Benché il core in ricchezEe, o in vili onori,
XVIII. Sopra la tua donna, Non ponga; e gloria e a more a me sien Dio..
L' un mi fa di me stesso viver fuori,
lido cor, che in sul bel labro stai De P altra in me ritrammi ' il bel desio:
llaschietta^cheilmiotuttoiochia- Nulla ho d'ambi finor, che i lor furori.
^Cmo; MJÌeri.
più sempre che me slesso io T amo,
m'iucendi che i suoi negri rai. CGXXXI. La malinconia,
di beltà, chi di lusinghe, e assai
on d* arti e di menzogne a l'amo: Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
; che, in prova, libertà non bramo; Al mar, là dove il tosco fiume ha foce,
no è il nono de' miei lacci omai. Con Fido, il mio destrier, pian pian men
dirmi ognor soavemente il vero, [ giva:
che spiaccia; ed a vicenda, un breve £ muggian l'onde irate, in suon feroce.
I in udirlo, indi un perdon sincero; Quell' ermo lido, e il gran fragor , mi
profondo sentire in sermon lieve; [empiva
lezzo del mondo animo intero: 11 ruor(cuifiammainestinguibil cuoce)
tgi;a cui servir, non fiamai greve. D' alta malinconia, ma grata, e priva
Àljieri, I^i quél suo pianger,che pur tanto nuoce.
Dolce oblio di mie pene e di me stesso
CIX. Effetti nobili dell'amore] Ne la pacata fantasia piovea:
ben collocato. £> senza affanno, sospirava io spesso.
Quella ch'io sempre bramo, anco parca
ta è la forza dì ben posto amore, Cavalcando venirne a me dappresso:
co in contrarie barbare vicende Nullo error mai felice al par mi fea.
rò mai 1' uom disprcgevoi rende. Alfieri.
li allarga e vie più inalza il core.
h' io son fatto albergo di dolore, CCXXXII. La libertà-
) fin dove il gran poter si estende
, che a cor gentil tanto siapprende. Neri panni, che sete a ognor di lutto,
regna egli, virtù mai non muore. O veroo finto, appg^ ogni altro insegna;
donna mia, mi narri in quelle note lo per sempre vi a*ssumo , oggi che degna
li di lontananza il duol mi tempri, Libertà vera ho compra al fin del tutto,
ni dì la pietade in te più puole; Botti ho i ceppi in cui nacqui: a ciglio
me pur vien » che il pianto altrui ^ ^ [ asciutto
[ mi stempri Gli agi paterni dono, e in un la indegna
e, in guise a me pria d'ora ignote: Lor servitù, che a star tremante insegna
n, che i mali nostri omai contem- E a non cor mai d'altointelletto il fruito.
[ pri. L'ostro, l'infamia, i falsi onori, e l'oro
* ^ Alfieri, Abbian quei tanti in cui viltade è innata,
ccv«. • Avviene. * Mi ritrae. • Siete,
448
CRESTOMAZIA POEUCA
Pregio, il servire; il non pensar, decoro.
lo, per me, sorte estimo assai beata,
Non conoscer ne ambire altro tesoro.
Che fama eterna col sudor roercata.
Alfieri.
CCXXXIU. Sopra i proprii serUti.
Io '1 giurerò morendo; unica norma
Sempre <^ser stato il core alcompor mio,
Cui mai servii menzogna non deforma,
!Nè doppio scopo, o pueril desio.
Rapida innanzi passami la torma
De* molti scritti; in cui sbagliai fors'io;
Ma da ignoranza il loro errar s'informa,
Non da malizia: e testimon n' è Iddio. ^
Muto e sepolto il mio nome si giaccia,
Pria di quest'ossa annichilato, in tomba;
S*ìo non cercai del vero ognor la traccia.
Cigno, non Toso io dir, bensì colomba
Dovrà nomarmi, ove di me non taccia ,
Quella ch'eterna Tuom coll'aurea tromba.
Alfieri.
23. Le moiche e V api,
FAVOLlSTTA ALLEGORICA
(1789)
D'api un libero sciame
Industriosa e lieto
Se ne vivea felice :
Stuol di mosche inquieto
A cui la fame — anco l'invidia accrebbe^
Un suo mascott per capo eletto s'ebbe ;
E l'una sì gli dice :
— Noi siam pur tante !
L'api pochissime.
Ciò non ostante
Son potentissime.
Esca abbondante,
Secaro tetto,
l'ace e diletto....
£ che non hanno
Quelle iniqubsime?
E il tutto fanno
Rette a repubblica. ]
£ noi chi siamo ?
Noi pur vogliamo
Libertà pubblica. —
£ra il moscone
Un vero omone.
Saggio, prudente,
E deir api sapiente.
Onde a quel dir« oppone
11 ragionar seguente :
— Care mie figlie, è facile
11 chiacchierar ; ma il fare
Dà un pò 'più da studiare.
L' api son insettoni.
Aspre di pungiglioni,
Che le fan rispettare.
Ma noi di tempra gr&cile.
Che faremmo in battaglia,
Se un soffio ci sparpaglia?
Le pure api si pascono
Dittamo erbette e rose:
E in noi sempre rinascono
Mille voglie golose.
^ La libertà di svolazzar qua e là,
Col periglio temprata
pi una qualche ceffata,
Sia dunque ognor h nostra :
Ne questa a noi giammai tolta verrà
Se il senno il ver dimostra. —
Così il dotto moscon , lor viste (osa
Rai luminando, apria
Che non potria—mai farsi un PopOL MO
[SCB8
Alfieri.
PRIMA METÀ
DEL
SECOLO DECIMONONO
XX^CXIV. Al geniit.
o scintilla de Teterno lume,
in. Tu poiché uri'alma accendi,
tossa la informi! e4}ual la rendi,
»ra per poco non rassembra un
[ nume!
pupilla di si forte acume,
nétri ove lo sguardo intendi;
ngon tuo voi, se U volo estendi,
velocissima le piume,
le obbietti svariati e sparti
mponi, e d' un mille ne crei,
mille diffuso e mille parti,
reato ideal mondo ricrei;
ppi natura; e tue son V arti
3 i mortali d'emulargli Dei.
Mazza.
^XXV, Soprala musica
e i musici antichi,
)ei giorni de la eulta Atene,
le le belle alme ornamento;
7Ìrtù col tragico lamento
echeggiava e da le scene,
ivi padri a le prodotte cene
decoro il dorico* stromeoto
àn cor periglio era e tormento:
IO apparir d' empie sirene,
lomini'i cantor sacro, eda*numi
irgive discorrea contrade,
;i custode e de'costumi:
deggiavan di popolo le strade,
i fatte di letizia fiumi,
giorni! ahi tralignala etide!
Mazza,
tXVI. V opera in musica,
al mai s'apre d'improvvisa scena
tro, che l' orecchio e il guardo
1* assale e mi lusinga! È questo,
' inganno, il travaglioso aringo
r arti emulatrici. Or fanno
Qui vaga pompa di gentil contesa;
Ori' una a l' altra qui s'abbraccia e fona
Presta e riceve, ed il piacer ricresce,
Raddoppiando l'incanto. Al cicl là spazia
Sublime reggia; e là s'incurva; e posa
Su marmoree colpnne il facil arco:
Quella è del mar ronda,che spumaebolle;
£ questa, ingombra di squallente musco,
È d'Averno la via. Qual fammi invito
Romor concorde di discordi voci,
E a qual l'alma s'atteggia atroce imago!
Che sento; oimè! Freme la pugna; ascolto;
Anzi m'aggiro tra il rimbalzo e l'urto
De'spessi dardi e de'pcrcossi acciari:
Odo le voci languide di morte,
Miste a le grida che vittoria innalza.
Ah! mugge il mar,l'etra sfavilla e tuona;
Ratta scende la folgore, e fa scoppio.
E, fra l'orror de la tempesta, il core
Mi compungon de'naufraghi i singulti .
Ma te, te ben ravviso; oimè, ti duoli
Del trojano infedel, misera Dido.
Tero mi dolgo, generosa Alceste:
Va, ch'io ti seguo pe'l cammin de l'ombre.
Me pur tra l'ombre stesse avrai compagno,
Sventurato cantor, vedovo sposo,
Oagrio garzon. Elisia chiostra,
Soggiorno di piacer, campo di pace ,
Quanto se'bella! Mormorate, o fonti;
E bisbigliate pur, garrule aurette:
E per le nari cupido l'olezzo
Suggo de'vostri graziosi fiori,
E del vostro seren conforto i lumi.
Torna, amata Euridice, al palpitante
Sen de lo sposo, che varcar poteo,
Solo per te riaver, la pallid'onda
Che ritorno non ha. Furie, tacete ^
Torna Euridice. Tal dolce me prende
Di me medesmo obblio; tal mi ricerca
Tutta la facil anima, vittrice
Forza di note lìdie, erranti in mille
Giri di melodia, cui spinge e frena,
E in sè'Stesse ripiega, aggruppa e snoda
La voce penetrabile e soave.
Mazza,
450
CRESTOMAZIA POETICA
CCXXXVII. A Giovanni Ansani
cantore ed attore illustre.
Odio i Lassi concenti
Di citarista indegno
Uso a far coi potenti
Vii traffico d'ingegno,
£ ii delitto e la frode
Avvolti in bisso e in porpora
A coronar di lode.
Degno è Nas&n che accolgal o
Del freddo Istro la foce,
Quando a colui querelasi
Che il Perugin feroce
Spinse a Torribil fame,
£ a l'altro ond'è lo scoglio
Tultor di Capri infame.
Cadon, derisi serti,
£ inaridita fronda,
I lauri al lusso offerti.
Ma eterno il cri u circonda,
£ contro gli anni è scudo,
Lauro non compro, e libero
Fregio dì merlo ignudo.
O Ansani, a le non pieganst
Dome proviucie e genti, -
Ne gli atriì tuoi rimbombano
Al fragor di clienti;
E pur ( difficil vanto )
Per te a la parca cetera
Sposai due volte il canto.
Tal da Teleo ronflitto
D*£nessidemo il figlio,
Due volte al corso invitto
£ al pugillar periglio,
Movea al trinacrio tetto
A doppio inno di Pindaro
Invidiato oggetto.
De'prischi eroi le immagini
A suscitar rivolto,
Qual non fosti d'Flacide
L'ira imitando e il volto?
£ chi te non ammira
Sotto il sembiante indomito
Del figlio di Semira ^ ?
Perfida! e che giovolle
Alma oltre il sesso ardita;
Vincer, con l'Indo molle.
Il faretrato Scita;
Se di rimorso atroce
Eterna romoreggìale ♦
Nel vinto cor la voce?
/ Seioiraonde,
Invan le cure a tergere
Da l'empio sen profano
Voluttà veglia, e libale
I don più scelti invano,
Che a lei nutre e colora
Col soggiogato oceano
La tributaria aurora.
Misero il reo se crede
Vita condur serena:
Tardo ha talvolta il piede»
Ma certa è ognor la pena:
Ecco, il feral delitto
Presto a punir, lo squallido
Spettro di re trafitto.
Come diverso il veggono,
Lasso! le regie mura
Dal dì che scese a l'Èrebo
Tradita ombra immatura!
Gli aspidi di Megera
£i scote, e il sen circondane
De l'infedel mogliera.
b^sclania: empia, t'affretta:
Vieni, infallibil preda,
Devota a la venaelta:
Meco scender ti veda
II nero Abisso; e tenti
A nove colpe orribili
Novi eccitar tormenti.
Questo pugnai percossemi.
Da cara man vibrato;
Questo, sacro a le Eumenìdi,
Vindice del mìo fato.
Pena di te più amara
Prendasi, e il sen ti laceri
Spinto da man più cara.
Cerrvtti-
CCXXXVIIl. Sopra la filosofia
morale»
Altri studii, altre cure, altro diletto
Grave filosofia qui al core infonde:
Non quella che, sprezzando umano affetto,
Superbi» il capo oltre le nubi asconde.
Spazii ella pursul ciel; scorga i portenti
Noti d'Etrurìa e d'Albione al saggio;
E il corso agli astri, e a le comete ardenti
Prescriva i moti del fatai viaggio.*
Emulo de gli Dei, Parduo iutelletto
Contempli pur dietro i suoi voli ardito
A l'in fai li bìl calcolo soggetto
L'ampio giro de'mondi e l'infinito.
Ma poi che prò? squarci il suo vcl Ni-
Vincasi deldestin l'ordine immoto; [turai
SKCOLO DKCIMONON'O
451
Modi d*Alcea franco tonai fra imrltelie
Popol di scliiavi.
£ mentre o£Frir godean plebei cantori
A i coronali vìzii aonio serto,
Io le neglette osai cinger di fiori
Are del merlo.
Alii,qual etàlqual PindoIQv'è chiac-
E\icco d^natil lume, in nebbia oscura
Sarò poi sempre, a me medesmo ignoto.
Te dunque seguono Dea,te che comprendi
Tutte de l'uom le passioni ascose,
£ a la patria e a àè stesso utile il rendi
"Ne'varii officii ove la sorte il pose.
Per te, dovuti al Cielo, incensi e voti
Saigon su l*are;earuora Taltr'uomo ècaro: Vanti fra noi di patrio zelo il seno? [ censo
Per te al candido cor son nomi ignoti Chi un Omero oggi imita, ochiPimmenso
Ambiziose voglie o genio avaro: Lume d'Ismeuo?
Quindi è che insulti a l'uccisor di Clito , Che se ,tra il crocidar d'immondi augei ,
Che angusto il mondo finse ale sue brame; Qualche emerge talor voce sublime,
lEi a lui che il mar coperse e ingombrò il Qual obietto, qual segno a dì sì rei
4jrià per la morte di Leandro infame, [lito Scelgoa sue rime?
Intrepida per te mostrasi un'alma Quanti a te giungeran nomi dMngcgni
Al furiar de la contraria sorte.-
Tal lira i ceppi serbar la prima calma
Socrate e Focione, in faccia a morte.
Tu intanto odimi, oDea.Se tuo seguace
Il cammin di virtù correr degg^ io;
Schifo d'adulator suono mendace,
Se aver dee nobil meta il canto mio;
Sien lunghi i giorni miei. 'me d'Egle in seno
D*un bramato imeneo scorgan le faci;
Finche in tremola età venendo meno,
Porgaumi i labbri suoi gli ultimi baci.
Ma, se, a me stesso e a le tue leggi infido.
Dando al sentier de la virtù le spalle,
Levar di me dovessi infame grido
Del vizio sednttor battendo il calle;
se un dì, mia mercè, su le mie soglie
Sparger dovesser mai singulti amari
L^orfano derelitto e Torba moglie.
Dal sen divelti di paterni lari;
Prima sul fato mio pianto immaturo
Versi la madre; e tra profurai eoi
Disponga i membri sovra il rogo oscuro
Del figlio, che dovea comporvi i suoi.
Cerreiti,
CCXXXIX. Alla posterità.
Idolo de gli eroi, terror de gli empi;
Spesso delusa in tanti bronzi e marmi,
Posterità,*' se a te ne'tardi tempi
Giungon mìei carmi.
Odili, ne temer che de'nepoti
Tradisca il voto, o falso a te ragioni:
Che a me deVicchi e de'polenti ignoti
Furono i doni.
Unirò forse, de le ascree sorelle
Infra i seguaci, io libero, ione'gravi
Ammirandi a la plebe, e vili al prode!
£ quanti obblio ne coprirà che degni
£rau di lode!
Cerrctii,
CCXL. Canto nuziale.
Dal sacro orror Pimpleo,
Da le materne selve,
Scendi, Imene Imeneo.
Te d'ogni stirpe chiamano
Speme le madri, e i tremuli
Vecchi con voce fioca;
Te il garzoncello imberbe,
Té ogni donzella invoca.
O di costumi a gli uomini
Dolce maestro ed arbitro.
Dal sacro orror Pimpleo,
Da le materne selve.
Scendi, Imene Imeneo.
Tu a i re sdegnati e a i popoli
Pace ridoni, e candida
Fé di pensier concordi;
Tu in àmistade unisci
Le famiglie discordi:
£ tu soave imperio
Stendi da Paustro a borea.
Dal sacro orror Pimplco,
Da le materne selve,
Scendi, Imene Imeneo.
Per te la zona timide
L'intatte spose sciolgono
A lusinghiero invito;
R cedon, lagri mando,
A cupi'lo marito.
Per te fama non temono
Casti Cupido e Venere.
io2 CRESTOMAZIA rOETlCA
Dai sacro orror Pimpleo, Però qualor so?ra Tiisafo scanno
Da le materne selve, A mensa ì'siedo, uve in un cerchio i figli
Scendi y Imene Imeneo. Chini d'intorno e tacitami stanno;
Scendi, dator benefico Forza è che ne'lor volti io mi consigli.
Di gioja e di dovizia; £ or questo or quel vo'chemi ven^ alialo,
Protettore^ fecondo Qual più a la madre parmi che assomigii.
De le città, de i campi; Pasco alcun poco il ciglio affascinato:
Animator del mondo. Ma la dolce illiision fugge, e m'accorgo
Quale improvviso strepito? ' Che la sposa non è quella ch'io guaio.
Strider su i ferrei cardini Sul desco allora smanioso ì' sorgo.
Odo la porta. £i viene. £ a temprar la bevanda, e condir l'esca,
Sposa, o/e fuggi? ah, semplice, D'amarissimo pianto un fiume sgorgo.
Hon lo ravvisi? è Imene. Timor nuovo ne'figli avvienche cresca;
Invan la chiamo: pavida Tutti tendon le braccia, ognun mi dice :
Corre, e la madre abbraccia; Deh , padre , per pietà, di noi t'incresca.
£ vergognosa e mesta, Orfani de la cara genitrice,
A l'altrui guardo celasi Per noi chi resta? a noi, pensa che or sei
Con la pudica vesta. Tu genitor, tu madre, e tu nutrice.
Deh non temer, non piangere, Si dividon così gli affetti miei:
Bella de l'Adria figlia: Tenerezza, cordoglio; amore e pena;
Quel che da te sen viene, Quello che mi restò, quei che perdei.
È il dio che brami: ah, semplice, Salomone Fiorentino'
Non lo ravvisi? è Imene.
Fantoni, CCXLII. // rimorso della cotcì'ciw**
CCXLl. In morte della sua sposa, M'apparveintruceaspetto,edogm«n>
Il fier rimorso ad agghiacciar si accifise;
Pur quasi serbi ancora e senso e mente, Indi armato d'artigli e di catena,
A lei, che più non m'ode, e muta giace, Senza pietà mi lacerò, m'avvinse.
Talor rivolgo il mio parlar dolente. Quale, oh Dio, mi scoperse orrida soen^.
Ahi sposa, ahi sposa ! un voi d'ombra In quai tetri color la penna tinse
[ fugace Per linearmi in ogni parte scritto
Fu il breve trapaf;sar de'iuoi verdi anni, 11 giudice, la pena, e il mio delitto!
£ un voi fu la mia gioja e la mia pace. Volgea la nottere notte nnqna più voi
Mira del tuo fedel gli acerbi affanni; Di quella non vid'io. Torbidi, inq«ieti
Mira, al tuo dipartir come s'accuora, S'aggiravan fantasmi; e priva eli'era
Vedovo, sconsolato, in negri panni. De'suoi momenti placidi e segretb
Qual resta il fior se una nemica aurora Pareanmi estinti io la stellata sfera
Trattien sul grembo l'umida rugiada, £ gli astri erranti, e i lucidi pianeti:
Che il curvo stelo e l'arse foglie irrora; Tante ombre e tante noje ivano attorno,
Tale io restai poiché l'adunca spada ChealCielchiedea,per respirare,il gi'>ri'<^'
Di Morte a me ti tolse, e lunge spinse £ il dì pur venne: allor su l'universo
Te per ignota interminabil strada. Fosco vedea caliginoso velo,
Ma, come il fato in pria nostre alme Sbiadate l'erbe, ed ogni arbusto aspèrso
[avvinse. Di quel color di cui lo tinge il gelo:
£ poi quaggiù provido amor ci uuio. Pallido, altrove ciascun fior converso,
Sicché due salme in una salma strinse; Da me torceva l'adoggiato stelo:
Scemo de la metà de l'esser mio. Pare» sospiro il moto de le fironde.
Or cerco te, come assetata cerva Flebil laménto il mormorar de l'onde.
Ne l'ardente stagion ricerca il rio. Forse rosi, seguito il reo consiglio,
Così parlo e vaneggio: e benché i' ferva L'Eden comparve al genitore antico.
D'un insano desir, tanto è l'inganno, Invan spirava odor la rosa e il giglio»
Che ragion signoreggia, e vuol che serva . £ il lusingava invano il rezzo amico;
SECOLO DEGIMOiNONO 455
ae egli temea danno o periglio , Superbì, fra le gemme e gli agi avvolfo;
indo il suo crudel nemico; Languiron gli altri, e nome ebber di plebe,
ribil saoD Torecchie ingombre, -Dannati a incìder tronchi,e a fendergiebe.
remante a rirovrai fra l'ombre. S arsero allora le ciitadi eccelse,
Salomone Fiorentino, Di torri incoronate e d'ardue mara ;
L'olmo, il faggio, l'abete, il pin si svelse,
IXLUl. V Innocenza. E fidossi il naviglio a l'onda oscura;
Da i trucidati greggi allor si scelse
nza sonalo, che il basso mondo, L'esca, il vin si prepose a l'acqua pura ;
0, fei ' di mia presenza degno , Allor temprossi il ferro, che al desio
) temprai con fren giocondo. Servir fu astretto di un metal più rio.
e duce del saturnio regno ; Su i vanni allora, più che in pria ve^
icor non gemea la terra al pondo [ loci ,
che a mal far poser Tiugegno, Esultò quella che a null'uom perdona,
de'pensieri avari e rei Traendo seco da le stigìe foci
berbe ascondean gli antri dittei. Nuova di febbri e di dolor corona.
>er le odorifere colline, Di brando armati, su i cursier feroci,
in valle di begli arbor cinta, Nomi ignoti, apparir Marte e Bellona :
:tti da legge o da confine, Venian con essi a desolar la terra [ ra.
omini avean sede indistinta: (Ahi fiera compagnia) Discordia e Guer-
: le fonti cristalline Violenze, rapine, odii, omicidi,
;>, e l'onde fean a la sete estinta: •'^cque di occulto tosco infette e torbe,
tessa pianta erano a tutti Insidie, fraudi, e giuramenti infidi,
ide,ombrairami,epascoifrutti. Come torrente dilagarnn l'orbe ;
iondi fanciulli il vergin stuolo Assordarono il ciel d'urli e di stridi
ra pei clivi a sceglier fiori, Orfani parvoletti, e vedove orbe ;
inli, per l'erboso suolo E di pianto, e di sangue, oscuro nembo
in danza,alsuond'augci canori. Contaminò de le cittadi il grembo,
le di duo cor Tea sempre un solo^ ^^ prima solo infra le urbane torme
gjoventute in casti amori; Andòoaccando la Licenzia iniqua,
cchiezza il gel de gli anni sui E invan trar seco de i pastori l'orme
al foco de le gioje altrui. Argomeotossi, per la strada obbliqua:
me talor sotto V impero Ne i campi ancora, ov'era gita a porrne ',
desmo pastor caste agnelletle , Dileguò infine l'onestate antiqua ;
cer mai pie dal buon sentiero , Né più vidi, fra quante il Sol ne scalda ,
; turbe al mio voler suggctte : Terra in vera virtù fondata e salda,
giro di lor vita intero Or, dacché nulla in questa bassa valle
pre ; elle ognor da me dilette , Ove accor mi potessi ostel non v'ebbe
■ liete, e al trapassar sicure, ( Taut'oltre scorso per P indegno calle
chermo del sentirsi pure. Fu il moudo, e tanto l'empietà s' accrcb-
ui,più che il Sol chiari e lucenti. Che ),
arse di nebbia e di tenèbre? A l' ingrato morule i' die' « le spalle;
videndo a le beate genti, E lungo fora a dir quanto m' imcrebbe;
ti penetrò T ime latebre, E vergognando, e chiusa nel mio velo,
r oro, e il fé co' lampi ardenti II cammin disegnai prender del cielo,
su le allonlle palpebre: Teneri infanti, e verginelle intatte,
tal ! l' inusitato obbietto Non anco esperti di malizia a i danni,
a abbagliò, scosse ogni petto. Con pie mai fermo e con voce di latte
A allora la volubil destra Vennermi un tratto , vezzeggiando , a i
►, e il vago crine a l'àure sciolto, ^ ^ [ paoni :
•tuna a la magion terreslra ; Ma in mezzo del sentier volgeano ratte
dutolla il mondo stolto ; Le piante, vinti da i terrestri inganni;
mto qnal l'ebbe amica e destra , E spogliati i costami almi e leggiadri,
B Faceaoo. x Pormi* 'Diedi,
154 CUESTOMAZIA POi:TIC\
Si rag{;iiingean coi traviati padri K di pianti e vagiti a mille a mille
Sola così, studiando il passo, e insieme AJi pcrcosser ^orecchia impietosita,
Scontrar bramosa al diiiartire inciampi, Pei campi, e per gli spocchialsole ignoti,
Non ascoltata, le parole estreme [campi; GÌ* infermi figli, e i mal cresciuti Eloti.
Lamberti» Popolazioae di Sanloleuc«.
CCLIV. Il cannocchiaU
della Speranza.
Dissi , fra il pianto , a le cìttadi e a i
Poi spinsi il volo per le vie supreme,
£ mi purgai del maggior lume ai lampi;
Lieta beend()^la purissim'aura,
Cui lo splendor di tanti Soli inaura.
Ma come io mossi a la più larga spera, Un giorno la Speranza
Pel lucido scntier m'occorser donne Per ciaschedun mortale
Che, insieme ragionando, ivano a schiera Fece un bel cannocchiale.
Avvolle in bianche e luminose gonne. Questo, come è d'usanza,
Eran Virtudi, che a stagion men nera I^a Tun de' lati suoi
Del buon viver quaggiù furon ctdonne; Ingrandisce l'oggetto oltremisura;
Ma, poiché il mondo reo lor ruppe lede, Da l'altro lato poi
Tornavansi a l'antica alma lor sede. Mostra piccola e lungi ogni figura.
E ben ratto di me s' addieron ' elle, Se l'uomdal primo lato il guardo gir*,
E n<» gioirò, e mi fér a cerchio intorno: ^l hen futuro mira;
Quindi, scorse le fisse e vaghe stelle
Che del ciel fanno lo zaffiro adorno,
Tutte per mano a le superne e belle
Sedi varcammo, ov'è perpetuo il giorno ,
E dove l'anno i mesi non alterna,
Ma olezza e ride in primavera eterna.
Ivi, raccolte ne' bei troni d'oro
Che al trono di Saturno fan ghirlanda.
De la vita immortai dolce ristoro
Ne si porgea di nettare bevanda ;
E il canto ci godeam che il vergin coro
De le figlie di Giove attorno manda.
Mentre loro, deposto arco e faretra,
l'enor fa Cinzio con l'arguta cetra.
E già scorsa era il tremillesim'anno
Da poi ch'io di quaggiù diedi la volta;
Né m'era dal giocondo alto mio scanno
A questo secol guasto unquapiù volta;
Quando, con l'altre Dee che meco stanno,
Tornai quaggiuso una seconda volta;
E posto il piede fra la gente achiva.
Locai mio seggio de l' Èurota in riva.
Ivi ad un'alma di ben fare accensa
Mi strinsi ; e mi godei nel fausto clima,
Or, fra i consigli oe la parca .mensa,
Onor locando a tulle voglie in cima ;
Ora partendo con egnal dispensa
I campi, e i doni de la terra opima;
Or traendo a lottar la gioventude
Sol coverta col vel de la virtude.
Breve però fu ne l'ebalie ville
Mìa stanza, e presto mossi a la partita:
Ch' ivi ancor le guerriere empie faville
Turbarci! l'ore di si dolce vita;
'^Fvidero* ^ Fecero.
Guarda da l'altro lato,
E vede il ben passato.
Fiacchi.
CCXLV. Favole tarib.
In ameno bosco ombroso
Quando aprii riveste il suolo,
Dimorava un amoroso
Soavissimo usignuolo.
Qui spiegando i suoi concenti
In dolcissima maniera,
Ne arricchiva i ipolli venti
De la bella primavera.
O sorgesse il Sol da l'onda,
la notte in bruno ammanto;
Ogni colle ed ogni sponda
Echeggiava al suo bel canto.
Ne la stessa piaggia aprica
Slava arguta rondinella.
Che, ai narrar di fama antica,
L'usignuolo ha per sorella.
Essa, udendo l'armonia
Dal suo rustico ricetto,
L'ammirava: e ne sentia
Un dolcissimo diletto.
Venti volte in oriente
Avea il Sol portato il j^iorno,
Quando udì ( he men frequente
Risonava il canto intorno:
Anzi udillo sì dimesso,
E ristretto a si poch'ore.
Che parca non de l' istesso
Ammirabile cantore.
Onde là rivolse il volo
SECOLO DECIMOiNONO
155
Ofe il caro albergo avea
11 già tacito usignuolo;
£d a lui così dicea:
O mio caro, e perhè mai
La tua voce or non s*acolta?
Onde vien che non ci fai
Rallegrar come una volta?
lo temea non fosse occorso
Tristo caso a te di pena,
Che turbato avesse il corso
De la tua vita serena.
L'usignuolo a' detti suoi
Sì rispose: Vieni e vedi,*
Vieni e vedi, e dirai poi
Se mi scusi e se mi credi.
Quel che vedi, è il nido mio;
Son nel nido i figli miei:
Or, se pascerli degg* io ,
Come mai cantar potrei?
Molto, è vero, ai dì passati
Apprezzai decersi il vanto ;
Or che i figli a me son nati ,
Penso a lor, non penso al canto.
Così disse. Or voi che avete
Già di padre il dolce nome,
Deh pensate che ora siete
Sottoposti ad altre some:
Date a i figli ogni pensiere,
Non al frivolo piacere.
Un uom riposto il suo tesoro avea
1 un gran fesso d'uo antico muro:
he quivi occulto renderlo credea y
da l'altrui rapacità sicuro,
er non scemarlo, eglisofFria lo stento; ,
soldi vagheggiarlo era contento.
Una gazzera un dì vide costui
he stava al fesso a far V innamorato;
, curiosa de gli affari altrui,
!uand*ei si fu rivolto in altro lato,
a, corre al muro, e da persona accorta,
'isto il tesoro, in altro luogo il porta.
Non guari andò che ritornò l'avaro
er vagheggiar le amabili monete,
vide (ahi reo spettacolo ed amaro)
ólo il nido affidato a la parete,
e usar si può comici restò di fuore ,
'. qual gelida man gli strinse il core.
Pur, del primostupor rimesso un poco,
osto si pose ad aguzzar V ingegno ;
d alfin s'avvisò che da quel loco
olto avesse la bestia il caro pegno:
orse, cercò, trovollo in un istante:
hi l'amato tesor cela a l'amante?
Onde si pose disdegoosamcnle
A rampognar la gazzera rapace.
Dimmi, le disse, bestia impertinente:
L'oro sei tu di consuinar capace?
Forse mangiar lo vuoi? forse i denari
Kendon satollo un animai tuo pari?
Signor, per me l'oro non è: lo vedo:
Disse la bestia, tntta in penitenza:
Se colpevole io son, perdon vi chiedo:
Ma, quanto a l'uso poi, la differenza
Stata già non saria grande tra noi ;
Ne avrei fatt'ìo quel che ne fate voi.
In un de' più cocenti
Giorni -di colma estate, una cicala
Cantato avea per venti ;
Sicché de gli altri insetti il vicinato
A una tal cantilena,
Che certo non parea d'una sirena ,
Erasi alfin nojato.
Si fé notte: ella tacque. Allora un grillo,
Che avea ritiro di quel palo al piede,
Ch'era de l' insaziabil cantatrice
Musico palco e gloriosa sede.
Uscì su l'erba al fresco
De le notturne aurette,
£ con tremula voce a dir si pose
Le solite amorose
Sue belle canzonette.
L'udì da l'alto la cicala; e, in tuono
Di disdegnosa' maestà: Tu duuque.
Vile animai, gli disse, ardilo sei
Rompere i sonni miei?
Se fosse almen tua voce
Armoniosa, e variato il canto.
Potrei soffrirti alquanto:
Ma così replicando ognor gli stessi
Striduli acuti accenti,
Nojoso, anzi insoffribile, diventi.
Il grillo alzò la testa,
E a lei disse: Sorella,
lo non so se cantando
Voi vi facciate un'armonia più bella;
Ma so bensì che quanto è lungo il giorno
Voi cantate, ed io taccio e non mi lagno.
Perciò, s' io pure or canto.
Datevi pace; e, s'io
Soffro il vostro cantar, soffrite il mio.
V* e chi nojar la gente
Pretende impunemente;
Ma, se da gli altri poi noja riceve.
Sopportar non la vuole, ancor che lieve.
Mentre la notte taciturna e bruna
i56
CRESTOMAZIA POETICA
Sleso avea su la terra il nero velo,
£ pochi raggi di falcata luna
Bompeano in parte il cupo orror del cielo,
Una lepre affamata uscì del folto
Bosco, e ne venne in uu terrcn più coltq.
Quivi cercando o frutti o dolci erbette
Per dar sollievo a la molesta fame,
Sotto un gran melo giunse ; e li ristale,
Quasi in loco opportuno a le sue brawie :
Poiché credea che qualche pomo iu terra
Trovatoavria, di quei che il ventoatterra.
Cercò; ma invano. Oi pomi avea raccolti
Diligente il cultore innanzi sera,
O uniti essendo ei fortemente a i folti
Bami, caduto alcun di lor non era.
Ond'ella già» piena di doglia, in suso
Verso gli onusti rami alzando il muso;
E dicea sospirando: Oh potess' io
Di tanti frutti un solo averne almeno.
Ma il destino crudel, per danno mio.
Ne pur lascia cadérne un sul terreno.
Dunque perch'io morir debba di stento ,
Fin cessa i rami d'agitare il vento?
Da l'alto udì la sua querula voce
Il melo, e del suo duol pietade il vinse.
£, poi che in tanti fruiti a luì non nuoce
Perderne un solo, a terra uno ne spinse .•
£ il diresse sì beo, che de la mesta
Lepre il pomo cadente urlò la testa.
Al colpo in^pettato essa, che ignora
Donde venga e da chi, timida fugge;
£ la paura prevalendo allora.
Di fame eslingue il senso, che la strugge:
Bicovra al bosco, e la selvaggia e rozza
£rba, sospinta dal bisogno, ingozza.
L'altra notte ne venne, e a poco a poco
La tema si calmò del Citso antico:
Ond'ella uscendo del selvaggio loco,
Sotto il melo tornò, nel campo aprico;
Ne trovando del suol sul verde smalto
Pomi, volgea Pavide luci a l'alto.
Allora il melo a lei disse: £ che mai ,
Folle, da me pretendi? lo ne la scorsa
Notte un pomo per te cader lasciai,
E tu altrove fuggisti a tutta corsa.
Tu dunque allor che quanto vuoi ti dono.
Disprezzi ingrata il donatore e il dono?
La lepre,udendociò, disse: Or comprendo.
Signor, de l'altra notte il caso strano.
Mi percosse quel pomo : io, non sapendo
Che fosse ciò, me ne fuggii lontano.
<ìr, perchè grata appieno esser vi possa,
Fate che il vostro don non dia [percossa.
Un fancinllin prendevasi
Mirabile diletto
Ne lo scherzar festevole
D' un gatto giovinetta.
Ei gli porgea la tenera
A mica man sovente»
Cui la giocosa bestia
Mordea soavemente.
£ ne l'inGoto mordere
Far gli solea mille atti
Sconci così, che un abile
Buffon parca tra i gatti.
Ora in aguato sta vasi.
Or si movea pian piano,
Or d' un salto avventa vasi
Su la vicina mano; ^
Poi si f uggia; poi rapido
Tornava al gioco usato,
Dal moto lusinghevole
De i diti richiamato.
Così alquanto durarono
Quelle mentite risse;
Alfin da senno il perfido
L' incauta man trafisse.
Pianse il fanciul : ma dis^egli
Il genitor severo :
Chi suol da scherzo mordere,
Alfin morde da vero.
La finzion del vizio
A vizio ver declina.
A can che' lecca cenere,
Non gli fidar farina.
Un gatto professore in ghiottornia,
Che a rubar cominciò fin £i la cuna,
£ che, a rapire uu boccon buono, avria
Fatto un salto mortai fin so la luna ;
Saltò d'un usignuol su la prigboe,
£ del raro can lor fece un boccdit.
Al comune padron fu nota appena
Del domestico musico la sorte^
Che sdegnato giurò di dare, in pena
Del misliaitto crudel, (errìbil morte:
Onde ciascun de la famiglia intento
Era in cercar l'autor del tradimento.
Frattanto il reo l'uni versai minaa'ia
Da un canto udiva; e gli tremava il core:
Pur disinvolto con sicura faccia
Stava dissimulando il suo timore.
Un reo talor da lo spavento è collo,
E se il labbro negò confessa il volto.
Ei non così; ma con tranquilla cera
La tempesta dei cor si bene ascose,
Che pur un sol de la sdegnata sc^ia
SECOLO DECfMONONO 157
lon mai tal reità suppose , Tu sì bassa ti stai, eh' io non ti scorgo.
orrer parea già con la caima, Ma ti compiango: forse è sì meschino
1 Tolto apparia, quella de V alma. Il tuo stato, e si vii, che far non puoi
lei colmo però del suo timore Quello che facciam noi ;
ch'ei fé tacitamente nn toIo: Onde così tu segui il tuo destino.
:he se quel suo commesso errore Udì la vantatrice
estalo al suo padrone ignoto, Zucca un ranocchio astuto,
rebbe mai più preso o mangiato Che, per quanto si dice,
i, carne d'animale alato. Assai genti e costumi a?ea veduto .
il voto non fu : brev'ora estinse Costui tosto si volse
e rimase il traditore intatto: A la superba, e questi detti sciolse:
i, sicuro, ad osservar s'accinse zucca, zucca vera,
enza penosa al cor d'un gatto. Non far tanto l'altera
sntre a l'osservanza ei si dispone , Su i pregi che non hai,
in una fiera tentazione. Né dispregiar cotanto
ne sotto ì* artiglio un pipistrello, La tua sorella che ti nuota accanto,
bei chela notte unqua vedesse: Sai tu perchèti stai
irchè ha l'ali, e passa per uccello, A galla più di lei?
imenta al pensier le sue promesse: Perchè più vota sei.
da l'appetito, al cibo aspira;
ipolo l'avverte, e io ritira. In un certo villaggio
l'animai passò; passò con lui Un artefice saggio
iJTon precipitosa e lieve ; Di terra cotta una campana fc;
;atto mantenne i voti sui: Poscia un color le die
perchè la tentazion fu breve. Tanto al color del bronzo somigliante,
folle pipistrel, dando di volta. Che ingannato sariasi un negromante,
sotto l'artiglio un'altra volta. A veder la campana,
•ser lo gatto allor gli salta addosso, Qual opera sovrana,
icrupoli serba a miglior uopo. Corse la turba villereccia: e mentr«
:ide tra sé, mangiar lo posso, Stav^ a mirar con inarcato ciglio,
uccello non già, ma come topo. Udivasi un bisbiglio
9U dottorai temperamento In questa parte e in quella, [ bella!
fé l'appetito e il giuramento. Che replicava: Oh quanto , oh quanto è
In questi universali
» di pioggia un orgoglioso fiume Applausi de le genti, [ti? )
le anguste sponde. Un vento (è dunque invidia anco nei ven-
Dndo il suo barbaro costume, [de. Nel pendente battaglio urtò con P ali:
erseun campo, e il depredò con roa> Il battaglio agitalo
prede ch*ei fece, eran due belle Battè, sonò da V uno e V altro lato:
.e tra lor sorelle, £ allor dal rauco suono ed infelice
lon potendo far forse altramente, Conobbe il pnpol gonzo
secondavan la corrente. Che la bella campana ingannatrice
li lor su l'acque Era di terra cotta, e non ii bronzo.
;giava assai più; l'altra più grave Tal un con l* apparenza
>érdea tra i flutti Impone a le persone,
torbida piena, E creder fassi uom d' alta conseguenza:
ior d'acqua si mostrava appena. Ma, se mai parla, si conosce allotta
prima, che vedea sé più sublime Che quel che bronzo pare, è terra colta,
sorella sua tener viaggio,
r seggio de' flutti in su le cime; Un giovìn merlo, ch'era un po' tondo;
1 orgoglio; e con aspro linguaggio Né ancor sapeva gli usi del mondo,
disse: infingarda. Vide una piuma che, a 1* aure in seno,
'ofondo ehe fai? Guarda me, guarda Andava a spasso pel ciel sereno.
:o di te più salgo: ^ Oh! vedi,^ madre, quell'augelletlo,
438 CB ESTOMA ZIA POETICA
Disse» che mostra piccolo aspetlo,
£ la volar tiene foggia noveila.
Dimmi, tra i boschi come s'appella?
Non è un augello, la madre allora
Rispose; è piuma spinta da Pòra.
Ma come? il figlio riprese: il volo
Gli augelli vivi non hanno solo?
Che altri pur voli credo a fatica.
£ a lui la madre: Se han Taura amica,
(Credi: del mondo questo è il costume)
Volano ancora le morte piume.
In un campo di canapa, che avea
Il seme ben granilo,
A beccare ogni giorno andar solea
Di varii uccelli un numeroìnfinito.
Nel medesimo silo
Stava una Botta di sotlile ingegno;
Che si pose a l'impegno
D'indagar la cagion per cui cotanta
Turma d' uccelli s'adunasse insieme
A divorar quel seme.
E diceva fra sé: Con quella pianta
Si forma il filo; e poi col tìl le reti,
Che in aguati segrei i
Tesedal'uom preudon gli uccelli. Urque-
Si danno a tollerar tanta fatica L sti
Perchè di questa pianta, a lor nemica,
La semenza non resti.
Questa mia conclusione è veramente
Lampante ed evidente:
Ma ciò non basta: io voglio
Che noto sia con quale agevol modo
D' una quistioue io sciòglio
Il più diffidi nodo;
E tome di leggieri
Io tocco il fondo de gli altrui pensieri.
Perciò si volse, e disse a un calderino,
Ch' erale il più vicino:
Olà, parla sincero: io so il motivo
(inde voi questo seme divorale.
Eccolo; voi cercate
Che la canapa manchi, e manchin poi
Quelle reti, che a voi
Kecan tante sventure.
Madonna, no, non ci pensiam ne pure.
Oh come no? dunque perchè venite
Cosi a turbe infinite,
Con un desio sì fervido e vorace.
Questo seme a mangiar? — Perchè ci piace.
Di qualche fatto spesso
£ la vera cagione a noi ben presso.*
Mache?-sottil pensiero
Lungi la cerca, e va di là dal vero.
A la mosca il leone
Disse: Fuor di passione
Parla, e accennami quale
Credi che sia 'l più perfido animale.
E rispose la mosca:
Fra quanti io ne conosca,
Di nessuno mi lagno:
Ma gl'iniquison due: rondine e ragno.
Fate simil domanda
A l'uomo: ei vi dirà di por da banda
Ogni rancore antico;
Ma vi nomina intanto il suo nemico.
Passando un fiume ^rbido
Con soma assai pesante,
Sentia dal fango un asino
Imprigionar le piante.
Dovea sforzi incredibili
Far per uscir di pena,
E guadagnava il margine
Con affannata lena;
Un dì con ragli queruli
Il misero somaro
Al fiume rivolgendosi,
Fere un lamento amaro.
Perchè mi dai, dicevagli ,
Un sì diflicii guado?
E forza del mio spirito
S'io non vacillo e cado.
E, per maggior disgrazia,
A questo reo cammino
Sovente riconducemi
Il mio crudcl destino.
Dal fiume, in slil laconico,
Fu a Tasi nel risposto:
Va: si porrà rimedio
A questo mal ben tosto.
Dopo due lune, trovasi
Al Consuelo varco
Lasso e anelante l'asino
Sotto pesante incarco:
E vede in alto sorgere
Avanti al suo cospetto
Un ponte, alquanto ripido.
Novellamente eretto.
Egli si ferma immobife,
E sospirando dice:
Dunque or, sì stanco, ascendere
Dovrò quella pendice?
O fiume, tu mi liberi
Da un mal con altro male.
Ma il fiume: Taci, o querulo^
Stoltissimo animale.
SECOLO DFCIKONONO
450
cotante smorfie,
ir tu TUOI,
ii guado scegliti:
ritar non paoì.
di fiume torbido
i nostra vita:
aspettar dobbiamocì
;o, la salita.
bel can sul grasso tergo
Ice prese albergo,
chiargli il sangue intesa,
anzo a di lui spesa.
tu, le disse il cane,
:ar fra le mie lane,
palle il gius pascendi?
»io, rispose allora
lulce adulatora,
ostra serva umile,
imirando la gentile
i fh'è in voi riposta,
ula a bella posta
regni del Perù
rvi servitù,
cane a questi accenti
*ece complimenti:
a dirla, egli non era
caoi d*alta sfera,
hiaman cittadini;
un can da contadini,
astrandosi cortese,
tergo più d'un mese
lice lasciò fare
na e il desinare,
do un giorno, sovra un monte,
er trovossi a fronte;
0, e pien di vaglia,
ò dura batttaglìa:
fu sì avverso il fato,
tiase strangolato,
pulce, al caso reo,
perse in piagnisteo
lorle del padrone;
lupo sul groppone
ì\ salto si lanciò,
li diede il buon prò.
. lupo: E tu chi sei,
plauso a i vanti miei?
serva, ammiratrice:
imìl, la pulce dice,
oi tu? — Mangiar con voi. —
f mangiar tu puoi,
a pulce con maniera
dee e lusinghiera,
Fé de i pranzi assai felici
Sul groppon di due nemici.
Forse alcuno in questo fatto
Vuol saper chi sia ritratto.
Io per me nessuno addilo;
V'è chi dice un parasito.
Fiacchi.
CGXLVI. Sopra l* amore del danajo.
O gregge affascinato, o stuol grifagno,
tu che il pasto affama, e il fonte asseta;
Tu, lungi da ogni amor, solo al guadagno
Intendi; e sei nel resto anacoreta: ~
Vòff che rivo esser dee, diviene stagno
Per tey che dal matlin fino a compieta
Stretto t'aggiri intorno al chiuso argento.
Come intorno a la macine il giumento.
Benché ogni via t'impregni la scarsella.
Col tuo tormento, che gli eredi ingrassa;
Qual manigoldo^ assidua ti flagella
Miseria, frutto de la piena cassa.
Lacero hai tetto e manto; e ogni procella
Franca fino a le viscere 'ti passa:
Ne di scherno li cale, ne d'ingiuria;
Ma col di sorgi a meditar penuria.
Il giro de' tuoi campi e l'aja immensa
Mille nibbii, o Arpagon, stancar potria:
Ma le messi sottrai che il suol dipensa.
Già colte; e ubertà cangi in carestia.
Così de i Traci a l'imbandita mensa
Le vivande togliea l'immonda arpia,
£ di Fineo su i cibi invali presenti
Stendea l'unghlon tra la forchetta e i denti .
Con ten ne vitto il ventre a i servi strigne ;
Né a' figli è più cor tese, o a l'egra moglie.
Hape e lattughe egli in lucerna intigne ;
E conta del basilico le foglie.
]l pozzo e la cisterna son sue vigne:
K avarizia il fatò da tutte voglie:
Ne spende infermo in medici prudenti,
Ma le membra consegna a esperimenti.
tu sordo a ogni pianto,e cor di pietra ,
Ne febbre o morte del vicin ti scuole;
Ne ottien giustizia, né favore impetra,
Né ti pare uom chi le bisacce ha vote.
In te non senti il più bel don de l'etra?
Non sai che l'altrui duol del nostro écofe?
Che amor di sé, d'altrui, noi da le selve
Richiama, e ne distingue da le belve?
Né dottore al bel nodo, né dottrina
Noi trae: ne l'uomo carità é natura,
E indizio ver di parte in noi divina.
Che non teme pietron di sepoltura»
I
i 00 CRESTOMAZIA POETICA
Noi sforza a lagrìmar pietà regina L*uccideste; e fremè l*ombra patema.
Se l'esequie incontriam d*età immatura, Ne denaro si vuol per trarne onore;
Se svien su Turna orfano nido, o trema Ma onor si vuol per trarne poi denaro:
Pentito il ladro su la scala estrema. Sì che tal ch'esser può legislatore,
Gli orti al villano, al cittadino i tetti Per guadagno maggior resta notaro.
Questa munirne inventò siepe o chiave: Vedi Olao, che del bene ostenta amore,
Quei d'altri al nostro, e il nostro a gli al- Se il ben si vende in certi dì più caro;
[ trui petti Ma di virtù poi merca il vilipendio,
Fé scudo; e patto a noi dettò soave, [ti; Se dal vizio ha più nobile stipendio.
Poi l'uomoalternòal'nom soccorso e affet- Muori,guerrier,perlemonete,incanip»;
Né il danno altrui del suostimòmen grave. Piloto, in mare offri per l'or la vita:
Come insegnò a la manca aitar la destra, Non temer d'armi né di nubi il lampo,
Sì l'uomo a l'uom necessità maestra Siegui la Furia che ricchezze addita:
Pur l'uomo al'uom per fame d'oro Uupo. Sia del tesor, nun de la patria, scampo
Ma il vitto a i lupina te il danaro è sprone, Jl rischio tuo. Né nobile ferita
Che ti caccia per bosco e per dirupo, T'accresce onor: ma, se denar t*appresh,
Per via,per piazza, a esercitar l'unghione. La cicatrice anco nel dorso è onesta.
Forse a l'incude l'oro vien dal cupo, D'Elei, satira V.
Sol perchè effigie esprima , arme e iscri-
C zione ? CCXLVII. Sopra la nobiltà.
Perchè vien? dimmi, o tu che lo zecchino
Come un quadro contempli del Guercino? Siapurne gli avi tuoi, ma inqueis*arresU
Ma peggioan<'.or,$e apri la man, se n'esce Nobiltà, né in te, Ciacco, si trasfonda,
L*oro, e dal sacco il trae maggior delitto. Mentre il nome di quei col tuo funesti,
Ahi, u'esce a stille, tornaa fiumi; e cresce E il chiaro fonte va in palude immonda.
In ampie somme, che mentì lo scritto. Mostrami i proprii merti; io far con questi
Come s'offre l'uncin nel pasto al pesce. Voglio il tuo stemma, e d'onorata fronda
Così a l'uoin nudo e da l'inopia afflitto Voglio al tuo busto circondar le chiome:
Tu spietat(f offri un laccio per sostegno, Ne a te dia*l sasso,ma tu al $asso,il nome.
E ne vuoi tutto, fin le membra in pegno. Se la plebe illustrissimo te chiama.
Gema indarno il mendico in atrio algen- Piangi : schernodivien l'ossequio ingiusto:
Spogli l'are, i parenti; esponga i figli; [te; In te voglio del tenue Arpin la fama
Ma Tusure ti paghi, e colla mente Più che ne Parme l'aquila d'Angusto.
Veggia,ancoin sogno, i tuoi vicini artigli. Benché di nobil tempra, èinutiilama.
Questi teme del debito l'urgente Se ruggine le toheil fil vetiuto,
Pena, e tu del danar temi i perigli: Durindana e Frusberta *: e quercia antica,
Miseri entrambi. Son d'affanno in gara Quando è secca, si spianta come ortica.
Così la gente povera e l'avara. Signor, conosci in te Guelfo e Rinaldo;
Sotto apparenze di virtù si cela Merita gli avi; e ponga te in senato.
U vizio, e di bel titolo s'onora. Il tuo senno, non quel del prisco Ubaldo:
Par modestia, par senno e cautela Ne vanti chi mal vive, esser ben nato.
Quell'avarizia che in serbar divora. Siegui il tuo Pio; ne uscir da eroi ribaldo
Ma ne scrigni, né figli a tal tutela E degno di frodar l'oncia in mercatQ.
Mai fiderò: chi sua pecunia adora. Se giusto e mite sei, scendi da Giove,
A i vezzi de l'altrui non è di sasso: £ dà il tuo cor di nobiltà le prove.
Da l'avarizia al furto è un breve passo. D'Elei^ »»tir» ^^
Quante Erifili, ohimè, vegg'io! Né inulti
Starian tanti sotterra i Polidori, CCXLVUt. Dori, o la felicità.
Se mesti a noi parlassero i virgulti
Cornea Enea,spie del sangue e de i tesori. Riedi, riedi, incauta Dori:
Pur la prole spogliar co i graffii occulti E non vedi che ne Tonde
Osaste, madri, e superar tutori; Febo asconde i suoi splendori?
Pur voi ( tante non fe« » tigre io cavenia) i jy^^j delle spade di Orlando e di Rinal-
X Fectf» do ^paladini.
SECOLO DECIMONOIVO
461
Gridò Cloe da an^alta vetta
A la figliagioviuetta.
Ella torce allor le piante:
Ma però con volto tetro
Mentre il piede affretta avante,
Volge V occhio irato indietro.
£ anelante e lassa, alfine.
Già dei colle sul confine ,
Dice : madre, un vago augello,
Che, poc' alto ognor dal suolo,
D* arboscello in arboscello
Dispiegava incerto il volo,
Inseguia; eh* ogni momento
Mi parea con man sicura
D' afferrarlo; e quegli al vento
Dando r ale.^a mesi fura.
Breve è il voi, ma sempre nuovo;
Si che i passi ognor rinnovo:
Ma r augello ògnor si svia.
Quanto mai, quanto sudore
Ahi mi costa, o madre mia,
QuelP augello ingannatore!
A colei, che irata accusa
L* augellin che T ha delusa.
La prudente genitrice
Pria sorride, e poi le dice:
Cara figlia, di que' vanni.
Del sudor eh* oggi spargesti,
Ah col volgere de gli anni
Il pensier vivo ti resti. ^
Qnal tu errasti sconsigliata
Per r augel che t*ha iogannaU,
Co5Ì 1* uomo errando va
Per la sua felicità.
Ognor prossima la vede,
D* afferrarla ognor si crede:
Ma, colei spiegando V ali
Ad un volo più lontano,
Corron sempre, e sempre invano.
Fin che giungono i mortali,
Tra 1* inganno (; tra la speme.
Infelici a Tore estreme.— i>e Rossi*
CC^LIX. Le uve dipinte da Zeuit.
Quando II pittore acheo.
Emulo di Natura,
La bionda uva matura.
Sacra al padre Lieo,
Pìnse; e il pennello espresse
Uve si belle e vere.
Che le pennute schiere
Venner sovente ad esse;
A mirar quel portento
Leopardi, Crettomaxia, II.
De 1* arte de* colori
Correano a cento a cento
Gli argivi spettatori .
Un dì, nel punto i&tesso,
A quella tela appresso,
SuMelusi augeilìni
Ridoan, tra lor vicini,
Un ricco mercadante,
Un senatore altero,
E un giovinetto amante.
Ma, ne 1* udir quel riso.
Filosofo severo
Gridò, sdegnato in viso:
U stolti, e voi ridete
De gì* ingannati augelli?
E voi simili a quelli ^
Forse, o stolti, non siete?
Verso felftitade
Tutti, da varie strade,
Spiccate un volo insano:
La passarne intanto.
Che in vostro cor si cela,
Ed a volar vi spinge.
Sta col pennello in mano,
E il fin bramato tanto
In seduttrice tela
A voglia sua dipinge.
A te avarizia indegna
Felicità disegna
Quando dal flutto infido
Vien la tua nave al lido.
A te cieca ambiiione
Ne la gloria del brando.
Ne 1* onor del comando,
La pi n gè e la compone.
Di voluttà il pennello
Fa «*he tu averla speri
Nel posseder quel bello,
Che t* invita a* piaceri.
Ma dite: un sol tra voi
V l^a che P ottenga poi?
Dal desiato oggetto
Non partite affamati
Qual parte V angelletto
Da*grappi simulati? — D^ Rossi»
CCL. £* arco di Amore .
Prendi, mi disse Amore,
Questo arco feritore,
Di cui ti lagni tanto;
Spezzalo pur, se vuoi:
Quando quest* arco è infranto.
Cessano i mali tuoi.
Ì6S
CRESTOMAZIA POETICA
Incaato giovinetto,
D'Amor 1* offerta acretio;
E in cento modi e cento
Spezzar queli* arco tento.
Ma ogni forza mortale
Contro queir arco è frale.
Cercando allor men vo
Chi diami a 1* uopo aita.
L' arco a Io Sdegno do:
Quegli con mano ardita
Franco l' opra intraprende.
Ma k latto poi mei rende.
A Gelosia lo porto*
£ coli* arida mano
L' avea colei già torto.
Io n* esulto: ma invano;
Che forte più di pria
Mei rende Gejiosia .
Volgo al Capriccio ì preghi;
Che a P impresa s'accinge.
L'arco par che si pieghi
Mentre colui lo stringe:
breve contentezza!
Lo piega^ e non Io spezza.
Allor le Muse invoco:
Arso queir arco indegno
Spero dal sacro fuoco
Che m' accende V ingegno:
Ma è van che a quelle esprima
1 miei tormenti io rima.
Così passando gli anni
Fra tristezza ed affanni,
Alfin le bianche brine
Caddero sul mio crine:
Vecchiezza, che al mio fianco
Mosse il pie lento e stanco,
Vide queir arco, rise,
Lo spezzò, lo divise.
Or r empio faocinlletto
Impaziente aspetto;
Che de' trionh miei
Farlo certo vorrei.
Ma indarno, oh Dio, lo bramo,
Indarno a me lo chiamo:
Passa lunge, e qual vento
Da gli occhi miei si fura;
£d or che noi pavento,
£i più di me non cura.
Ve Rossi,
CCLI. La Gelosia.
Quando il fanciullo Amore
Mancar de la sua face
Mirava lo splendore;
A farlo più vivace
Ora chiamar soleva il Riso, ilGioc
Or le Lusinghe e i Vezzi;
Anche l' Ire e i Disprezzi :
£ ravvivato ognor vedeva il foco.
La face un dì languia:
A l' uopo Amor chiamò la Gelosi
£ssa ubbidirlo volle:
Ma r importuno fiato,
Indiscreto, gelato,
Mentre eccitar fiamma più viva ten
Besta la face spenta.
De Rossi»
I
CCLII. Amore dà udienza.
UdYenza solenne
Amore un giorno tenne:
Il regolar l' ingresso
Fu ai Capriccio commesso.
£ntraro il Riso e il Gioco:
Ma si trattenner poco
Con Amor assai più
Parlò la Gioventù.
Fu la bellezza udita;
Ma colle Grazie unita.
Dopo la Gelosia,
Ascoltò la Follia;
£ momenti non brevi
Ad ambedue concesse.
Perchè affari non lievi
Suole affidare ad esse.
Torbido in viso e tetro,
Passò poi il Tradimento;
Ma nel tornare indietro
Parve lieto e contento.
£ntrò lo Sdegno ancora
A favellar col nume:
£ benché ad esso ognora
Avverso di costume,
Pur gli si lesse in volto,
Che avealo bene accolto.
Fu ammessa la Costanza
Coli' Innocenza a lato: '
Ma iisciron da la stanz a
In aspetto turbato.
Avea già udito Amore
Tutto l'accorso stuolo;
E la Ragione solo
Aspettava al di foore:
Che a lei jper odio antica -
11 Capriccio nemico.
Aveva per dispetto
SKCOLO DtCIUONOKO
D' «nniiiici*rl> DCglctlo.
E alloT che il nume rìde
Dd luogo niìrt ilauco;
V è la Hagioo pni anco,
Dieej e fr* ai mi ride.
Quando <\at\ aamt accolla,
Pensoso abbassa i guardi,
Poi dice Amorei è lardi:
Che passi un' altra toIU.
ElàriTolge il piede:
Alaquando ella si appreui
A quella plaoU slessa.
Attonita limirn
Che carca è sol di fronde ;
Epiauge, ese n'adira.
li il giardiaier risponde:
Bramati I frulli, o Dorlf
Perchè coglieili i fiori?
stille
yXKl. Amore ineaitna Cerbero. (X-iyi. Le piante di geliomini.
RodoM cbia strinse, Poicbt diTenne Fille
ci leone tisIì 1' orride spoglie. Del su
DOTO Alcide si finse,
discese Cupido^ l'atre soglia,
teso a la frode de l'aitulo dio ,
erbeia, per tintor di maggior danno,
remante il collo a la catena offrio.
Oh quante Tolte con eguale inganno
'uomo crede il suo core
'into da fona, quando il rince amore.
CCUV. ZaGioventà e il Piacere.
NelEÌardin del Piacere
lalTÒ V incanta Giovenlude un dì ;
^tese il glardiuicie
suoi fiori le offrii
ih lutti in nn istante
liida possederli essi Tolea;
itrcise, svelse, calpestò le piante.
Ma quando, paga di sua vana idea,
'' ardossi in EremiM, rilrovoUi tutti
tXLV.l^ fanciulla e il giardini
Mentre odorosa pianta
r' aranci, entro il giardino
Di nuovi fior s' ammanta;
Scende a quella vicino
Una gentil donzella.
Che lutti gli raccoglie,
E per sembrar più btila,.
Tra il crine e tra le spoglie,
E del sen tra gli avori,
Al velo intreccia i fiori.
Ne la stagiou gradita
Che il frutto al fior loccede.
Dolce dcMO la invila,
Lasciò le re
Per abitar la corte.
Però venia talora
Del padre a l' umil tetto;
£ conservava ancora
Per la camjngna afièll".
Sopra tesiepi un giorno
De l'orlicel del padre
Mirando d' ogn' intorno
Piaule folle e leggiadre
D' aRresti gelsomini
Fiorir tra dumi e spini.
Diceva: e d'onde avviene
Che questo fiarellino,
Là non sembra più quello?
Rispose il padre: o figlia,
Quell' odoroso fiore.
Nel puro suo candore,
A innocenza somiglia:
Le siepi ama e le spine.
Le pompe cittadine
Far che con lei rigetti. .
Dimmi: nelachlade > .
Ia Ina innocenza i quel b
Che fra queste coubade
Serbasti, intatta e bella?
CCLVII. WI8BAMIH B scBWii ta«i
Amore un di per gioco
La benda al ciglio tolse,
EdallabroTavvolse.
Ha nei bwjto pcnsier duo ben poce;
iu
CUESTOMAZU POKTICA
Perchè mancar sentiva il suo valore
Quando era mulo, Amore.
Amor, tu al mar m*lnTÌti;
£ tranq[uilli mi additi,
Disse l'austero Uranio a Blaterone:
Marchese, cavalier, conte, barone
Tu chiamarti potrai-,
tinest'nomo giammai;
Questo titol coiroro non si merca.
ì^t lo scioglier dal lido, il vento e l'onda. Blaterone rispose: e chi lo cerca?
Vengo: ma poi, se la pentita prora
Torcer vorrò a la sponda, Pingea Laurino la Crocifissione:
L'onda e il vento saran tranquilli allora? Dai ritratto d*(Ludoro
Interrotto il lavoro
Amor volea schernir la Primavera
Su la breve durata e passeggiera
De i vaghi fiori suoi.
Ma la bella stagione a lui rispose:
Forse i piaceri tooi
Vita più lunga avran de le mie rose?
Non so con qual pensiero,
Donar mi volle un oriolo Amore.
Io Taccettai : ma sempre è menzognero;
Che del piacer ne Tore
Corre troppo veloce; e troppo lento
Ne Tore del tormento.
In grembo al fior più bello
Non sempre posa la farfalla errante.
Vezzoso garzoncello,
Che tanto fidi nel tuo bel sembiante.
Un fior tu sei; ma Cloe, la tua diletta,
Forse è una farfalletta.
Le colombe amorose;
Le porporine rose;
Intorno al seno, de le Grazie il cinto:
Ne la man, l'aureo pomo in Ida vinto;
Tutto tutto mi dice
Che in Citerca vuoi trasformarti, o Nice.
£ pur, tra tanti segni, io non ravviso
In te Ciprigna ancora.
Quella maschera sol togli dal viso:
Sarai Ciprigna allora.
Vezzoso garzoncello a Febo caro
Fu questo fiore un dì:
Febo a caso nel giuoco lo ferì,
£ n'ebbe duolo amaro.
Tu ne'tuoi giuochi volontaria uccidi
Mille amanti, o Nigella; e poi sorridi.
Il grande, il ricco Eglon qui estinto giace.
Non fé al mondo quei ben ch'egli dovea:
Ma prega al cener suo riposo e pai.'e;
Perchè il male non fé che far potea.
Chiami senza ragione.
Laurino in quel ritratto,
Del cattivo ladron lo studio ha fatto.
Mescer devi,Laurìn, più d'un colore
Mentre d'Eudoro vai pingendo il volto:
Il nero basta se ne pingi il core.
Il ritratto di Eudoro è sì perfetto,
Che,ad ogniistante,che bestemmi aspetto-
De Ronfi.
CCLVIII. FAVOLBTTB.
D'acqua una vena limpida
Discendea da la rupe: e ad ogni pa^o,
Ora a l'urto d'un tronco, ora d'onsasso,
Frangeasi, divideasi, e gorgogliando
Ridotta in spume candide,
A la rupe così già mormorando:
Pure al fin giungerò sul verde prato,
Che, di te meno ingrato,
A' mìei limpidi umori ^
Letto gentile appresterà di fiori.
Un sasso, che l'udì,
Le rispose così:
In quel letto gentil gli umuri tuoi
Chiari saran com'ora son tra noi?
Ne l'angusto campicello
Un meschino agricoltore
Vide errar stuolo rubelhi
Di locaste, che nemiche,
Con famelico furore,
Divoravano le spiche.
Al rimedio, a la vendetta
Pronto pensa: e a notte bruna,
Quando insieme si raduna
La masnada maledetta,
Egli attento segua il loco.
3pini e paglie unisce aliora,
È allumando un ampio foco.
Spera, al sorger die l'aurora,
Di trovarle tutte tutte
Consumate, arse e distrutte.
Ma l'evento non arrise
SECOLO DECIMOiNONO
165
)eme lusingliiera.
' del foco uccìse
ie madri la schiera;
^el iQogo aveau la cova;
lor fé schiuder Puova;
lacque altra famiglia,
la prima rassomiglia,
eschino agricoltore
mico stuoT noTello
lelico furore
sposto il campicello;
rgli danno eguale
tdio Tide e il male,
n focoso letterato,
'critici sdegnato,
batterli si affretta,
sacro, o favoletta.
:hè sì umile e china,
i io SI dritta e bella
quasi regina
'asta pianura?
verde sorella
spiga matura,
risponde quella:
i di grano; allora
verai tu ancora.
ae di nobile palagio
io bell'agio
, padrona d*un tesoro,
;emmeed'oro,
ancor fresche e delicate;
te e serrate
tenea gelosamente,
lovizia de la lor parente
e risanno;
sotto al balcon sen vanno,
I ogni arte
le parte,
iascuna espone
» ragione,
ccia prega:
sempre nega,
vuol tutti
utli,
ir la scorza
afToIlate:
idegno, vengono a la forza,
un assalto.
la Tallo
il fesa: e, per tener lontane
ìche insane,
àcco, e incomincia colle noci
A lanciar colpi atroci.
Dopo lunga battaglia, yindtrice
Fu Tassali ta scimia, e in fuga pose
La turba assalitrice.
Ma, quando, in voci di piacer festose,
Ringraziava de l'armi la fortuna,
Rivolti gli occhi de le noci al sacco,
Non ne trovò pur una,
£ s*avvide che spesa
La sua ricchezza avea ne la difesa.
Raro non è che, trattane la glorSi,
A la perdita egual sia la vittoria.
Il toro al corso disfidò il destriero:
£ questi vincitor fu ne la sfida.
Gli altri animali incontro gli si fero '
Con plausi di trionfo, e liete grida:
Sol taceva la volpe. A lei Paltero,
Dammi ragion del tuo silenzio, grida.
£ssa risponde: i plausi miei conservo
Pel dì che vincitor sarai del cervo.
Allor che il vivo sangue
De la Diva di amor
Fé vermiglio quel fior
Che Tavea punta,
Provonne invido duolo
De le piante lo stuolo
Chesorgeva ne i prati di Amatunta.
£ ciascuna dicea:
Ah, perchè, avaro Ciel,
Non mi desti uno stel
Di spine cinto?
Che di color novello.
Più ridelite e più bello.
Forse il mio fior vedrei vestito e piato.
L*aspro, pungente cardo
Quei lamenti ascoltò:
£ di sue spine andò
Superbo tanto.
Che già, con folle idea.
Acquistar si credea
Al negletto suo fior nobile ammanto.
£ mirando in quel punto
Venire un Amorin
A córre un gelsomin.
Che gli era alialo;
Spinse le punte ardite;
£ da crude f'erile
Il tenero fanciul restò piagato.
Domandando vendetta
Contro chi lo ferì,
A la madre fuggì
I Fecero.
166
CIIESTOMA.ZIA POETICA
Piangendo il figlio:
£ la madre sdegnata
La rea piatita malnata
Fuori del prato allor mandò in esiglio.
Poiché vider le piante
Che in pena del ferir
Ebbe il cardo a soffrir
L*ire divine,
Del primiero desio
Ognuna si pentio,
E al Ciel non più ridimandò le spine.
Quando cieca fortuna
Assegna al mal oprar larga mercede.
Misero chi, cedendo al folle esempio.
Dal sentier di onestà ritratto il piede,
L*orme segue de l'empio.
Mentre de rnsignolo un fanciulletto
Al manco piede ha un breve filo attorto,
liO spinge al voi, con barbaro diletto.
Ma quanto è corto il filo, il volo è corto.
Grida il fanciul con puerii dispetto:
Di Tolatore usurpi il nome a torto;
^olar non sai. Risponde l'usignolo:
Spessa quel filo; e allor vedrai se volo.
Da i roveti che fauno ombra a lo speco,
L*usignoI, soavissimo cantore,
Sciogliea la vocer e, ripetendo Teco
Le dolcissime sue note canore,
Un altro augello che garrisca seco
La crede Pusignol con folle errore.
Vuol rispondergli sempre: enon s'accorge
Che dal suo canto il suo nimico sorge.
I desideri! a l'eco rassomiglio:
L*altimo cui rispondi,
E padre ognor di più importano figlio.
Al cipresso crtsi Tolmo parlò :
Se del tuo non minore
Sorge il mio tronco da la terra fuore.
Comprender poi non so
Perchè giunger non possan le mie cime
A la meta sublime
Oye t'inalzi a contrastar conventi.
Il cipresso rispose a quegli accenti :
S'ergerti eccelso al par di me tu brami ,
Perchè il tronco dividi in tanti rami ?
Stuol d'augelli di rapina
Ghermì un dì la chioccia, i figli,
A una vecchia contadina :
Che, ripiena d'aspra doglia^
Dei poliajo su la soglia
Afifittissima sedea,
£ la perdita piagnea.
Quando un falco, che il suo Tok,
Non a caso, in ampii giri
Abbassava intorno al suolo ;
Ne r udir tanti sospiri,
A la vecchia donna chiese
Perchè pianga, chi l'offese.
£ non vuoi che mi lamenti?
Replicógli allor colei :
Fieri augelli, tuoi parenti ,
Involando i polli miei,
Guarda, guarda come tatto
11 poliajo hanno distrutto.
Donna misera, infelice!
«A quel pianto il falco dice:
Troppo giusto è il tuo dolore.
Qual pietà sento nel core !
Al tuo pianto piango anch' io ;
Odio anch' io lo stuolo rio,
Che crudele ti ha distratti,
Ti ha rapito i polli tutti,
E col furto scellerato
Un per me non ne ha lasciato.
Conosco più persone
Piene di compassione
Al par del mio falcone.
D^ Rum,
CCLIX. Sopra igiUdixii e le opinioni
degli uomini intorno ai poeli t^
ai versi,
Gii corse
Quattro gran giri il Sol dacché mi tolù
Dal gregge de le Muse: e, se furtivo
Pindo rividi ancor, da le lusinghe
Vinto, e dal non sopito amor del loco;
Oggi son fermo che un eterno esilio
Me ne divida. E eh' utile è il consiglio
E sano, s'ozio hai per udirmi, asrdta. .
Se alcun (così meco talor ragiono) ,
Marre e pali operando , un pian fondasse
Di viva selce; e coli' aratro poi
Lo rigasse di solchi ; e il concimasse ;
E il cigoesse di rivi e di dens' ombra,
Contro gli sdegni d'Orione e il foco
Del Can uascente; ove potria costai
Volgere il pie, che non destasse a rìso
E la procace e la severa etade?
Ma forse è folle men chi notti e gìorv
Vigila e suda in vote imagin fiso ;
E ,' poiché , registrando alcune voci,
Ed altre ributtandone, de l'agne
SECOLO DECIMOxNONO 167
io fece e del crln , noja e dbpetto Non attender cVei dica : al mio palaU
tmbascia ne trae? Già non contendo Non garba quel «apor.Bensì, usurpando
ri talvolta d* onorato nome EìsoId^ dritti del comun parere,
!gi lui: pur sia: ma, corso un giorno È tosco, griderà ; quella vivanda
che gli riman? sotto l' Aquario Ha ferrea gola chi V inghiotte, O cibo
» perciò si vestirà che V asse ' O poema è lo stesso. A me non piace ,
i consenta? o a sé più mondo vitto Pessimo è dunque : non ci ha mezzo. £
e lodi fornirà? men grave [pure
[uartana sentirà il ribrezzo? Col retore Longin degni del cedro
se, plaudendo mille, anzi secento Valgio que* versi pronunciò. Mal sente.
i di mille, un sol di tanto Chi dissente dame. Se peschi al fondo,
i il naso, fia cangiata in fiele Questo e non altro d' entimemi involgo
olcezza. Quindi le mordaci £ di soriti il favellar confuso
ze han fonte, e con grinsultt l'acri Del volgo de' saccenti e de* dottori,
te, e i caldi piati , e gli odii, ahi Né tacerò, condizione acerba
C troppo Sopra ogni altra a portarsi, che ignoranza
ifamia de* vati. sogni forse , £ sede e voto d'arrogarsi ardisce
a Marone e al Venosin negato, Nel giudizio de* vati ; e che sovente
pieni voti il pubblico comìzio Danna gì' ingegni perchè a gli occhi inerti
andi assoluto? Ove diverso Le fero ' offesa di soverchia luce,
dal Zanni, che tra sé fantastica: Arroge a ancor che, con iniqua legge,
uomin tutti in un sol uomo, e II fallir d*uno a tutti i vati è apposto.
[ gli alberi Garrulo e d*essi alcun? cicale e gazzere
albero e i sassi in un sol fossero Tutti fien ' detti . Un pò* leggero è questi,
racco2<tT Varie in ogni mente E fa contrasto d'ammassati temi
1 gusto sue leggi ; e non farai Nel suo discorso , che non trova uscita ,
riposi in un giudizio solo, O fuor riesce del cammino? inetto
I non cresci d* un medesmo latte A* gran consìgli udrai nomar Finterò
bambini, e in un meaesmo clima Delfico gregge. Vuoi di più? lo scudo
1 gli educhi fra vicende eguali. Giltò , minor de la virtù seguita,
l'irsuta libertà di Dante Quinto a Filippi ; s'appagò di sguardi
simula ; quegli ad uno ad uno Tra lunga e cruda servitù Petrarca :
i cari modi, ed il sottile Tutti imbelli in amor, vili nel campo
vaneggiar del cinquecento ; Si predican tra'l riso oggi i poeti.
> di metafora e traslato Giovanni ParaeUsi,€ermoais al conte
lllido a i nomi ; altri le fiamme Luigi Bellencmi Bagaesi.
ironzo sudar ^; Meviole selve
in celtico stilBavio de' mesti CCLX. Giudixii del popolo sopra
fischiar fa per le saie il vento. gV indegni fortunati , onorati ,
)6rre in te sol così lontani potenti,
i ambbci, t'è mestier d* un'arte
]uella difficile che mesce A par di lince
iste il iicor del lucid'oro , Vede acuto la plebe; e dopo il vano
sembiante in ogni verso acquisti Bagliore sa spiar la torbid* alma ,
irio e magniloquo, d'austero II rozzo ingegno, il ferreo cor , che tatto
reto» d*aspro e di gentile, L'utile si fa giusto; il falso aspetto,
) e .di moderno. Assai pur anco II doppio labbro ed i mal fidi orecdrì
[nel eh* io diro. S»un cibo incresce Di chi crebbe sul merto, al soffio cieco
mvitato sol di venti o trenta, De la fortuna: e in suo pensier l'abborre •
E il vilipende allor che meglio il pasce
'°,*^*l'^' ^ ., . ,,, . ,.„. . Di maenifici nomi e di servile
ade al famoso sonetto deir Achillioi, ~r., " . p * t\ «j^
ofuochi,a preparar meiaili.- il qoale Abbassamento. Ecco trapassa Ormondo,
■a esempio del pessimo abuso de'iras- Eretto in mezzo a 1 inchinate teste
li faceva nel seicento. ' Fecero. a Aggiungi* ' Saranno*
i68
CRESTOMAZIA POETICA
Del valgo pauroso. Odi, se Tozio
Te ne riman . Non volano sì fitte
Sul passeggier le paludose mosche.
Quanti scoccan su lui da' labbri accolti
Proyerbii e villanie. Mida ; i^jano;
Console di Caligola. Puoi tutte ,
S*hai veloce l'udito, a un punto solo
Raccor le infamie de T oscena vita.
Ma chi, parco di voglie e dì bisogni,
Ogni dono del Ciel pone a guadagno;
Chi modesto misura ogni sua forza,
Né, di se presumendo, osa inoltrarsi
Sia dove offenda il pubblico consenso;
A* suoi caro e a gli amici i giorni umili
Guida tranquillo , e più pregiato assai
De* gran possenti* e fuor del suo disegno,
Talor poggia al fastigio ove mi raro
Colle colpe e i sudor miil* altri iavano.
- Giovanni Paradisi, Sertncme al conte
Ippolito Malaguzzi.
CGLXI. I Sepolcri.
A IPPOLITO PINDKVONTB.
A l'ombra deVipressi, e dentro Turne
Confortate di pianto, è forse il sonno
De la morte men duro? Ove più il sole
Per me a la terra non fecondi questa
Bella d*erbc famiglia e d'animali;
£ quando, vaghe di lusinghe, innanzi
A me non danzeran l' ore jfuture ;
Ne da te, dolce amico, udrò più il verso,
E la mesta armonia che Io governa ;
Né più nel cor mi parlerà Io spirto
De le vergini muse e de T amore,
Unico spirto a mia vita raminga;
Qual fia ristoro a* d'i perduti un sasso
Che distingua le mie da le infinite
Ossa che, in terrae in mar, semina Morte?
Vero è ben.Pindemonte: anche la Speme,
Ultnna Dea, fugge i sepolcri; e involve
Tutte cose Tobblio ne la sua notte ;
£ una forza operosa le affatica
Di moto inmpto;el'uomo,e lesuetombe,
E r estreme sembianze e le reliquie
De la terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perchè pria del tempo a sé il mortale
Invidierà rilluslon che, spento,
Pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l'armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Ne la mente de' suoi? Celeste è questa
ConrispondeDza d'amorosi sensi,
Celeste dote è ne gli umani : e s^e^so
Per lei si vive con l'amico estinto,
£ l'estintOvCon noi ; se pia la terra
Che lo raccolse incinte e lo nutriva,
Nel suo grembo materno ultimo asilo
Porgendo, sacre le reliquie renda
Da l'insultar de' nembi, e dal profano .
Piede del vulgo; e serbi un sasso il nome;
E di fiori odorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consolf.
Sol chi non lascia eredità d'affetti
Poca gioja ha de 1* urna : e , se pur min
Dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
Fra'l compianto de* templi acherontei,
O rìcovrarsi sotto le grandi ali
Del perdono d'Iddio; ma la sua polve
Lascia a le ortiche di deserta gleba,
Ove ne donna innamorata preghi.
Né passeggier soiingo oda il sospiro
(^.he dal tuoiulo a noi manda Natwa.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
Fuor de'guardi pietosi, e il nome a*ittQrti
Contende. E senza tomba giare il tao
Sacerdote, o Talia, che a te, cantando,
Nel suo povero tetto educò un lauro
Con lungo amore, e t'appendea corone:
E tu gli ornavi del tao riso i canti
Che il lombardo pnngean SardanaptiO;
Cui solo è dolce il muggito de' buoi
Che da gli antri abdnani e dal Ticino
Lo fan d' ozii beato e di vivande.
O bella musa, ove sei tu? non sento
Spirar l'ambrosia, indizio del tnoBimc,
Fra queste piante, ov' io siedo e sopirò
Il mio tetto materno. E tn venivi
E sorridevi a lui sotto quel tiglio,
Ch' or con dimesse frondi va freinesdo
Perchè non copre, o Dea, l' ama del ^f^*
[dio
Cui già di calma era cortese e d'ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
Vagolando, ove dorma il sacro capo •
Del tuo Parini. A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D' evirati cantori allettatrice;
Non pietra, non parola: e forse l' ossi
Col mozzo capo gì' insanguina il ladro,
Che lasciò su 1 patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronclii
La derelitta cagna ramingando
Su le fosse, e famelica ululando,
£ uscir del teschio, ove f uggia la luna;
L' upupa, e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E r immonda accusar coi luttuoso
S\ft^\A.VQ vx^\d\dvft son pie le stelle
SECOLO 0ECIHONONO 16^
biiate sepolture. Indarno Da' lor mariti V imminente fato:
poeta, Dea, preghi rugiade Ivi Cassandra, allorché il nume in petto
[ualUda notte. Ahi, sa gli estinti Le fea parlar dì Troja il dì mortale,
rge fiore oye non sia d' amane
orato e d' amoroso pianto.
« te che il regno ampio de' venti,
), a' taoi verd anni correvi!
piloto ti drizzò l' antenna
' isole egee, d'antichi fatti
idisti sonar de 1* Ellesponto
ì la marea mugghiar portando
rode retee l' armi d' Achille
'ossa d'Ajace. A' generosi
di glorie dìspeifsiera è morte:
10 astuto, ne favor di regi
ICO le spoglie ardae serbava,
ia poppa raminga le ritolse
, incitata da gP inferni Dei.
Venne; e a l'ombre cantò carine amoroso;
£ guidava i nipoti, e l' amoroso
Apprendeva lamento a* giovanetti.
E dicea sospirando: oh se mai d'Argo,
i )yit al Tidide e di Laerte al figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il Ciel; invan la patria ▼ostri
Cercherete: le mura opra di Febo
Sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troja avranno stanza
In queste tombe: che de' numi e dono
Servar ne le miserie altero nome.
E voi, palme, e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi pre-
Di vedovili lagrime innaffiati; C sto.
Proteggete i miei pédri : e chi la scure
e, che i tempi ed il desio d' onore Asterrà pio da le devote frondi,
r diversa gente ir fuggitivo, Men si dorrà di consanguinei lutti,
evocar gli eroi chiamin le muse, E santamente toccherà l'altare.
Drtale peusiero animatrici,
custodi de' sepolcri: e, quando
pò con sue fredde ale vi spazza
'Ovine, le Pimplee fan lieti
canto i deserti; é l'armonia
di mille «ecoli il silenzio,
i ne la Troade inseminata
splende a' peregrini un loco ',
per la ninfa > a cui fu sposo
ed a Giove die Dardano figlio,
Proteggete i miei padri. Un di Tedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime pmbre; e brancolando,
Penetrarne gli avelli, e abbrarciarl' urne
E interrogarle. Gemeranno gii antri
Secreti; e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte, e due risorto
Splendidamente su le mute vie
Per far più bello- l'ultimo trofeo
A i fatati Pelidi. Il sacro vate,
ur Troia, e Assaraco, e icinquanta Placando quelle afflitte alme col canto,
, e il regno de la Giulia gente. I prenci argivi eternerà per quante
le, quando Elettra udì la Parca Abbraccia terre il gran, padre Oceano,
da le vitali aure del giorno £ tu onore di pianti, Ettore, avrai
iva a' cori de l' Eliso, a Giove Ove fia santo e lagrimato il sangne
I il voto supremo; e se, diceva. Per la patria versato, e finché il sole
ir care le mie chiome e il viso Risplenderà su le sciagure umane.
)lci vigilie, e non mi assente Foscoi».
ì miglior la volontà de' fati,
ta amica almen guarda dal cielo,
i' Elettra tua resti la fama.
'andò, moriva. E ne gemea
pio;e, Ti m mortai capo accennando,
da i crini ambrosia su la ninfa,
ero quel corpo, e la sua tomba.
ò Eriltonio, e dorme il giusto
d'Ilo: ivi l'iliache donne [cando
ean le chiome, indarno ahi depre-
!centi viaggiatori alla Troade scoperse*
'eliquie del sepolcro d' Ilo , antico
ide. Fosoélo,
atra figlia d' Atlante.
GCLXIi. A Luigia Pallamoini,
caduta da eavallo.
I balsami beati
Per te le Grazie apprestino,
Per te i lini odorati
Che a Citerca porgeano
Quando profano spino
Le punse il pie divino.
Quel dì che insana empiea
Il sacro Ida di gemiti,
E col crine tergea
E bagnava di lagrime
1
ilo
CRESTOMAZIA POETICA
Il sanguinoso petto
Al Ciprio giovinetto.
Or te piangon gli amori,
Te fra le dive liguri
Regina e diva! e fiori
Votiri a 1* ara portano
IT onde il grand* arco soona
Del figlio di Latona.
E te chiama la danza
Ove V aure portavano
Insolita fragranza,
Allor che a* nodi iojocile
La chioma al roseo braccio
Ti fu gentile impaccio.
Tal nel lavacro immersa,
Che fior, da V Eliconio
Clivo cadendo, versa,
Fidia da^r elmo i liberi
Crin su la man che gronda
Contien fuori de 1* onda.
Armoniosi accenti
Dal tuo labbro volavano,
£ da gii occhi ridenti
Traluceano di Venere
I disegui e le paci.
La speme, il pianto e i baci.
Deh! perchè hai le gentili
Forme e l'ingegno docile
Volto a studii virili?
Perchè non de V Aonit
Seguivi, incauta, l'arte,
Bla i ludi aspri di Marte?
Invan presaghi i venti
II polveroso agghiacciano
Petto e le reni ardenti
De r inquieto Alipede,
£d irritante il morso
Accresce impeto al corso.
Ardon gli sguardi, fuma
La bocca, agita V ardua
Testa, vola la spuma,
■Ed i manti volubili
Lorda, e l' incerto freno,
Ed il candido seno;
E il sudor piove, e i crini
Sul collo irti svolazzano,
Suonan gli antri marini
A Io incalzato scalpito
Da la zampa che caccia
Polve e sassi in sua traccia.
Già dal lido si slancia
Sordo a i clamori e al fremito.
Già già fino a la pancia
Nuota.,*, e ingorde si gonfiano
Non più memori T acque
Che una Dea da Inr nacque:
Se non che il Re de ronde,
Dolente ancor d'Ippolito,
Surse per le profonde
Vie dal tirreno talamo,
E respinse il furente
Col cenno onnipotente.
Quei dal flutto arretrosse
Ricalcitrando, e, orribile!
Sovra Tanche riao^se;
Scuote Tarcion, te misora
Su la petrosa riva
Strascinando mal viva.
Pera chi osò primiero
Discortese commettere
A infedele corsiero
L'agii fianco femineo,
E apri con rio consiglio
Nuovo a beltà periglio!
Che or non vedrei le rose-
Dei tuo volto sì languide,
Nou le luci amorose
Spiar ne* guardi medici
Speranza lusinghiera
De la beltà primiera.
Di Cintia il cocchio aurato
Le cerve un dì traeano:
Ma al ferino ululato
Per terrore insanirono,
E da la rupe etnea
Precipita la Dea.
Gioian d' invido rìso
Le abitatrici olimpie
Perchè T'eterno viso
Silenzioso e pallido
Cinto apparia d' un velo
A i conviti del cielo;
Ma ben piansero il gior no
Che da le danze efesie
Lieta facea ritorno
Fra le devote vergini,
E al ciel salia più bella
Di Febo la sorella.
Foscolo *
CCLXIII.^Zramtca risanata.
Qual da gli antri marini
L'astro più caro a Venere
Co' rugiadosi crini
Fra le fuggenti tenebre
Appare, e il suo viaggio
Orna col lume de l'eterno rag(po;
SKCOLO DECIMOTTAYO 171
Sorgon còsV tue dive Lei predicò la fama
Membra da l'egro talamo. Olimpia prole; pavido
E ia te beltà rivive, Diva il mondo la chiama,
L* aurea beltate oud* ebbero £ le sacrò l' elisio
Ristoro unico a' mali ^ Soglio, ed il certo telo,
Le nate a vaneggiar menti mortali. £ i monti e il carro de la lam ia M»»
Fiorir sul caro viso Are così a Bellona,
Veggo la rosa; tornano Un tempo infitta amazsone,
I grandi occhi al sorriso Die i^ vocale Elicona:
lasidiando; e vegliano Ella il cimiero e l* egida
Per te ia novelli pianti ^ Or contro T Anglia avara
Trepide madri e sospettose amanti. £ lecavalleed il furor prepara.
Le Ore che dianzi meste E quella a cui di sacro
Ministre eran de* farmachi. Mirto te vef^ dogcrc
Oggi 1* indica veste, Devota il simulacro,
E i monili cui gemmano Che presiede marmoreo
Effigiati Dei, A gli arcani tuoi lari,
tefito studio di scalpelli achei, Ove a me sol sacerdotessa aippari,
E i candidi coturni Regina fif; Citerà
E gli amuleti recano, £ Cipro, ove perpetua
Onde a' cori notturni ^ Odora primavera.
Te, Dea, mirando obbliano ' Regnò beata, e l* isole
I garzoni le danze, Che col selvoso dorso
Te principio d* affanni e di speranze : Rompono a gli Euri e al grande Ionio il cor -
quando V arpa adorui Ebbi in quel mar la culla: C so,
£ co* novelli numeri Ivi era ignudo spirito
E co' molli contorni Di Faon la fanciulla;
De le forme che facile E $e il notturno^ zeffiro
Bisso seconda: e intanto C to Blando su i flutti spira,
Fra il basso sospirar vola il tuo can- Suonano i liti un lamentar di Ura.
Più periglioso; o <juando Qnd' io, pien del nativo
Balli disegni, e 1* agile Aer sacro, su l* itala
G>rpo a 1* aure fidando, Grave cetra derivo
Ignoti vezzi sfuggono Per te le corde eòlie,
Da i manti e dal negletto E avrai, divina, i voti
Velo scompostosi sommosso petto. Fra gì* inni miei de le insubri nepoti.
A l'aggirarti, lente Foscolo,
Cascan k trecce nitide
Per ambrosia recente, CCLXIV. J)Ì8Corso ^di un contadino
Mal fide a l* aureo pettine in lode della vita conjugale.
E a la rosea ghirlanda
Che or con rai ma salute aprii ti man- Diamante bella, io non ho pan bianco;
Così ancelle é* Amore [ da. Cacio non ho; ned ova ne giuncata,
A te d'intorno\olano Da farti onor di questi doni almanco;
Invidiate l* Ore; Che da molti anni una trista brigata
Meste le Grazie mirino Fatto ha di me quel che de*greppiilver-
Chi la beltà fugace .[no:
Ti membra, e il giorno de l* eterna Ilpollajo e la madia han vendemmiata.
Mortale guida trice [pace. Abbiali tutti Iddio nel loco etemo;
D* oceani ne vergini E vada a la malorcia tutta quella
La parrasia pendice Peste di veri diascol del nioferno.
Teuea la casta Artemide; Ma per questo non fia, Diamante bella,
E fea terror di cervi Che 'l cuor del tuo Mencone a te non doni
Lungi fischiar d'arco cidonio i nervi. Quel che non sa la magherà scataelU.
n2 CRESTOMAZIA FOETICA
V Yo* del matrimonio ì cari doni, S' io ho l'aratro meco, eli' ba il cestello;
Il mele. Toro, le soavità, S*io schiudo il solco, ella vi getta ilseme:
Le gentilezze, le consolazioni SMo cantando do dentro a T orticello,
Mostrarti in parte. Né mi penso già Ella cantando lava e i panni sbatte:
(Parla ardito un villano, e non inganna) S'ella fa nulla, ed io gratto il porcello:
Queste cose mostrarti a la città, Finche poch'erbe e bruno pane e latte
Ma ne la pace de la mia capanna, In sul far bruzzo a un desco assiem cipo«
Dov'è l'amor di moglie e di marito Dove la fame co l'amor combatte, [ne,
Dolce più de la sapa e de la manna; Quando la faccia d' oro il Sol ripone ,
Che in villa non si caccia anello indilo E le bocche s'acconciano a i badigli.
Per satollar de lo argento la fame. Quanta è la gioja del tuo Menicone!
Ma ne spinge a le nozze altro appetito. Si fa la casa nn covo di conigli:
Là non si veggioo le dolenti dame S'adunan tutti; e mi ballano a canto
Del ben de io zecchino innamorate Sino i figli de' figli de* miei figli.
Pigliar de i brutti visi di tegame: [tate. Io non rattengo per la gio)a il pianto,
Poi'n paggi, *n cocchi, 'n vesti inargen- E li palpo e li stringo, e più beato
£ in chiassi ire accattando alcuna gioja, De' principi e de i re mi credo intanto.
Perchè vivon del meglio in poverlate. Vien, fanciulla, a veder che dolce stato!
Là non vien Gelosia, la sozza boja. Vieni, fanciulla,e ti so dir che un branco
Quella strega, quel drago avvelenato, Sempre vorrai di figlioletti a lato. .
Che co gli occhi trae l' uom fuor de le É chiusa la capanna; per lo bianco
[ quoja: Ciel la neve s'addensa, e '1 freddo vento
La Vergogna in gamurra di broccato Soffia e sbalte a iet{uerce il nudo fianco.
Dietro il povero Onor là non galoppa, Dan le appese lucerne un lume lento,
Che, se lo giugne , l* ammazza col fiato: £ fa di pochi stecchi un focherello
Là non trova bugiardo e fianco e poppa Picciola fiamma e picciol movimento.
Lo sposo meschinel, né fa disegno Qua Menichetta sta presso un £aLstello
Due terzi aver di carne ed uu di stoppa: Di lunghe paglie,eincerchiolecontesse,
ì^h vede come l'ossa meltan regno Onde '1 nonno la state abbia il cappello.
Proprio in mezzo del petto, e di vermiglio Più là Cecchino verdi giunchi intesse
Tinga le gialle guance il matto ingegno: A farne fiscellelte pel mercato,
Né fresca giovinetta ivi al cipiglio E comperarne ilsajoe le bracbesse.
Trema di tal, che fradicio e canuto Strimpella Pippo il cembalo scordato,
Empie ogni cosa di lungo bisbiglio, E s'appronta la Tancia a mattinare;
E pare in faccia il diavolo cornuto , Che Pippo per la Tancia è ammartellato.
E l' orco ne la pancia, ed è importuno Nencia sua suora s'acconcia a ballare,
Più del singhiozzo e più de lo starnuto. E alzando co la destra il gnarnelletto
Vieni, fanciulla mia , vien dentro il Fa la sinistra al fianco ciondolare.
[ bruno Ella è di Menicon Palma e 'l diletto,
Mio capannel: vedraivi il matrimonio Quand' ella compie il ballo s' inchina
Tutto fiorito, e^enza spino alcuno. [cH^)
Figlioletti vedrai tutti d' un conio. Poi torna indietro,e fiimmi unoscambiet-
Leggiadri tutti e da una mamma fatti , > [ to.
Ch* è piena d'ogni ben del comprendonio. Io come '1 sale str%gomi a vedellia,
Ella fa de la casa tutti i fatti: E, tremolando per gioja, appuntello
Dìspon Je masserizie tutte quante, Sovra i polsi la barba e la mascella.
Cura il porco, il marito, i figli e i gatti; Nudo e paffuto intanto nn bambinello
Levasi al lume de le stelle, e innante A le ginocchia veggiomi venire^
Che mi si rompa il sonnellin de )' oro Che ognor che'l veggo eglimi par più bello:
Risvegliali foco dal tizzon fumante; Sembra che di parlarmi; abbia desire;
Apre osci e serra; un cigolar sonoro Ma il me' che sappia è il farmi un risolino
Di carrucole senti; ed alto freme E guatarmi nel viso ed arrossire, [fino;
De* percossi telai l' aspro lavoro, [sieme, Le gambe ha in arco; il capo ha d* oro
Quando moviam per la campagna in- Grosse le braccia, e le guance han colore
\t siepe mai, ne per giardino
oa vide si polito fiore,
bujo: tu una stella il credi,
enue: è V angiolel d' amore.
SECOLO DECIMONONO HS
Strinse il laccio, e col corpo abbandonato
Da Tirto ramo penzolar Tu visto.
Cigolava lo spirito serrato
Dentro la strozza in suon rabbioso e tristo/
>eco e Ciapo, come tu mi vedi, E Gesù bestemmiava, e il suo pec cato
r veggio, e saltanmi sul collo, Ch* empiea V Avernodi cotanto acquisto.
braccia, ale ginocchia,a i piedi: Sboccò dal varco al fin con un ruggito .
mi corre giù per lo midollo Allor Giustizia TaiFerrò, e sul monte
Nel sangue di Gesù tingendo il dito,
Scrisseconquello al maledetto in fronte
Sentenza d* im mortai pianto infinito,
E lo piombò sdegnosa in Acheronte.
li dolcezza una tal vena,
il cuor ne porto e '1 ciglio mollo .
ai intanto la culla dimena,
lin, che dentro le sorride,
lormircon lunga cantilena,
a da Tarcolajo il fil divide,
una, che presso la balocca
i e di fate, attenta ride;
le fugge di mano la rocca,
do e inchinando appiè del foco,
, le muor sovra la bocca.
Piombò quell'alma a l' infenial riviera,
E si fé gran tremuoto in quel momento.
Balzava il monte, ed ondeggiava al vento
La salma in alto strangolata e nera.
Gli Angeli dal Calvario in su la sera
Partendo a volo taciturno e lento.
è più fiamma: solo ilcarbon fioco La videro da lunge, e per spavento
e il lume per le negre gole
erne cade a poco a poco,
i le donne,, né fan più parole:
isso la sera si stan quete
tte quand* è morto il sole,
cento carezze oneste e liete
nun sua persona a disbramare
3 sonno la soave sete.
:rc, Ganlileoa di MenicoDe Frufolo.
Si fér de 1* ale a gli occhi una visiera.
I demoni frattanto a T aer tetro
Calar r appeso, e l'infocate spalle
A r esecrato iucarco eran feretro.^
Così ululando e schiamazzando, il calle
Preser di Stige, e al vagabondo spctro
Resero il corpo ne la morta valle.
CLXV. Sopra la Morte.
'., che se' tu mai?Primo de i danni
rile e la rea ti crede e teme;
tta del Ciel scendi a i tiranni,
Poiché ripresa avea 1' alma digiuna
L' antica gravità di polpe e d' ossa.
La gran sentenza su la fronte bruna
In riga apparve trasparente e rossa.
A quella vista di terror percossa
Va la gente perduta: altri s'aduna
Dietro le piante che Cocito ingrossa,
[gilè tuo braccio incalza e preme: Altri si tuffa ne la rea laguna,
infelice, acui de i lunghi affanni Vergognoso egli pur del suo delitlo
r incarco, e morta in cuor la spe- Fuggia quel crudo, e, strettala mascella,
[me. Forte graffiava con la man lo scritto.
Ma più terso il rendea l'anima fella.
Dio tra le tempie gliel avea confitto,
Né sillaba di Dio mai si cancella.
Vincenzo Monti.
To implora troncator de gli anni,
l'appressar de l'ore estreme,
polve di Martee le vicende
il forte, che ne' rischi indura;
;io senza impallidir ti attende.
j, che se' tu dunque? Un'ombra CCLXVIl.PflZ ritratto di sua figlia.
[ oscura,
e, un male, che diversa prende Piùlaconlemplo, più vaneggio in quella
ifetli do r uom forma e natura. Mirabil tela; e il cor, che ne sospira,
Vincenzo Manti. Sì ne l' obbietto del suo amor delira,
Che gli amplessi n'aspetta e la favella.
:VL Sulla morte di Giuda. Ond'io già corro ad abbracciarla. Ed
[ella
l'infame prezzo, e disperato Labbro non move, ma b sguardo gira
> ascese il venditor di Crisloj Yér me sì lieto, che mi dice: or mira,
* 74 CRESTOMAZIA
Diletto genitor, quanto son bella.
Figlia, io rispondo, d' un gentil ser eno
Ridonine forme, e questa imago è diva
Sì che ogni tela al paragon vien meno.
Ma un'imago di te vegg* io più viva ,
£ la veggo sol io; quella che in seno
Al tuo tenero padre Amor scolpiva.
Vincenzo Monti,
CCLXVIII. Proiopopea di Pericle,
ALLA santità' di PIO SESTO.
lo de* forti Gecropidi
Ne 1* inclita famiglia
D' Atene un dì non ultimo
Splendore e maraviglia,
A ri veder io Pericle
Ritomo il ciel latino,
Trionfa tor de* barbari.
Del tempo e del destino.
In grembo al suol di Gatilo
(Funesta rimembranza!)
Mi seppellì del Vandalo
La rabbia e 1* ignoranza.
Ne ricercaro i posteri
Gelosi il loco e l' orme,
£ il fato incerto piansero
Di mie perdute forme*
Roma di me sollecita
Sen dolse; e a* figli sui
Narrò Tinfanda eccidio
Ove ravvolto io fui.
Garca d* alto rammarico
Sen dolse 1* infelice
Del marmo freddo e ruvido
Bell'arte animatrice;
£ d* Adriano e Cassio,
Sparsa le belle chiome.
Fra gP insepolti ruderi
M* andò chiamando a nome:
Ma invan;chè occulto o memore
Del già sofferto scorno
Temei novella ingiuria,
£d ebbi orror del giorno.
£d aspettai benefica
£tade in cui sicuro
Levar la fronte, e 1* etere
Fruir tranquillo e puro.
Al mio desir propizia
L' età bramata uscio,
£ tu sul sacro Tevere
La conducesti, o Pio.
Per lei già l'altre caddero
Men luminose e conte.
POETICA
Perchè di Pio non ebbero
L'augusto nome in fronte.
Per lei di greco artefice
Le belle opre felici
Van del furor de* secoli
Edel'obblio vittrici.
Vedi dal suolo emergere
Ancor parlanti e vive
Di Periandro e Antistene
Le sculte forme argive.
Da rotte glebe incognite
Qua mira uscir Biante,
Ed ostentar 1* intrepido
Disprezzator sembiante:
Là sollevarsi d' fischine
La testa ardita e balda.
Che col rivai Demostene
A la tenzon si scalda.
Forse restar doveamì
Fra tanti io sol celato,
£ miglior tempo attendere
Da l'ordine del Fato?
Io. che d'età sì fulgida
Più eh' altri assai son degno?
lo de la man di Fidia
Lavoro e de l' ingegno?
Qui la fedele Aspasia
Consorte a me diletta ,
Donna del cor di Pericle,
Al fianco suo m' aspetta.
Fra mille volti argolid
Dimessa ella qui siede,
£ par che afflitta lagnisi,
Che il volto mio non vede.
Ma ben vedrallo : immemore
Non son del prisco ardore :
Amor lo desta, e serbalo
Dopo la tomba Amore.
Dunque a colei ritornano
I Fati ad accoppiarmi.
Per cui di Samo e Gamia
Ruppi r orgoglio e ì' armi ?
Dunque spiranti e lucide
Mi scorgerò dintorno
Di tanti eroi le immagini
Che furo Elleni un giorno?
Tardi nepoti e secoli,
Che dopo Pio verrete ,
Quando lo sguardo attonito
Indietro volgerete.
Oh come fi^ che ignobile
Allor vi sembri e mesta
La bella età di Pericle
Al paragon di questa l
SECOLO DECIMONONO
i75
£ppur d* Atene i portici^
1 templi e V ardue mura
Noa mai più belli apparvero
Che quando io 1* ebbi in cura.
Per me nitenti e morbidi
Sotto la man de' fabri
Volto e vigor prendevano
I massi informi e scabri.
Ubbidiente e docile
II bronzo ricevea
I capei crespi e tremoli
Di qualche ninfa o dea.
Al cenno mio le parie
Montagne i fianchi aprirò ,
E da le rotte viscere
Le gran colonne uscirò.
6i lamentaro i tessali
Alpestri gioghi anch* essi
Impoveriti e vedovi
Di pini e di cipressi.
Il fragor de l'incudini,
De* carri il cigolio ,
De' marmi ofiesi ih gemere
Per tutto allor s'udio.
11 cielo arrise: Industria
Corse le vie d* Atene ,
£ n' ebbe Sparta invidia
Da le propinque arene.
Ma che giovò ? Dimentici
De la mia patria i !Numi ,
Di Roma alfin prescelsero
Gli altari ed i costumi.
Grecia fu vinta , e videsi
Di Grecia la mina
Keuder superba e splendida
La povertà latina.
Pianser deserte e squallide
Allor le spiagge achive ,
E le beir Arti torsero
Del Tebro su le rive.
Qui poser franche e libere
II fuggitivo piede ,
£ accolte si compiacquero
De la cangiata sede ;
Ed or fastose obbliano
L' onta del goto orrore ,
Or che il gran Pio le vendica
Del vilipeso onore.
Vivi , o 'Signor ; tardissimo
AI mondo il Ciel ti furi,
£ coli* amor de' popoli
Il viver tao misuri.
Spirto profan de l' Èrebo
A r ombrie avvezzo io sono ;
Ma i voti miei non temono
La luce del tuo trono.
Anche del greco Elisio
Nel disprezzato regnò
V* è qualche illustre sfiAìo
Che d' adorarti è degno.
Fincenso Mauté,
CCLXIX. Al signor di Montgolfier.
Quando Giason dal Pelio
Spinse nel mar gli abeti ,
£ primo corse a fendere
Co' remi il seno a Teti ,
Su l' aha poppa intrepida
Col fior del sangue acheo
Vide la Grecia ascendere
Il giovinetto Orfeo.
Stendea le dita eburnee
Su la materna lira ;
£ al tracio suon chetavasi
De' venti il fischio e l' ira.
Meravigliando accorsero
Di Doride le figlie ;
Nettuno a i verdi alipedi
Lasciò cader le briglie.
Cantava il Vate odrisio
D' Argo la gloria intanto ,
E dolce errar sentivasi
Su l' alme greche il canto.
O de la Senna, ascoltami ,
Novello Tifi invitto :
Vinse i portenti argolici
L'aereo tuo tragitto.
Tentar del mare i vortici
Forse è si gran pensiero ,
Come occupar de' fulmini
L' inviolato impero ?
Deh! perchè al nostro secolo
Non die propizio iPFato
D' un altro Orfeo la cetera ,
Se Montgolfier n' ha dato ?
Maggior del prode Esonide
Surse di Gallia il figlio.
Applaudi , E'uropà attonita ,
Al volator naviglio.
Non mai Natura, a l'ordine
De le sue leggi intisa ,
Da la potenza chimica
Soffri più bella offesa.
Mirabil arte , ond' alzasi
Di Sthallio e Black la fiuna^
Pera lo stolto Cinico
Che frenesia ti chiama.
J76
CRESTOMAZIA POETICA
De' corpi entro le viscere
Tu l* acre sguardo avventi ,
E invan celarsi tentano
Gì' indocili elementi.
Da le tenaci tenebre
La verità traesti , «
E de le ranche ipotesi
Tregua al furor ponesti.
Brillò Sofia più fulgida
Del tuo splendor vestita ,
E le sorgenti apparvero ,
Onde il creato ha vita .
L* igneo terribil aere ,
Che dentro il snoi profondo
Pasce i tremnoti , e i cardini
Fa vacillar del mondo ,
Reso innocente or vedilo
Da* marzii corpi uscire ,
E già domato ed utile
Al domator servire.
Per lui, del pondo immemore,
Mirabil cosa ! m alto
Va la materia , e insolito
Porta a le nubi assalto.
Il gran prodigio immobili
I riguardanti lassa ,
E di terrore un palpito
In ogni cor trapassa .
'J'ace la terra, e suonano
Del ciel le vie deserte : ;
Stan mille volti pallidi,
E mille bocche aperte.
Sorge il diletto e i' estasi
In mezzo a lo spavento,
E i- pie mai fermi agognano
Ir dietro al guardo attento.
Pace e silenzio, o turbini:
Deh ! non vi prenda sdegno
Se umane salme varcano
De le tempeste il regno.
Aattien la neve, o Borea,
Che giù dai crin ti cola ;
1/ etra sereno e libero
Cedi a Robert che vola.
Non egli Ti«^n d* Orizia
A insidiar le voglie :
Costa rimorsi e lagrime
Tentar d' un dio la moglie.
Mise Teseo ne i talami
De V atro Dite il piede :
Pusillo il Fato, e in Èrebo
Fra ceppi eterni or siede.
Ma già di Francia il Dedalo
Ne] m» de P aure è lunge :
Lieve lo porta Zeffiro,
E r occhio appena il giunge.
Fosco di là profondasi
Il suol fuggente ai lumi,
E come larve appajono
Città , foreste e fiumi.
Certo la vista orribile
L' alme agghiacciar dovria ;
Ma di Robert ne l'anima
Chiusa è al terror la via.
E già 1* audace esempio
I più ritrosi acquista ;
Già cento globi ascendono
Del cielo a la conquista.
Umano ardir, pacifica
Filosofìa sicura,
Qual forza mai, qual limite
II tuo poter misura ?
Rapisti al ciel le folgori.
Che debellate innante
Con tronche ali ti caddero,
E ti lambirle piante.
Frenò guidato il calcolo
Dal tuo pensiero ardito
De gli astri il moto e Forbite,
L'Olimpo e 1* infinito.
Svelaro il volto incognito
Le più rimote stelle,
Ed appressar le timide
Lor vergini fiammelle.
Del sole i rai dividere.
Pesar quest* aria osasti ;
La terra, il foco, il pelago,
Le fere e l* uom domasti.
Oggi a calcar le nuvole
Giunse la tua virtute,
E di natura stettero
Le leggi inerti e mute.
Che più ti resta? Infirangerc
Anche a la Morte il telo,
£ de la vita il nettare
Libar con Giove in cielo.
Vincenzo Monti.
CCLXX. Ad Amarilli Etrusca,
Nembo di guerra intorno fremeemortC;
E di Gradivo la crudel sorella
Gli anelanti cornipedi flagella
Su l'ifaliche porte.
Sotto Pugna immortai fuma e si scuote
De l' Alpe il fianco; da i percossi fonti
Alzano i fiumi le atterrite fronti
Al^passar de le rote.
SECOI.O DECIxMONONO
477
E tortuose giù per V erta china
Cercano l* onde liquefatte il calle ,
Meste avvisando per l'ausonia valle
La marzìal mina.
Che faremo, Amarilli? A i dolci canti
De le fanciulle ascree, T aspre tenzoni
Mal di Bellona si confanuo, e i tuuni
De* bronzi fulminanti.
Ne questo, che le fiere alme lusinga,
Clangor di trombe, e nitrir di cavalli,
Ben si concorda a gli apollinei baili ,
£ al suon de la siringa.
E nondimeno sacerdoti e servi
Non siam d'imbelle iddio. Come la cetra,
Febo al fianco sonar fa la faretra,
E di grand' arco i nervi.
Delfo e Troja lo sanno , il sa di Tebe
La mal feconda donna, e un giorno tutte
Del sangue de' Ciclopi orride e brutte
Le siciliane glebe.
Lungi dunque il timor; che non s'offende
Impunemente la castalia fronda ,
E quel crine è fatai che si circonda
De le delfiche bende.
Di Crìse il dica la vendetta acerba ,
Quando Apollo sonar fé l'omicide
Frecce su i Greci, e castigò d' Atride
La ripulsa superba.
Auspice un tanto diOjSciogli tranquillo,
Ninfa divina, il canto, e l'alme scuoti
A i severi difficili nipoti
Di Curio e di Camillo.
O far ti piaccia le virtù romane
Segno a gli strali de* veloci carmi,
d'Ilici campi lagrimosi, o l'armi
£ le colpe tebanc;
O de r Aurora i furti, o le fatiche
Narrar d' Argo ti giovi, e maga in Coleo
Impallidir su l'incantato solco,
O sospirar con Psiche.
Teco vien la pietà, teco il diletto,
lego eleganza ne' bei modi ardita ,
E quel che al cor si sente, e non s'imita^
Parlar facondo e schietto.
Questa di carmi amabii arte in alto
Di Teo levò la gloria e di Venosa,
E r onor di colei che dolorosa
Spiccò dì Leuca il salto.
Di lesbia musa che le valse il vanto ?
Che le valse il favor di Citerea,
Che i passeri aggiogando a lei scendea
Ad asciugarle il pianto ?
Nume più grande Amor con le divine
Leopardi, Crestomazia, lì.
Eterne punte le piagava il fianco.
Finché l'Ionio a l'egro spirto e stanco
£ al suo furor die fine.
Vincenzo Monti.
CCLXXI. Visione d'Ezechiello. «
Colà dove il real padre Erìdàno
Da i campi ocnei scendendo urta con fiero
Corno la riva a la diritta mano,
A respirar d' un venticel leggiero
I molli fiati , che venia dal monte ,
Mi trassi in compagnia del mio pensiero.
Del chiaro sole mi feria la fronte
II raggio mattutin , tal che più schietto
Non comparve giammai su l' orizzonte.
Vista sì dolce a l'affannato petto
Di mie cure togliea 1' aspro tormento ,
Insolito spirando almo diletto.
Quando mugghiar da l'Aquilone io sento,
£ repente appressarsi un procelloso
Turbo, forier di notte e di spavento.
Cclossi il dì sereno, e al minaccioso
Passar del nembo V onda risospinta
Si sollevò da l'imo gorgo ascoso;
E quindi in giro strascinata e spinta
Dal vorticoso vento ecco scagliarsi
Nube di lampi incoronata e tinta,
£ tutta a me d'intorno avvilupparsi,
£ in un baleno colle gravi some
De r oppresse mie membra alto levarsi.
A quel trabalzo per terror le chiome
Mi si arricciaro; ed io da tergo intanto
Voce sentii che mi chiamò per nome.
Scrivi(gridò)quelchetu vedi. — Al santo
Suon di queste parole un terso vetro
Si fé tosto la nube in ogni canto.
Guardai davanti, e mi rivolsi indietro,
E campo d' insepolte, inaridite
Ossa m' apparve abbominoso e tetro.
O voi , che sani d' intelletto udite
Gli alti portenti e il favellare arcano^
Quel ch'io già scrivo nel pensier scolpite.
Vidi. In aspetto spaventoso e strano
Di scheletri facea 1' orrida massa
Funesto ingombro al desolato piano.
L' altere ciglia in riguardarli abbassa
Il fasto umano, e balda'izosa in atto
Morte col piede li calpesta e passa.
Io timido mi stava e stupefatto
A l'oggetto fera), quando spiccossi
Un lampo , e corse per l'immenso tratto.
X Per UQ celebre predicatore iu Ferrara.
12
<78
CRESTOMAZIA POETICA
\
Tremò del del la porta, e spalancossi,
S' incurvar rispettosi i firmamenti,
E da le sfere un Cherubin calossi ;
Volò su le robuste ale de* venti.
Carche di foco e fumo avea le spalle ,
K un cerchio in fronte di carboni ardenti.
Venia rotando per 1* etereo calle
Di baleni una pioggia, e ritto alfine
Fé r mossi in mezzo a la tremenda valle.
^e misurò col guardo ogni confine ;
Fé poscia un cenno colla destra, e inuante
Uom gli comparve di canuto crine.
£ra placido e grave il suo sembiante ,
E lunga a lui da gli omeri una vesta
Sacer dotai scendea fino a le piante.
Chinò la faccia riverente onesta
Quell' ignoto ministro, e il Cherubino
La mano gli posò sopra la testa;
Poi staccossi dal capo aureo divino
Un acceso carbon diffonditore
Di spirito possente e pellegrino ,
£ i labbri gli toccò. L' igneo calore
Avvampò su le guance, e via discese
Più violento a ribollir nel core.
£ dopo il portentoso Angelo prese
Di mele un favo, e su la bocca intero
Del buon servo io sciolse e lo distese.
Parla (quindi gli disse in tuon severo)'
Parla a quest' ossa algenti, e riverito
Fia di tua voce il sacrosanto impero.
Ed egli ubbidiente alzando il dito
Gridò: Sorgete, aridi teschi, or ch'io
£ membra e polpe a rivestir v'invito.
Tacqùe;c tosto un bisbiglio, un brulichio.
Ed un cozzar di cranii e di mascelle
£ di logore tibie allor s' udio.
Già tu le vedi frettolose e sn^^IIe
Ricercar >i a vicenda, e insiem legarne
Le congiunture , e vincolarsi in quelle.
Vedi su l'ossa rbalir la carne,
Intumidirsi il ventre, e il corpo tutto
Di liscia pelle ricoperto andarne.
Ma giacca questo ancor vóto ed asci ulto
])el vivo spirto, che dal colle eterno
1 Jn dì si trasse a passeggiar sul flutto.
Che fai, lent()?(esclamòl'Angel superno)
Lo spirlo eccitalor d'aure viventi
Di queste salme ornai chiama al governo.
l.e ispirate di Dio voci possenti
^^^in|sc P altro dal labbro, e tosto venne
Quello spirto da i quattro opposti venti.
Si dolcemente dibattea le penne,
(he soffiando ne i corpi a poco a poco ,
Ve rizzarli su i piedi, e li sostenne.
h
I
Svegliò nel petto de It riti il foco«
Scosse le fibre ed agitò le vene,
Ed ogni caldo umor corse al «uo loco.
Dispensa Irice di novella spene
Allor rifulse un* iride tranquilla
Su le volte del cielo ampie e serene.
La mia nube d'incontro arde e sfavilh
Di pacifica luce, e mi percuote
D' ineffabili raggi la pupilla. £
Più forte intanto s' infiammar le gote [
Di lui, che fu dal Cherubin prescrìtto
Operator di sì beli' opre ignote ; {)
E a quelli che ascoltando il santo editto •:
De la divina inimitabil voce
Fatto da morte a vita avean tragitto ,
Piantò in faccia un feral tronco di croce, ;
£ nel sembiante scintillò di zelo
Divorator che l' alma investe e caoce.
Piegossi allor per rìverenia il cielo
A r arbore adorato, e curvo a gli occhi
Si ff coli' ale il Cherubino un velo.
Al grand' esempio inteneriti e tocchi
Di penitenza i figli umilemente
A bbassaro la fronte ed i ginocchi;
E un cupo pianto udissi, ed un frequente
Picchiar di petti,e un sospirar cheti Nomi i
Come fumo ascendea d' incenso ardente. \
Quindi alzòl'oom di Dio tre volte ilumit
E favellò. Dal labbro amico e dolce
Gli uscian soavi d' eloquenza i finrai;
Qual mattutino venticel che moke
La fresca erbetta, e in margine al ruscello
Lambisce i fiori, li lusinga e folce.
Egli parlò d'un mansueto Agnello;
E fu sì mite il suo parlar , che il eoie
Mi sentii tutto innamorar per quello:
Parlò de la pietà del mio Signore ;
E fu SI caro il suo parlar, che in viso
Spirommi il fiato de l' eterno amore :
Parlò de la beltà del paradiso;
E fu sì vago il suo parlar, che attenti
L* udirò i cieli, e lampeggiar d*an riso:
D' una madre narrò gli aspri tormenti;
~E fu sì mesto il suo narrar, che i monti
Squarciaro il fianco a i dolorosi accenti.
Poscia degli empii a sgomentar lefìron-
Le parole vibrò, qual furibondo [ti
Torrente che rovescia argini e ponti.
Tuonò sul fuoco del tartareo fondo;
E fu sì forte quel tuonar, che spinto
Mi credetti a l' abisso imo e profondo.
D' ira nel volto e di squallor dipinta
Tuonò nunzio di stragi e di procelle,
E Libano si scosse e l'creUnto:
•|
SKCOLO DFCliMONONO i 79
sul giorno in cai verran le agnelle Là del Crealo so le rive estreme
retti divise, e al saon di tromba S* odon le mura flagellar del mondo;
i in cielo vacillar le stelle; Simili a un mar che per burrasca fre**
re un fiero turbine che romba £, sdegnando il confine, le bollenti [me,
oso per Tarla, e alfìn sui campi Onde solleva, e il lido assorbe e preme,
isi trabalza e piomba. [pi Poi ministra di luce e di portenti,
|uesto mezzo per gli eccelsi rdam- Delciel volando pe i deserti campi,
Olimpo il Cherubino un nembo Seminasti di stelle i firmamenti.
li tanti e si focosi lampi, Tu coronasti di sereni lampi
{morto io caddi e abbarbagliato AlSollafronte;eperteavviencheilcrint
C in grembo De le comete rubiconde. avvampi;
ia nube che al disotto aprissi; Che agliocchìdiquaggiùspogliatealfi-
onato da quel denso lembo Del reo presagio di feral fortuna, [ne
[ui su l'erba, e quel che vidi io Invian fiamme innocenti e porporine.
[ scrissi. Di tante faci a la silente e bruna
Vincenzo Monti. Notte trapunse la tua mano il lembo,
£ un don le festi de la bianca luna;
CCLXXII. La bellezza £ di rose a l'aurora empiesti il grembo,
deWuniverso. Che poi sovra i sopiti egri mortali
Piovon di perle rugiadose un nembo,
mente di Dio candida figlia, Quindi a la terra indirizzasti l' ali,
'Amor germana, e di Natura £d ebber dal poter de' tuoi splendori
: compagna e maraviglia. Vita le cose inanimate e frali.
s de' dolci affetti , e dolce cura Tumide allor di nutritivi umori
m che varca pellegrino errante Si fecondar le glebe, e si fér manto
ralle d'esilio e di sciagura; Di molli erbétte e d'olezzanti fiori,
tu, diva Bellezza, un risonante Allur, de gli occhi lusinghiero incanto,
IO di lode, e nel mio petto Crebber le chiome a i boschi, e gli arbn-
iio tramandar del tuo sembiante? [scelii
la luce tua l'egro intelletto [no Grato stillar da le cortecce il pianto,
oscurato, e i miei pensier sen van- Allor dal monte corsero i ruscelli
in faccia al nobile subbletto. Mormorando, e la florida riviera
nal principio al canto, o Dea, da- Lambir freschi e scherzosi venticelli.
f e dovè mai degne parole [ranno Tutta del suo bei manto primavera
gine tua trovar potranno? Copria la ferra: ma la vasta idea
il ancora la terrestre mole Del gran Fabbro compita ancor non era.
i sepolta ne l' abisso informe, Di sua vaghezza inutile parca
i con lei la luna e il sole; Lagnarsi il suolo; e con più bel desiro
del sommo Facitor su V orme Sguardo e amor di viventi almeattendea.
o con esso preparavi Tu allor raggiante d* un sorriso in giro
mondo l'ordine e le forme. De i quattro venti su le penne tese
l'eterna Sapienza, e i gravi L'aura mandasti del divino spiro,
sier ti venia manifestando La terra in S''n l'accolse e la comprese,
a santi d'amor nodi soavi. £ un dolce movimento, e un brividio
correa per T infinito; e quando Serpeggiar per le viscere s' intese ; ^
>e del nulla ombre ritrose Onde un fremito diede, e concepio,*
>ssente creator comando £ il suol, che tutto giàs' ingrassa e figlia,
fé tulle le mondane cose, La brulicante superficie aprio.
rreggiar de gli elementi infesti Da le gravide glebe, oh maraviglia!
e calma Inaspettata impose. Fuori allor si lanciò scherzante e presta
i essa a la grandeopra scendesti, La vaga de le belve ampia famiglia:
sscnte man del furibondo £cco dal suolo liberar la testa,
cnebre indietro re«pingesti. Scuoter le giubbe, e tutto uscir d' un salto
m muggito orribile e profondo 11 biondo imperator de la foresta:
180 CRESTOMAZIA POETICA
Ecco la tigre e il leopardo in allo £ passeggi sul dorso a le tempest c:
Spiccarsi fuora de la rotta bica. Ivi spesso d'orror gli occhi sereni
£ fuggir ne le selve a snito a salto. Ti copri, e mille intorno al capo accenso
Vedi solfo la zolla, che IMmplica,. Rugghiano i tuoni, e strisciano i baleni.
Divincolarsi il bue, che pigro e lento Sia sotto il vel di tenebror sì denso
Isviluppa le gran membra a fatica. Non ti scorge del vulgo il debil lame, {
Vedi picn di magnanimo ardimento Che si confonde ne l* error del senso. '
Sovra i piedi balzar ritto il destriero, Sol ti ravvisa di Sofia l'acume, '
£ nitrendo sfidarnel corso il vento; Che ne le sedi di natura ascose |
Indi il cervo ramoso, ed il leggiero Ardita spinge del pensier le piume. I
Daino fugace, e mille altri animanti. Nel danzar de le stelle armoniose
Qual mansueto, e qual ritroso e fiero, Ella ti vede, e ne P occulto amore
Altri per valli e per campagne erranti, Che informa e attragge le create cose.
Altri di tane abitator crudeli, Te ricerca con occhio indagatore
Altri de V uomo difensori e amanti. Di botaniche armato acute lenti
E lor di macchia differente i peli Ne le fibre or d* un' erba ed or d' un fiore:
Tu di tua mano dipingesti, o Diva, Te de i corpi mirar ne gli elementi
Con quella mano che dipinse i cieli. Sogliono al gorgoglio d'acre vasello
Poi de' color più vaghi, onde l'estiva 1 chimici curvati e pazienti.
Slagion de le campagne orna l'aspetto, Ma più le tracce del divin tuo bello
E de' freschi ruscei smalta la riva. Discopre la sparuti anatomia
L'ale spruzzasti al vagabondo insetto. Allorché, armata di sottil coltello,
E le lubriche anella serpentine ' 1 cadaveri incide, e l'armonia
Del più caduco vermicciuol negletto. De le membra rivela, e il penetrale
Ne qui ponesti a l'opra tua confine; Di nostra vita attentamente spia.
Ma vie più innanzi la mirabil traccia uomo, o del divin dito immortale
Stender ti piacque de l'idee divine. Ineffabil lavor, forma e ricetto
Cinta dunque di calma e di bonaccia Di spirto e polve moribonda e frale,
De le marine interminabil' onde Chi può cantar le tue bellcMe? Al petto
Lanciasti un guardo su l'azzurra faccia. Manca la lena, e il verso non ascende
Pi^netrò ne le cupe acque profonde « Tanto che arrivi a l'alto mio concello.
Quel guardo, e con bollor grato Natura Fronte che guarda il cielo, e ti ciclo
Inliopidille, e diventar feconde; [tende;
£ tosto varii d'indole e figura Chioma che sopra gli omeri cadente
Guizzare i pesci, e fin da l'ime arene Or bionda,orbruna, il capo orna e difende;
Tutta increspar la liquida pianura. Occhio, de l'alma interprete eloquente»
I delfiu snelli colle curve schiene Senza cui non avria dardi e faretra
Uscir danzando; e mezzo il mar coprirò Amor, né l'ali, ne la face ardente;
Col va.<;lissimo ventre orche e balene. Bocca d'onde esce il riso che penetra
Fin gli scogli e le sirti allor sentirò Dentro i cuori, e l'accento si dbserra.
Il vic[»>r di quel guardo e la dolcezza, Ch'or severo comanda, or dolce impetra;
E di coralli e d'erbe si vestirò. ilczza, Mano che tutto sente e tulio afferra,
Ma che? Non son , non sono, alma Bel- E ne l' arti incallisce, e ardita e pronta
H mar, le belve, le campagne, i fonti Cittadi innalza, e opposti monti atterra ;
H sol teatro de la tua grandezza: Piede su cui l'uman tronco si ponta ,
Anche sul dorso de i petrosi monti E parte e riede, e or ratto ed or reslip
Talor l' assidi maestosa, e rendi Varca pianure, e gioghi aspri sormonta
Belle de 1' alpi le nevose fronti: E tutta la persona entro il cuor mio
Talor sul giogo abbrustolalo ascendi La maraviglia piove, e mi favelb .
Del fumante Etna, e ne l' orribil veste Di quell' allo saper che la compio.
De le sue fiamme ti ravvolgi e splendi. Taccion d'amor rapiti intorno ad ella
Tu del nero aquilon su le funeste La terra, il cieh; ed io son io, v' è sculto,
Aie per l'aria alteramente vieni. De le create cose la più bella.
SECOLO DECrMONONO \Bi
]aal nuovo dMdee dolce tumulto! Del tuo vate guidasti, e la parola?
iggio amico dele membra or viene Torna, amabile Dea, torna al primiero
liararmi il laberinto occulto? Cammin terrestre, né mostrarti schiva
go muscoli ed ossa e nervi e vene, Di minor vanto e di minore impero,
il sangue e le fibre, onde s'alterna Torna; e, se cerchi errante fuggitiva
loto che la vita urta e mantiene; Devoti per T Europa animi ligi,
ne i legami de la salma interna, E tempio degno di si bella Diva,
randa prigton! cerco, e non veggio ^ou t* aggirar del morbido Parigi
to che la move e la governa. Cotanto per le vie, né su le sponde
sento io ben che quivi ha stanza e De laNeva, de Tlstro e del Tamigi,
a luce di ragion guidato [seggio, Volgi il guardo d'Italia a le gioconde
le parti il trovo, e Io vagheggio: Alme contrade, e per miglior cagione
)irto, oim mago del' Jìterno, e fiato Del fiume tiberin fermati a Tonde,
ille labbra, a la cui voce il seno Non è straniero il loco e la magione,
irciò de l'abisso fecondato/ Qui fu dove dal Cigno venosino
e andar l'innocenza ed il sereno Vagheggiar ti lasciasti e da Marone;
pura bfltà, di cui vestito E qui reggesti del pittor d'Urbino
idesti nel carcere terreno? I sovrani pennelli, e di quel d'Arno
i, misero! t'han guasto e scolorito « Michel più che mortale Augel divino,
ia, ambizTon, ira ed orgoglio, Ferve d'almesi grandi, e non indarno,
la colpa ti fero il turpe invito! Il genio redivivo. Al suol romano
tua raf^ione trabalzar dal soglio, D' Augusto i tempi e di Leon tornarno.
ro, deluso ed abbattuto Vedrai stender giulive a te la mano
andonàr ne l'onta e nel cordoglio, Grandezza e Maestà, tue suore antiche,
^ome incauto pelicgrin raduto Che ti chiaman da lungi in Vaticano,
man dei ladroni, allorché dorme T' infioreranno le beli' Arti amiche
idostanco e d'ogni luce muto; La via dovunque volgerai le piante,
pur sul volto le reliquie e l'orme, Te propizia invocando a le fatiche,
turbo de gli aifetli e la rapina, Per te a l'occhio divien viva e parlante
pur anco de l' antiche forme: La tela e il m<isso; ed il pensiero è in forsi
cor de l'alta origine divina Di crederlo insensato, o palpilante:
i segni riconosco; ancora Per te di marmi i duri alpestri dorsi
Ilo e grande ne la tua rovina. Spoglian le balze tiburline, e il monte
al ardua antica mole, a cui talora Che Circe empieva di leoni e d' orsi;
Igore del cielo il fianco scuota, Onde poi mani architettrici e pronte
tempo che tutto urta e divora. Di moli-aggravan la Ialina arena ,
na di solchi, ma pur salda e immota D' eterni fianchi e di superba fronte:
, e d'offese e danni carca aspetta Per te risuona la notturna scena
emico maggior che la percota. Di possente armonia, che l'alme bea,
a i' eccidio e 1' orror de la soggetta E gli affetti lusinga ed incatena;
vole Natura, ove l'immerse E questa selva, che la selva ascrca
i lusinga e una fatai vendetta, Imita, e suona di febeo concento,
i bella intanto la Virtude emerso, Tutta è spirante del tuo nume, o Dea:
astro che splendor ne l'ombre ac- £ questi lauri che tremar fa il vento,
[ quista, E queste che premiam tenere erbette,
riso i pianti di quaggiù converse. Sono d' un tuo sorriso opra e portento:
r lei gioconda e lusinghiera in vista E tue pur son le dolci canzonette
resenta la mortcj e l'amarezza Che ad Imeneo cantar dianzi s'intese
ni sventura col suo dolce è mista: L'arcade schiera su le corde elette.
i guarda il ciel da la superna altezza Stettero al grato suon l' aure sospese,
amanti pupille; e per lei sola E il bel Parrasto a replicar fra nui
•parenta de 1' uomo a la bassezza. Di I<uigi e ( ostanza il nome apprese.
i dove, Diva del mio canto, vola Ambo cari a te sono, e ad ambidui
Jace immaginar? dove il pensiero 3u Taroabil sembiante un feritore
482 CRESTOMAZIA POETICA
Reggio imprimesti de*l>eglì occhi tui; E sol del nome fa tremar la terra.
Raggio che prese poi la via del core, Stanle intorno l'Erinni, e le fan piazza, ì
£ di Virtù congiunto a l* aurea face E allacciando le van Pclmo e la maglia {
Fé ne l' alme avvampar quella d' Amore. De la gorgiera e de la gran corazza;
Vien dunque, amica Diva. 11 Tempo Mentre un pugnai battuto a la tanaglia
Fatai nemico, co la man rugosa [ edace, De*fabbri di Oocito in man le caccia,
Ti combatte, ti vince e ti disface. E la sprona e V incuora a la battaglia.
Egli il color del giglio e de la rosa Un' altra Furia di più acerba faccia ,
Toglie a le gote più ridenti, e stende Che inFiegragià del cielo assalseilmiffo,
Dappertutto la falce ruinosa. E armò di Briareo le cento braccia;
Ma , se teco Virtù s'arma e discende Di Difagora poscia e d' Epicuro
Nel cuor de l' uomo ad abitar sicura, Dettò le carte , ed or le Franche scuole
Bassa il veglio rapace, e non t'offende; Empie di nebbia e di blasfema imporo ;
E solo allorché fia che di Natura E con sistemi e con orrende fole
£i franga la catena, e urtate e rotte Sfida 1' Eterno ; e il tuono e le saette
De 1' universo cadano le mura, Tenta rapirgli , e il padìglion del sole.
£ spalancando le voraci grotte Come vide le facce maledette
L' assorba il Nulla, e tutto lo sommerga Arretrossi d' Ugon 1' Ombra turbata ,
Nel muto orror de la seconda notte. Che in inferno arrivar la si credette ;
Al fracassato Mondo allor le terga E in quel sospetto sospettò cangiata
Darai fuggendole su l'eterna sede. La sua sentenza^ e dimandar Volea
Ove non na che Tempo ti disperga, Se Ira l' alme perdute iva dannata.
Stabile fermerai l'eburneo piede. Quindi tutta per tema si stringea
Vincenzo Monti. Al SUO conducitor , che pensieroso
Le triste soglie già varcate avea.
CCLXXIII. Partii ne* tempi della ri- Era il tempo che sotto al procelloso
voluzionc, e morte di Luigi XVI, Aquario il Sol corregge ad Eto il morso,
Scarso il raggio vibrando e neghittoso ;
Curva la fronte, e tutta in sé racchiusa E dieci gradi e dieci avea trascorso
La taciturna coppia oltre cammina, Già di quel segno, e via correndo in quella
E giunse alfine a la città confusa, Carriera , a l' altro già voltava il dorso;
A la colma di vizii atra sentina, £ compito del dì la nona ancella
A Parigi, che tardi e mal si pente L* officio suo , il governo abbandonava
De la sovrana plebe cittadina. Del timou luminoso a la sorella:
Sul primo entrar de la città dolente Quando chiuso da nube oscura e cafa
Stanno il Pianto, le Cure e la Follia L'Angel coli' Ombra inosservato e qnrto
Che salta e nulla vede e nulla seute. Ne la città di tutti i mali entrava.
Evvi il turpe Bisogno, e la restia £i procedea depresso, ed inquieto
Inerzia co le man sotio le ascelle. Nel portamento , i rai celesti empiendo
L'uno a l'altra appoggiati in su la via. Di largo ad or ad or pianto segreto ;
Evvi l' arbitra Fame, a cui la pelle £ P Ombra si stupia quinci ? edei^
Informasi da 1' ossa , e i lerci denti Lagrimoso il suo dura, e possedute
Fanno orribile siepe a le mascelle. Quindi le strade da silenzio orrendo.
Vi son le rubiconde Ire furenti , Muto de' bronzi il sacro squillo, emute
E la Discordia pazza il capo avvolta L' opre del giorno , e muto lo stridore
Di lacerate bende e di serpenti. De 1' aspre incudi e de le seghe argute :
Vi son gli orbi Desiri , e de la stolta Sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,
Ciurmaglia i Sogni , e le Paure smorte Un domandar , un sogguardar sospetto j
Sempre ilcrin rabbuffate e sempre in volta. Una mestizia che ti piombaci core;
Veglia custode de le meste porte, E cupe voci di confuso affetto,
E le chiude a suo senno e le disserra Voci di madri pie che gì* innocenti
L'ancella e insieme la rivai di Morte; Figli si serran trepidando al petto ;
La cruda , io dico , furibonda Guerra, Voci di spose che a i mariti ardenti
Che nei sangue s' abbevera e gavazza , Contrastano l' uscita, e su le soglia
SECDLO DECIMONONO 183
li lagrime intoppo e di lamenti. Lassù per sangue diventar divine.
tenerezxa e carità di moglie
: è da Furia di maggior possioia ,
la Tamplesso coojugal gli scioglie.
che fera menando oscena danza
san di porta in porta affaccendati
smi di terribile sembianza;
' Druidi i fantasmi insanguinati,
eramente da la sete antiqua
time nefande stimolati ,
bramarsi Tenian la vista obliqua
Il duol di Francia intanto e i gran litigi
Mirava Iddìo da Talto, e giusto e buono
Pesava il fato de la rea Parigi
Sedea sublime sul tremendo trono,
E su le lance d*Ar qninci ponea
L* alta sua pazienza e il suo perdono ;
De l'iniqua città quindi mettea
Le scclleranze tutte; e nullo ancora
Piegar de* due gran carchi si vedea.
Quando il mortai giudizio e l*ultim*ora
aggior de' misfatti, onde mai possa De T augusto Infelice alfin v' impose
o superbir semenza iniqua,
no in veste d' uman sangue rossa,
e e tabe grondava ogni capello,
adea una pioggia ad ogni scossa.
issan altri un tizEone,altri un flagello
:lidri e di verdi anfesibene ,
V Onnipotente : cigolando allora
Traboccar le bilance ponderose,*
Grave in terra cozzò la mortai sorte,
Balzò l'altra a le sfere, e si nascose.
In quel punto al feral palco di morte
Giunge Luigi. £i v'alza il guardo, e viene
m nappo di tosco, altri un coltello. Fermo a la scala , im perturbato e forte.
m quei serpi percotean le schiene Già vi monta, già il sommo egli ne tiene;
£ va sì pien di maestà l'aspetto,
Ch' a i manigoldi fa tremar le vene .
a già battea furtiva ad ogni petto
La pietà rinascente , ed anco parve
Che del furor sviato avria T effetto.
Ma fier portento in questo mezzo apparve;
Sul patibolo infame a l' improvviso
Asceser quattro smisurale larve, [triso,
Stringe ognuna un pugnai di sangue in-
A la strozza un capestro le molesta,
l'orvo il cipiglio, dispietato il viso;
£ scomposte le chiome in su la testa ,
Come campo di biada già matura »
Nel cui mezzo passata è la tempesta.
£ su la froutc arroncigliata e scura
Scritto in sangue ciascuua il nome avea,
Nome terror de' regi e di natura.
Damieus l'uno, Ankastrom l'altro dicea,
E I' altro Ravagliacco; ed il suo scritto
Il quarto co la man si nascondea.
Da queste Dire avvinto il derelitto
Sire Capeto dal maggior de' troni
a che spetrar potea le rupi. [so, A la mannaja già facea tragitto.
*ar lerupi,esciorre in pianto un sas- K a quel Giusto siinil che fra'ladroni
galliche tigri.. Ahi ! dove spinto Perdonando spirava, ed esclamando:
!,ocrude?£dei v'amava? Oh lasso! Padre, Padre, perchè tu m' abbandoni ?
piangea il sole di gramaglia cinto. Per chi a mortelo tragge anch'ei pregan-
Il popol mio, dicea, che sì delira, [do,
£ il mio spirto , Signor, ti raccomando.
In questo dir con impeto e con ira
Un de gli speltri sospingendo il venne
incoi pianto anch'esse in su le gote; Sotto il taglio fatai; l'altro ve'l tira,
ime che contanti e pellegrine Per le sacrate auguste chiome il tenne
causa di Cristo e di Luigi La tersa Furia, e la sottil rudente
'onti mortali, e fean, toccando
i arsi tizzi, ribollir le vene.
>ra de le case infuriando
1 le genti, e si foggia smarrita
ti i petti la pleiade in bando.
)r trema la terra oppressa e trita
ralli, da rote e da pedoni;
ormora l'aria sbigottita;
ile al mugghio di remoti tuoni,
tturno del mar roco lamento,
fondo ruggir de gli aquiloni,
cor, misero Ugon,che sentimento
>ra il tuo , che di morte vedesti
» vesaiJIo volteggiarsi al veulo ?
terrìbile palco erto scorgesti,
ita la scure , e al gran misfatto
•ramosi i manigoldi e presti ;
lobuon rege,il re più grandc,inatto
innocente fra digiuni lupi,
to de' ladroni a morir tratto;
a i silenzi! de le turbe cupi
•eno avanzar la fronte e il passo
ì in forse di voltar le rote
sta Tebe che l'antica ha vinto,
gevan l' aure per terrore immote,
me del cielo l'iltadine
iS4 CRESTOMAZIA POETICA
Quella quarla recise a la bipenne. Di vita la richiami^ infin che scioglie
A la caduta de l* acciar tagliente L* ultimo volo , e sfavillando muore r
S' aprì tonando il cielo, e la vermiglia Tal quest'alma gentil, che Morte or to-
Terra si scosse^ e il mare orribilmente. A V italica speme, e su lo stelo CgHe
Tremonneilmoudo, e perla maraviglia Vital , che verde ancor iioria, la coglie ;
£ pel terror dal freddo al caldo polo Dopo molto aifannarsi entro il su^o yelo,
Palpitando i potenti alzar le ciglia. E anelar stanco su l'uscita, al fine
Iremo Levante ed Occidente. Il solo L'ali aperse, e raggiando alzossi al cielo.
Barbaro Celta in suo furor più saldo Le virtù, che diverse e pellegrine
Del ciel derise e de la terra il duolo. La vestir mentre visse, il mesto letto
E di sua libertà spietato e baldo Cingean bagnate i rai, scomposte il crise.
Tuffò le stolte insegne e le man ladre y. Monti, Cantica ia morte
Nel sangue del suo re fumante e caldo. di L. Mascheroni, canto I-
Vincenzo Monti, Basvilliana, canto II. '
CCLXXVI. // Mattino.
CCLXXIV. Ultimi momenti
di Luigi X VI. Allorché il sole (io lo rammento spesso)
D'Oriente sul balzo compariva
Uom d'affannosa, ma regal sembianza, A. risvegliar dal suo silenziosi mondo,
A cui rapita la corona e il regno, E a gli oggetti rendea più vivi e freschi
Sol del petto rimasta è la costanza, I color che rapiti avea la sera^
Venia di morte a vii supplizio indegno Da l' umile mio letto anch' io sorgendo,
Chiamato, ahi lasso! e vel traevan quelli A salutarlo m'affrettava, e fiso
Che fur de l'amor suo poc'anzi il segno. Tenea l'occhio a mirar come nascoso
Quinci e quindi arcorrean sciolte i capelli Di là dal colle ancora ei fea da luuge
Consorteesuoraa.dabbracciarlo,e gli occhi De gli alti gioghi biondeggiar le cime;
Ognuna avea conversi in due ruscelli. Poi come lenta in giù scorrea la luce
Stretto al seno egli tiensi in su i ginocchi II dosso imporporando e i fianchi alpestri»
Un dolente fanciullo , e par che tutK) E dilatata a me venia d' incontro,
Ne gli amplessi e he'baci il cor trabocchi; Che a' piedi l' attendea de ia moniago'»
£ sì gli dica : Da' miei mali istrutto Da l' umido suo sen la terra allora
Apprendi, o figlio, la virtude, e cogli Su le pienne de l' aure mattutine
JDi mie fortune dolorose il frutto. Grata innalzava di profumi un nefflbo=
Stabile e santo nel tuo cor germogli E altero dì sé stesso, e sorrìdente
Il timor del tuo Dio , ne mai d'^un trono Su i benefizii suoi, l' aureo pianeta '
Mai lo stolto desir Talma t' invogli. Nel vapor, che odoroso ergeasi in alto >
E, se l' ira del ciel sì tristo dono Già rinfrescando le divine chiome,
Faratti, il padre ti rammenta, o figlio ; £ fra il concento de gli augelli eilpl^^'^
Ma serba a chi \ uccide il tuo perdono. De le create cose egli sublime
Questi accenti parea , questo consiglio Per l' azzurro del ciel spinge» le rote.
Profferir l' infelice ; e chete intanto Allor sul fresco margine d'un rivo
Gli discorrean le lagrime dal ciglio. M'adagiava tranquillo in su l'erbetta
Piaogeantutli d'intórno, e da l'un canto Che lunga e folta mi sorgea dintorno
Le fiere guardie impietosite anch'esse E tutto quasi mi copriva; ed ora
Sciogliean, poggiate su le lance, il pianto. Supino mi giacca, fosche mirando
Vincenzo Monti, Basvilliana, canto IV- Pender le selve da l'opposta balza
£ fumar le colline, e tutta io faccia
CQiXXV. Morte di Lorenzo Di sparsi armenti biancheggiar la n)p<=
Mascheroni. Or rivolto col fianco al ruscelletto
lo mi fermava a riguardar le nubi.
Come face al mancar de l'alimento Che tremolando h vedean riflesse
Lambe gli aridi slami, e di pallore Nel puro trapassar specchio de l'onda: ]
Veste il suo lume ognor più scarso e lento; Poi di gentil spettacolo già sazio,
E guizza irresoluta, e par che amore Tra i cespi, che mi fean corona e lellOi
SECOLO DECLMONONO iSò
iva il mio sguardo, e attento e che- Giove a i figli dovea de l'empia Terra.
[to Tutte di ferro esercitato e greve
:iol mondo a contemplar poneami ; Son T orrende saette, ed ogni strale
'a gli steli brulica de l'eroe, Tre raggi in sé di grandine riceve,
igo e vario de gì' insetti ammanto, £ tre d' elementar foco immortale,
iole diversa e la natura. Tre di rapido vento, e tre ne beve [ le.
i torma e fuggenti in lunga fila D' acquosa nube, e larghe in mezzo hal'a-
no e van per via carchi di preda ; Poi di lampi una livida mistura
ita solitario, altro 1' amico £ di tuoni vi cola e di paura;
cammino arresta, e con lui sembra £ di furie e di fiamme e di fracasso
:ose conferir: questi d' un fiore Che tutto introna orribilmente il mondo.
»rosia sugge e la rugiada; e quello Prende il Nume quest'arme o move il pas-
) rivai ne disputa l'impero, [so:
ir tosto a lite, ed azzuffarsi, 11 ciel s' incurva, e par che manchi al pon-
iticchia ti insieme ambo repente [do.
1 la foglia sdrucciolar li vedi. Sentinne il re Piuton l'alto conquasso
lor manca in quegli angusti petti, £ gli occhi alzò smarrito e tremebondo.,
lenza, consiglio, odio ed amore. Che le volte di bronzo e i ferrei muri
i alcuni tra lor miti e pietosi A l* impeto stimò poco securi.
usi aita ne' bisogni assai; Da' fulmini squarciata e tutta in foco
>riinciòdel' uom,chealsuo fratello Stride la terra per immensa doglia.
e la stessa povertà fa guerra: Rimbombano le valli, e caldo e roco
ri poscia da vorace istinto Con fervide procelie il mar gorgoglia,
trage chiamati ed a gl'inganni , Vincitrice di Giove in ogni loco
morte d'altrui vivono, e sempre La vendetta s'aggira; e par che voglia
ù gagliardo, come avvien tra noi. Sotto il carco de' Numi il gran convesso
più scaltro la ragion prevale. Slegarsi tutto de l'Olimpo oppresso.
icenzo Montiy Sciolti al priuclpe Ghigi. E in cielo, e in terra, e tra la terra e
m [il cielo
XXVn. Battaglia de' Titani. Tutto e vampa e mina e fumo e polve.
Fugge smarrita dal signor di Delo
>ì cantar de l'orbe giovinetto La luce, e indietro per terror si volve.
Iti esordii le Muse e l'incremento, Fugge avvolta ogni stella infosco velo,
insolito errava almo diletto Ed urtasi ogni sfera e si dissolve:
)r de' Numi a l' immortai concento. E immoto ne l'orribile frastuono
sser come dal profondo petto Non riman che del Fato il ferreo trono.
Tra suscitò nuovo portento, Ma coraggio non perde la terrestre
iel marito nequitosa e rea, Stirpe, ne par che troppo le ne caglia,
suoi figli, crudcl, spenti volea. Di divelte montagne arman le destre,
indi i Titani dì cor fero ed alto £ fan con rupi e scogli la battaglia,
•arto ella creò nefando e diro, Odonsi cigolar sotto l' alpestre
turati con Olo ed Efialto Peso le membra, e ognun fatica e scaglia,
«pugnar T intemerato Empirò. Tre volte a l' arduo ciel diero la scossa,
ovenlù superba al grande assalto Sovra Pelio imponendo Olimpo ed Ossa.
;rani]cnrf^oglioc gran possanza usci- £ tre volte il gran padre hilminando
gorosa la tei ra tremava [ ro, Spezzò gì' imposti monti e li disperse:
i vasti lor passi, e il mar mugghia va. £ da le stelle mal tentate in bando
Piracmon, da l'altra parte, eBronte, Nel Tartaro cacciò le squadre avverse;
tr fratelli affumicati e nudi, Nove giorni le venne in giù rotando,
r gocciando da l' occhiuta fronte £ nel decimo al fondo le sommerse:
i selva de' petti ispidi e rudi, Orribil fondo d'ogni luce muto,
mente facean l'eolio monte Che da perpetui venti è combattuto.
Te al suon de le vulcanie incudi, £ tanto de la terra al centro scende
lini temprando, onde far guerra Quanto lunge dal ciel scende la terra.
186
CRESTOMAZIA POETICA
Di piantola mezzo ima fiumana il fende; Da le cose i colori, e a la pietosa
Di ferro intorno uìia muraglia il serra; Nolte del mondo concedea la cura»
£ di ferro son pur le porte orrende
Che Nettuno vi pose in quella guerra.
I Titani là dentro eterna e nera
Mena in Tolta la p io^gia e la bufera.
Ivi Giapeto si ri?olve e Ceo,
£ 1* altra turba che i celesti assalse.
Ivi Gige, ivi Goto e Briareo,
Cui la forza centimana non valse.
Fuor 'de Taira prigion restò Tifeo,
Ch* altrarafute punirlo a Giove calse:
Su IMneffabil mostro in giù travolto
Lanciò Sicilia tutta; e nou fu molto.
Peloro la diritta, e gli comprime
Pachin la manca, e Lilibeo le piante.
Schiacciai* immensa fronte Etna sublime,
Di fornaci ed*incudi Etna tonante.
Quindi, come il dolor dal petto esprime,
£ mutar tenta il fianco il gran gigante,
Fumo e fiamme dal sen mugghiando erut-
[ta.
Ne trema il monte e la Trinacria tutta.
Del sacrilego ardir sorti compagna
£nceladn a Tifeo la pena e il loco.
Gli altri su la flcgrea vasta campagna
Rovesciati esalar di Giove il foco.
Ond'ivi ancor la valle e la montagna
Ed ella, del regal suo velo eterno
Spiegando il lembo raccendeane gli astri
La morta luce, e la spegnea sul volto
De gli stanchi mortali. Era il tùon queto
De' fulmini guerrieri, e ne vagiva
Sol per la valle il fumo atro, confuso
De le nebbie de* boschi e de' torrenti:
Eran quete le selve, eran de l'aure
Queti i sospiri; ma lugubri e cupi
S' udian gemiti e grida in lontananza
Di languenti trafitti, e un calpestio
Di cavalli e di fanti, e sotto il grave
Peso de' bronzi un cigolio di rote,
Che mestizia e terror metlea nel coi e.
Vincenzo Monti, Bardo della Selva
JVera, canto I,
CCLXXIX. Sul monumento
di Giuseppe Parini *.
I placidi cercai poggi felici ,
Che con dolce pendio ciugon le liete
De l' Eupili lagune irrigatrici;
E nel vederli mi sclamai: Salvete,
Piagge dilette al ciel, che al mio Parini
Mandan fumo, e rumor funesto e roco.* Foste cortesi di vostr' ombre quete;
De la divina Creta alcun satolle
Fé del suo sangue le feconde zolle.
£ tu pur desti a gli empii sepoltura,
Terribile Vcsevo, che la piena
Versi rugghiando di tua lava impura
Vicino ahi troppo a la regal Sirena.
Deh sul giardin d' Italia e di natura
1 tuoi torrenti incendilori aifrena:
Ti basti, ohimè! l'aver di Pompejano
1 bei colli sepolto e d'Ercolano
Il sacro de le Muse almo concento
Del ciel rapiti gli ascollanti avea.
Tacean le dive; e desioso e attento
Ogni Nume l'orei^hio ancor porgea.
Del nettare il ruscello i pie d'argento
Fermar^ anch' esso, per udir, parca,
£ lungo l' immortai santissim'onda
ISk fior r aure agitavano ne fronda.
yincenzo Monti, MasogoaiBi*
CCLXXVIII. Notte dopo
una battaglia.
Pallido intanto su l' abnobie rupi
// 5o/ cadeaào raccogliea d' intorno
Quando ei fabbro di numeri divini
L' acre bile fé dolce, e la vestia
Di tebani concenti e venosini.
Parca de' carmi tuoi la melodia r de
Per queir aure ancor viva, e l' aure e T on-
£ le selve eran tutte un'armonia. [de
Parean d' intorno i fior, l' erbe, le fron-
Animarsi, e iterarmi in.suon pietoso:
Il rantor nostro ov'è? chi lo nasconde?
Ed ecco in mezzo di recinto ombroso
Sculto un sasso funebre che dicea:
A I SACRI VANI ni Parin riposo.
E donna di beltà che dolce ardea
(Tese l'orecchio, e fiammeggiando il vate
Alzò l'arco del ciglio, e sorridea)
Colle dita venia biancorosate
Spargendolo di fiori e di mortella,
Di rispetto atteggiata e di pietate.
Bella la guancia in suo pudor; piùbella
Su la fronte splendea l'alma serena.
Come in limpido rio raggio di stella.
' Le parole sono in bocca di Pietro Verri,
uno de* quattro Spiriti descritti sai fioc àii
terzo caalOi— Parlai « uno degli ascolUnti*
SECOLO DKCIMONONO i87
Poscia che dati ì mirti ebbe a man pie- Troppo su V ale dell* ingegan s* alza.
Di laaro, che parea liete Borisse [ na, Tutti, io noi niego , ad un festivo detto
Tra le sue man, fé al sasso una catena. Danno in un riso; ma, se ben gli adocclii,
£ an sospir trasse affettuoso, e disse Guizzo del cor, che sulla faccia splende,
Pace eterna a 1* amico: e te chiamando, . If on è quel riso in molti : è storcimento
I lumi al cielo sì pietosi affisse. Di labbra , come avesse altri l' incauto
Chegli occhi anch'io le vai,certa aspet- Dente in acerba melagrana impresso.
[ tando Non per questo io consiglioti che , dove
La tua discesa. Ah qual mai cura, o quale Ti venisse su i labbri un motto arguto ,
Parte d' Olimpo ratteneati, quando Tu sempre il debba rimandare in petto ;
Di que* bei labbri il prego erse a te Tale? Consiglioti lasciare al negro il volto
Se onesta indarno V udir tuo pen note, £ i panni variopinto Orobio mimo
Qua! altra ascolterai voce mortale? L*arte sua propria. Chi mattina e sera
Riverente in disparte a le devote Questa d'esercitar mai non si stanca,
Ceremonie assistea, colle tranquille Gli applaude, e a un tempo lo dispregia
Luci nel volto de la donna immote, [il mondo.
Uom d*alta cortesia, che ilciel sortille Taccio che spesso una faceta lingua.
Più che consorte, amico. Ed ei che vuole Mentre alletta il vicin, l'assente offende:
II voler de le care alme pupille. Poiché tra quei, che cotidiana impresa
Ergea d' attico gusto eccelsa mole. Dell'arguzia si faiino, a corvo bianco
Sovra cui d' ogni nube immaculato Colui somiglia , che giammai non arma
Raggiava immemor del suo corso il sole. Di satirica punta i suoi concetti.
E Amalia la dicea dal nome amato Sen guarderà da prima : indi la lode
Di costei,che del loco era la Diva , Sì a poco a poco lo imbrìaca e infiamma,
E più del cor, che al suo congiunse il fato. Che, quando il caso di un leggiadro colpo
Al pio rito funebre, a quella viva Gli si presenta , non va salvo nom vivo.
Gara d'amor miraudo, già di mente Come , se l'arco in man teso sta sempre.
Del mio gir oltre la cagion m' usciva ; Non partirà 1* ambizioso strale ?
Mofsi alfine, e quei colli, ove si sente Quindi il più fido ancora e vecchio amico,
Tutto il bel di natura, abbandonai. Che altrove siede de' suoi rischi ignaro,
L' orma segnando al cor contrarie e lente. Riceve 1* invisibile ferita;
Vincenzo Monti, Frammento del canto IV ^ ^*""« '" H^^^^» che con SOave affetto
iaedito della Maschefoniaaa. Parla di chi ferillo, e dall' accusa
Che di labbro maledico gli appicca
Non a torto qualcun, forse il difende,
il raccomanda caldamente a un grande.
Vuoi placeread altrui? Modcrncoanti-
Storie, accidenti curiosi, pronte [che
24. Avvertimenti per la Risposte , intese per ventura o lette,
eonvenazione , Sempre che il destro n'hai, racconta brevt.
Diletto non darà d' invidia misto
Garzon bennato, che alle frondieaifio- Sì fatta prova non snperba, in coi,
Onde t'ornò benignamente il Cielo, [ri, Più che l'ingegno, la memoria vale.
Già mostri in te sì rispondenti i frutti, Giocondo achi odcil raccontar pur torna.
M'accorgo io ben che Damo, il qual nei Perchè, ciò che in un loco udir glv^ccasca,
[crocchi Potrà recar senza gran sforzo altrove;
Di buoni sali il favellar condisce, Ma recar non potrà detto che frizzi;
T'entra molto nell^alma. Ah! nont'abba- Che, quasi di licor, che dall'un vaso
Prode garzone, un periglioso dono, [gli, Passi nell'altro, dell'arguto motto,
Ch'èdi quel che a te pare, assai men bello. Ove dall' una varchi all' altra bocca,
Credi forse che grato a tutti Damo ]l volatile spirto esala e sfuma.
Riesca? In error sei. Difficilmente Vuoi piacer ad altrui? Scolta mai sempre
Sogliono perdonar gli uomini, in giro Con viso attento chi favella; e, qoanao
Sedenti e confrontati; a chi tra loro Giunge dei favellare a te la volta^
488 CRESTOMAZIA POKTICA
Non il fanciul, the la ilipinta palla E qual fia la cagion ? Soavemente
Lancia e rilancia solitario in allo, Ricondurli a virlù, se ne van Innge;
Ma quello imita, cheal fanciul compagno Far che virlù, di cui leggiadra e viva
La manda, ond'ei rimandila, e al diletto Lor mostrerà un* immagine in se stesso,
Del compagno non men che al proprio ser- Li prenda tosto, e del suo amor gliscaldi]
[ve; Virtù, ninfa bellissima, che dadi
Studia inoltre che l'uomo , a cui tu parli, L' intera notte non maneggia o carte.
Si mostri anch' egli , e spicchi ; e i non Che non riceve in cor fiamma impudica,
[ignoti Pronta le offese a perdonar più gravi,
Tasti in lui tocca, che rispondon meglio. E ne' proposti suoi ferma cotanto,
E s' ei cosa talor, che in mente serra. Che giù non ne la toglie o risplendente
Pena a espor fuori, dolcemente e in guisa Serto promesso, o minacciata scure.
Che appena i 1 sen ta, a esporla fuor Taj uta . Ipp olito PhidemonU.
Vuoi piacere ed altrui? Con mesti annunzi
Non entrar mai. Conosci tu Damone? 25. Lamento di Arittp,
Se alcun si ruppe delle gambe un osso , . .^ ^^^^^ ^. q. ToreUi famoso
Se guasto la gragnuola a un altro i campi, i„ iett„e ^ scicozc;
Se morì un terzo inopinatamente,
Pria Damon non assidesi,rhe il duro Stracciò dal crine il mirto, onde solea
Caso narrò. Perchè un' immagin trista La poetica fronte Aristo ornarsi;
Gittareinmezzoalcomun gaudio, e porre Arìsto d' ermi campi, e d'erme selve
Su le fronti serene un'atra nube ? Fatto pensoso abitatori dal crine
Ma più ancor v'ha. Molte fiate incon- Quelle stracciossi allegre froodi, e il colle
Che subita tra due pugna vocale, [tra Salì rapidamente, alla cui vetta
Come son varie le sentenze, nasca. Sorgon bruni cipressi, ond'è ricinto
Ne tai conflitti, purché il loco all'ira Del pallido eremita il sagro albergo,
Ceder l'urbanità mai non si scorga, Ed un ramo ne. svelse, e intorno al capo
Condannerem ; che da due bravi spirti. Sei girò, se l'avvinse; indi si fece
Che si corrono a urlar, dotte scintille Sedil d' un sasso, di rincontro a balze
Schizzan sovente. Ti parrà talvolta Di grato orror dipinte; e poi che alquanto
Viuto restarti ? Confessarti \into [glio Con la mente vagò da se lontano,
Ojsa, e cedere il campo,'eallor che il me- Trasse lungo dal core imo un sospiro,
Ti sembri averne, ah! non voler chcgiun- E tai sensi innalzar l'udì la notte,
Il duellar sino all'estremo sangue, [ga Che già in fosco tingeala terrae il cielo.
Tutti del più, che contra il tuo nemico Queste del gufo , il qual duolsi alla lu-
Potresti, s'avvedranno, e co'novelli Non son le voci flebili^ alhirgate, [ na,
Colpi che riterrai cortese indietro, [dati. Che nel silenzio della notte bruna
Più ancor che non per gli altri a lui già Ad un oppresso cor giungon sì grate?
D' onesto lauro cingerai le chiome. O pensieroso augel, di ria fortuna
Qui sorger veggo il tuo gentil Chirone, Portalor ti accusò la vecchia etate;
Che non ad accordar la cetra, e dolci Ma udito, se ver fosse il detto antico,
Suoni a cavarne, ma de' varii affetti T' avrei la notte, io < h'io perdea l'amico.
T'apprese in vere a temperar le corde, Spirto pentii, la solitaria, vita,
Donde fuor trarre all' uopo atti sublimi, E questi, ov' io mi chiusi, ermi soggiorni,
Sorgere e dir, che pel desio fervente Fanno che alla mia scorsa età fiorita
Di gradir troppo di Prometeo ai figli, Con la memoria, e a te più spesso io torni.
Che stolti sono i più, spesso chi avea Ma da rimorso ho l'anima ferita;
Nome di saggio in pria , stolto divenne. Che dappoi che tu vivi etemi giorni,
buon maestro, benché a te non scenda Mille e più volte il sole uscio dall'Indo,
Lunga barba sui petto, e non la fronte Né ti sparsi su l'urna un fiordi Pindo.
Solchin rughe profonde, alta prudenza Pur chi di te sovra il mio canto avfa
Dalle labbra l' uscì. Ma la cagione. Dritto maggior, che al fianco mio prende-
Per cui gradir del Giapetidc ai figli Spesso il più erto della via dircea, [ sii
L'Achille tuo vorrà, tei pone in s^lvo. E me; che vacillava^ in pie reggesti?
SKCOLO DECIMO ONO i89
Forse a chiaro d' onor segno io glungea, Compendialo in quel funesto segno.
Se (u givi più tardo infra i celesii. Rapido cresce il fatai morbo, ed io
Forse con gli anni tmu morte superba Con V arti inefficaci invan mi sdegno;
Anco la gloria mia recise in erba. E la voce talvolta al cielo invio:
Or più di questa gloria io non mijcuro, Più che d* eietti spirti il sommo regno,
Che un nulla alfine la conobbi anch'essa. Forse non ha per tante macchie immondo
Uh hen più assai, chejquel non è, sicuro, Mesticr di virtuosi esempli il mondo?
Alma che sa cercar, trova in sé stessa. Mentre sì fatte cose in cor favello
Mia delizia è il sedermi ove d'oscuro Presso i cari origlier (già notte andava.
Bosco cader vegg* io V ombra più spessa , Ne maggior lume ivi splendea di quello,
Ove con interrotto e tardo passo Che scarso e tristo una lucerna dava)
Mormora un roco rio tra sasso e sasso. Ecco a un tratto veder panni un drappel-
Come, se fosse meco in questi colli, Che al doloroso letto intorno stava, [lo
Lieto vedresti i pensier fermi e gravi Di molte in vista ragguardevol donne;
Tu, che spesso dii vani untempoe molli Ma con viso piangente, e fosche gonne.
Con dolce improverar mi richia>navi; Eran le sagge a cui vien posto il nome
E dalla schiavitù degli amor folli Dalle onorate lor belle fatiche;
Sciorre 1* incatenata alma tentavi! Critica, Geometria con sciolte chiome,
Io, benché amantedel miomal, la mano Poesia, Storia, e le favelle antiche.
Baciava chevolea tornarmi sano. Giansi tra lor riconfortando, come
Ma no, non fu con la mortai tua vesta S' usa in fortuna ugual tra fide amiche;
11 suon per me della tua voce spento: Ma il fean cosi, che più che dar, di loro
Entro mi parla, e chiara e manifesta L' una all'altra parca chieder ristoro.
Dal fondo alzarsi del mio cor la sento: Poi dal letto scostarsi, e d' improvviso
Tale sovenle, o non diversa inchiesta Le veggo in fila dall' un canto porsi,
Le qìovo: E morte così fier tormento? Come a dar loco, riguardando fiso
È l'arrestarsi nelP uman viaggio Verso la porta, ov'io pur 1' occhio torsi;
Duro così? Non è, risponde*, al saggio. E la soglia varcar donna di viso
Ed in vista dei ben falsi, e di quanto Maraviglioso, e d'atto augusto io scorsi;
È nel mondo d* errore e di follia, Che al tetto giunge con la fronte, e in-
Di bassa ambizTon, d'inutil vanto, [ torno
Festoso ei dal suo fral si disciorria: Baggia dalle pupille un aureo giorno.
Ma l'amistà, ma 1' amor fido alquanto Come vi lampeggiasse, il loco tutto
Fanno al suo dipartir 1' alma restia; D' un tremolo fulgor si rivestiva.
Ed ai più cari suoi languido e tardo Pur la nobile donna avvolta in lutto
Rivolge indietro, e sospiroso un guardo. Tenea la faccia: or che saria giuliva?
Con questo ultimosguardo io m'incon- Ma d' ogni piantoerailbel volto asciutto,
[trai, Dolente sì, ma qual couviensi a diva,
Che al tuo letto di morte era dappresso. Tal che il duol nel suo viso , e in un del
E sì tenacemente lo serbai Duolo il trionfo si vedea dipinto, [vinto
Da indi in qua negli occhi fidi impresso. Alle bende del crine, ed a quel bianco
Che non pur eh' io vedessi oggetto mai, Velo, che ricopria le membra ignude.
Che fitto si restasse in lor, commesso. Alla catena, ond' e sventura ir franco,
Ma quel, e' ho innanzi, con sì vivi tocchi Temprata d' òr su non mortale incudc,
Forse non si colora a me negli occhi. E all'aurea chiave,che pendea dal fianco,
Oh fatai sempre e amara rimembranza, Ove sculto appariva: il del dischiude'.
Ma cui non posso far eh* io non sia trai- ReligTon conobbi, e in fronte scritto
Ogni più debil luce di speranza [ to , 11 divin mi parca leggerle editto.
Quel primo orribil dì fu spenta a untrat- Ma mentre veggo che all'amico letto
Che il Fisiio gentil entro la stanza Ha la celeste donna il pie rivolto,
Venuto e messo di chi ascolta in atto, E ch'io già del ginocchio in terra metto,
Toccò la vena, e di presaga stilla Da quella dolce vision fui tolto.
L' amica a untempo inumidì pupilla. Egli moria; ma con sicuro aspetto
Tutto allor mi si offrì l' eccidio mio Attendea l' ora che l' avria dìscioUo:
190 CRESTOMAZIA POETICA
l'on io COSI, eh* era a soffrir men forte Non invermigli aprii vergini rose»
Quella» che mia parca, pìùche sua morte. E tu vuoi eh* io mi cinga il crine incolto
Se la pompa farai di quella sera Di cipresso feral; di quei cipresso.
Romper non vidi 1* orride tenèbre Che or di verde sì mesto invan si tinge.
Coi tetro lume della bianca cera, Poscia che da* sepolcri è anGh*esso inhan-
l^è il sacro udii di pace inno funebre, [ do.
Qual prò» se tutto uelP orecchio m'era , Perchè i rami cortesi incurvi» e piagni,
Tutto innanzi mi stava alle palpebre? O della gente che sotterra donne,
Se della tomba sua ne*sentier bui» Salice amico? Né garzon sepolto»
Benché lontano^ io discendea con lui? Che nel giorno primier della sua fama
' Poscia in me tal sentii lugubre senso, La man sentì dell'importuna Parca,
Come dal elei mi fosse il sol caduto: Né del tuo duolo onorerai fanciulla»
Né che restasse mai notturno io penso Cui preparava d'Imeneo la veste
^^ laudante per cammin deserto e muto, L* inorgoglita madre» e il dì che ornarle
Com'io rimasi: né tra mare immenso, Dovea le membra d* Imeneo la veste,
Senz'ago conduttor nocchier perduto , Bruno la circondò drappo funebre.
Ed anche iu mezzo a cittadino stuolo Della fanciulla e del garzon sul capo
Gran tempo andò» ch'esser mi parve solo. Cresce il cardo e 1*. ortica; e il mattutino
Ma tu» eh* ove non é fiamma né gelò, Vento, che fischia tra l'ortica e il cardo »
Godi, e di stella iu stella ora t' aggiri,. O Tinterrotto gemito lugubre.
Queste ricevi, che ti mando in cielo» Cui dall* erma sua casa innalza il gufo
Non so s* io debba dir lodi, o sospiri. Lungo-ululante della luna al raggio,
Io sempre Notte pregherò, che il velo La sola éche risuoni iu quel deserto,
Stenda, e nessuna in ciel nube si miri , Voce del mondo. Ahi sciagurata etade»
Q nasi or vederti, anima grande e bella» Che il viver rendi ed il morir più amaro!
Mi paia in una, ora in un* altra stella. Ma delle piante ali* ombra , e dentro
Così Aristo cantò: poscia dond* era {.l'urne
Toglieva il male riposato fianco» Confortate di pianto èforseiltonno
Scendea dal colle, e a sua magion voltava Della morte men duro? Un mucchio
Tra le compagne ombre notturne il passo: [ d*ossa
Ma sentia poco raddolcita in core Sente l'onor degli acce rchianti marmi,.
Dal balsamo febeo 1' antica piaga. de* custodi delle sue catene ^
Ippolito Pindemonte. Cale a un libero spirto? Ah non é solo
Per gli estinti la tomba! Innamorata
26. I Sepolcri '. Donna^che a brun vestita il volto inchina
Sovra la pietra, che il suo sposo serra,
A UGO FOSCOLO. Vedelo ancora, gli favella, l'ode,
Qual voce è questa, che dal biondo Mela Trova ciò eh* è il maggior ne*più crudeli
Muove canora, e eh* io nell* alma sento? Mali ristoro, un lagrimar dirotto.
È questa, Ugo, la tua, ihe a te mi chia- Soverchio alla mia patria un tal conforto
[ ma Sembrò novellamente: immota, e sorda
Fra tombe, avelli, arche, sepolcri e gli e- Del cimitero suo la porta e ai vivi.
Melanconici e cari in me raccende, [stri Pure qual prò, se all'amoroso piede
Del Meonio cantor su le immortali Si schiudesse arrendevole? Indistinte
Carte io vegghiava, e dalla lor favella Son le fosse tra loro, e un'erba muta
Traeva io nella nostra i lunghi affanni Tutto ricuopre: di cadere incerto
Di queir illustre pellegrin, che tanto Sovra un diletto corpo, e un corpo ignoto»
Pugnò pria co* Trojani» e poi col mare a. Nel core il pianto stagneria respinto, [de.
Ma tu» d* Omero più possente ancora» Quell'urna d*oro» c^e il tuo cener chiu-
Tu mi stacchi da Omero. Ecco già ride Chiuderà il mio, Patroclo amato; in vita
La terra e il cielo, e non é piaggia, dove Non fummo due, due non saremo in mor-
r te
* Vedi sopra a pag. i68. /^ » a i_mi • m ì i- *
• Accenna alla sua versione dell' Odissea di Cosi Achille mgannava il SUO COldogllO,
Ornerò^ a cui stava lavomudo. ^ Cioè: i sepolcri*
SECOLO DECIMONONO 19/
Ed utile a Ini vi?o era quelP urna. Tempii che vider cento volte e cento
Il divin figlio, se talor col falso, Riarder l' Etna spaventoso, e ancora [ ba
Che Grecia immaginò, dir lice il vero, Pugaan con gli anni, e tra l'arena e 1* er-
11 divin figlio di Giapeto volle Sorgon maestri ancor de IT arte antica;
L* iiman seme formar d'inganni dolci, Quell' Aretusa, che di Grecia volve
D'illusioni amabili, di sogni Per occnlto cammin l'onda d'argento,
Dorati amico, e di dorate larve. Com' è l'antico grido; e il greco Alfeo ,
Questa» io sento gridar, fu la sua colpa; Che dal fondo del mar non lungi s'alza,
Ciò punisce Taugel, che il cor gli rode E costanti gli affetti e dolci Tacque
Su la rupe caucasea, e non le tolte Serba tra quelle dell'amara Teli.
Dalla lampa del ciel sacre faville. Ma cosa forse più ammiranda e forte
Quindi V uomo a rifar Prometei nuovi Colà m' apparve: spaziose, oscure
Si volgono,e dell'uom, non che il pensie- Stanze sotterra, ove in lor nicchie, come
L'intero senso ad emendar si danno, [ro, Simulacri diritti, intorno vanno
Perdono appena da costoro impetra Corpi d'anima vóti, e con quei panni
Qael popol rozzo, che le sue capanne Tuttora in coi l'aura spirar fur visti;
Niega d'abbandonar, perchè de' padri Sovra i muscoli morti, e su la pelle
Levarsi, e andar con lui non ponno l' os- Così l'arte sudò, così caccionne
Perdono appena la selvaggia donna, [sa. Fuor ogni umor, che le sembianzeantiche ,
Che del bambin, cui dalle poppe Morte Non che le carni lor, serbano i volti
I^ distaccò, va su la tomba e spreme, Dopo cent'anni e più: Morte li guarda.
Come di se nutrirlo ancor potesse, E in tema par d'aver fallito i colpi.
Latte dal seno, e lagrime dagli occhi: Quando il cader delle autunnali foglie
O il picciolo feretro all'arbor noto Ci avvisa ogni anno, che non meno spesse
Sospende, e il vede, mentrespira il vento. Le umane vite cadono, e ci manda
Onoeggiar mollemente,e agli occhi illusi. Su gli estinti a versar lagrime pie,
Pia che di bara, offrir di culla aspetto. Discende allor ne' sotterranei chiostri
Ma questi grati ed innocenti errori Lo stuol devoto, pendono dall'alta
Non furo ancor ne' popoli più dotti? Lampade con più faci; al corpo amato
Ma non amò senza rossor le tombe Ciascun si volge, e su gli aspetti smunti
Berna, Grecia ed Egitto? A te sia lieve Orca, e trova ciascun le note forme;
La terra , o figlio, e i bassi tuoi riposi Figlio, amico, fratel trova il fratello,
"Nulla turbi giammai, dice una madre, L' amico, il padre: delle fari il lume
Quasi alcun senso, una favilla quasi Così que' volti tremolo percuote.
Di vita pur nel caro corpo creda. Che della Parca immemori agitarsi
Memorie alzando, e ricordanze in marmo, Sembran talor le irrigidite fibre.
Tu vai pascendo, satollando vai Quante memorie di dolor comuni,
L' acre dolor, che men ti morde allora. Di comuni piacer! Quanto negli anni
Men da te lungi a te pajon quell'alme. Che sì ratti passar viver novello!
Di cui lespoglie, ond' èran cinte, hai pres- Intanto un sospirar s' alza, un confuso
Che dirò delle tue, Sicilia cara, [ so. Singhiozzar lungo, un lamentar nonbasso»
Delle tue sale sepolcrali, dove Che per le arcate ed echeggianti sale
Co' morti a dimorar scendono i vivi ? Si sparge, e a cui par che que'corpi freddi
Foscolo, è vero! il regno ampio dei Rispondano: i due mondi un piceni varco
[ venti Divide, e unite e in amistà congiunte
Io corsi a' miei vercf annt, e il mar si- Non fur la vita mai tanto e la morte.
[ cano Ma stringer troppo e scompigliar quaU
Solcai non una volta, e a quando a quan- [ che alma
Con pie leggier della mia fida barca [ do Questa scena potria. Ne* campi aviti
Mi lanciava in quell'isola, ove Ulisse Sorge e biancheggia a te nobil palagio,
Trovò i Ciclopi, io donne oneste e belle. D'erbe, d'acque, di fior cinto, e di molta,
Co«e ammirande io colà vidi: un monte Che i tuoi padri educaro, inclita selva:
Che fuma ognor, talor arde e i macigni Riposi là, se più non bee quest'aure
Tra i globi delle fiamme ai cielo avventa. L' adorata tua sposa. Un bianco marmo.
192 CRESTOMAZIA. POKTIG.i
Simbol del suo candor, chiudala, e l'offra Bei sentieri, antri freschi, opachi seggi,
Le sue caste sembianze un bianco marmo. Lente acque, e mute all'erbe e ai 'fiori
Ma il solitario loco orni e consacri [ in mezzo,
lleligìon, senza la cui presenza Precipitanti d*aIto acque tonanti,
'JVopp ) e a mirarsi orribile una tomba . Dirupi di sublime orror dipinti ,
Scorra ivi e gema il rio, s' imbruni il bo- Campa e giardin, lusso erudito, e agreste
E s' incolori non lontan la rosa, [ sco, Semplicità; quindi ondeggiar la messe,
Gbe tu al marmo darai spiccata appena. Pender le capre da un'aerea balza,
Non odi tu per simil colpo il fido La valle mugolar, belare il colle;
Pianger vedovo tortore dall'olmo? Quiuri marmoreo sovra Ponde un ponte
Quando più ferve il dì, quandopiùi campi Curvarsi , e un tempio biancheggiar tra
Tacciono, il verde orror della foresta , [il verde,
Che il sole indora qua e là , ti accolga. Straniere piante frondeggiar, che d'ombre
Nel rio, che si lamenta, e in ogni fronda. Spargono americane il suol britanno.
Che il vento scuota, sentirai la voce
Della tua sposa* con le amiche note,
Sotto il suo busto nella pietra incise.
Ti parlerà: Pon, ti dirà, pon freno t
CarOt a tanto dolor-' felice io vivo .
£ quando il più vicino astro su i campi
La smorta sua luce notturna piove,
Pur t'abbia il bosco; candida le vesti,
£ delle rose, che di propria mano
Per lei spiccasti, incoronata il capo.
La tua sposa vedrai tra pianta e pianta;
Ambo le guance sentirai bagnarli
Soavissime lagrime, e per tutta
Scorrerti l* alma del dolor la gioja.
Così eletta dimora e sì pietosa
L*Anglo talvolta, che profondi e forti.
£ su ramo, che avea per altri augelli
Natura ordito, augei cantar d'Europa:
Mentre superbo delle arb tree corna
Va per la selva il cervo, e spesso il capo
Volge, e ti guarda; e in mezzo ali* onde il
. [ cign
Del pie fa remo, il collo inarca, e fende
L' argenteo lago: così bel soggiorno
Sentono i bruii slessi, e delle selve
Scuoton con istupor la cima i venti.
Deh perchè non po>s* io tranquilli passi
Muover ancor per quelle Jvie, celarmi
Sotto r intreccio ancor di qu»».' frondosi
Rami ospitali, e udir da Innge appena
Mugghiar del mondo la tempesta, urtarsi
L'un contro V altro popolo, corone
Non meno che i pensier, vanta gli affetti. Spezzarsi e scettri! Oh quanta strage! Oh
[ quanto
Scavar di fosse, e traboccar di corpi,
K ai condotlier trafitti alzar di tombe !
^ Ne già conforto sol, ma scuola ancora
Sono a chi vive i monumenti tristi
Di chi disparve. Il cittadin, che passa,
Gira lo sguardo, il piede arresta, legge
Le scritte pietre de' sepolcri, legge.»
Alle più amate ceneri destina
Nelle sue tanto celebrate ville.
Uve per gli occhi in seno e per gli orecchi
Tanta m'entrava e sì innocente ebbrez-
[za.
Oh chi mi leva in alto, e chi mi porta
Tra quegli ameni, dilettosi, immensi
Boscherecci teatri! Oh chi mi posa
Su que' verdi tappeti, entro que' foschi , Poi,suo cammin seguendo,in mente volge
Solilarii ricoveri, nel grembo Della vita il brev*anno e idi
Di quelle valli ed a que' colli in vetta!
Non recide colà bellica scure
Le gioconde ombre, i consueti asili
Là non cercaro invan gli ospiti augelli;
Ne primavera s* ingannò, veggendo
Sparito dalla terra il noto bosco.
Che a rivestir venia delle sue frondi.
Sol nella man del giardinier solerte
Mandò lampi «olà l' acuto ferro,
perduti,
£ (lice: Da qual ciglio il pianto io tersi?
Non giovan pun lo, io sol lo, i carraresi
Politi sassi a una grand'alma in cicb,
Dove altro ha guiderdon, che gl'inlagliaK
Del Lazio arguti accenti, o" le scolpite
Virtù curve su V urna e lagrimose.
Ma il giovinetto, che que' sassi guarda,
Venir da loro al cor sentesi un foco,
Che ad imprese magnanime lo spinge.
[mi
Che rase il prato, ed agguagliollo, ei ra- £igli mirar, di cui risplenda il nome
C-he tra lo sguardo e le lontane scene Ne* secoli futuri, o mia Verona,
Si ardivano frappor, dotto corresse. Non curi forse? Or via, que* simulacri,
Prospetti faghif inaspettati incontri, Che nel tuo foro in miglior tempi ergesti;
SECor.O DECIMONONO 193
i danqot al suol : cada dairalto Sonni anch' ei dormirà non meno illu-
divioo Fracastor; dairallo CWi le non mal note aline dai lan'xì [ siri,
liti f spezzato in cento parti D^ un vile ozio sciorriansi; e di novelli
ingrato terrea MafTei rimbombi. O in f;aerra o in nare salutari eroi
io vorrei nelle città piii illustri Feconda torneria la morfa polve.
to sacro ove color che in grande Bella fu dunque e generosa e santa
o in nmìt cose più graudi opraro La fiamma che t'accese, UGO,e gli estremi
•er con unor pari in superbo DclPuom soggiorni a vendicar ti mosse,
giacer sul lor guancial di polve. Perche talor con la febea favella
umano signor per la cui morte Sì li nascondi eh' io ti cerco indarno?
enti sol non si vedran que'\oUi £ vero chiodi a poco innanzi agli occhi
el cenere regio adulatrice Più lucente mi torni, e mi consoli :
di Fidia su la tomba sculse ; Così quel liumc che dal pnro laco
servo che recò la patria in corte Onde lieta è (jiuevra escecilestro ',
niubtro e cittadino a un tempo; Poscia che alquanto viaggiò, sotto aspri
luce che col nudo acciaro in pugno Sassi enormi si ceia, e su la sponda
IO amar .<eppe, e che i nemici tutti, Dolente lascia il pcilegrin, che il passo
sso ed anco la vittoria vinse ; Movea con lui : ma dopo via non molta
saggio che trovò gli utili veri Sbucare il vede dalla terra, il vede
rovarli meritò; quel vate Fecondar con le chiare onde sonanti
ritto el*be di por nel suo poema Di nuovo i campi e rallegrar le selve,
tu, che nel petto avea già posta : Perrbè tra l' ombre della vecchia etade
elio industre i veti lor sembianti Stendi Innge da noi voli sì lunghi ?
streria : nella sua sculta imago Chi d* Kttor non cantò? Venero anch' io
i, mirale, ^a la bontà che impressa >i//o raso due volte y e due risorto,
►r portò ; quegli la fronte increspa L' erba ov' era Micene, e i sassi ov' Argo;
omun bene ancor pensa nel marmo. ^}à non potrò da men lontani oggetti
elle vene d' un eroe che trasse 1 rar fuori ancor poetiche scintille ?
occhi sol de' suoi nemici il pianto Schiudi al mio detto il core : antica l' arte
ì il bellico ardir : là un oratore Onde vibri il tuo strai, ma non antico
tende la man, cosi le labbra Sia l'oggetto in cui miri : e al suo poeta,
laover par cfa^ tu l'orercbio tendi ; Non a quel di Cassandra, Ilo ed Elettra,
nella faccia che gli è presso, il sacro Dall'Alpi al mare farà plauso Italia.
•0 furor vedi scolpito. Così delle ristrette e non percosse
.'tra gode, e si rallegra il bronzo Giammai dal sole sotterranee case,
rar qua e là scettri clementi , ^o parlava con te, quando una tomba
sti brandi, e inviolati allori , Sottoallo sguardo mi s'aperse, e ahiquale !
soavi e non servili o impure. '^»^» >o s*«sso fuggir rapidamente
lo la scena del corrotto mondo ^?**l« guance d'Elisa il so!it' ostro ,
ensi attrista od il cor prostra, io entro '^ languir gli occhi, ed un mortale affanno
mitero augusto e con gli sguardi Senza posa insultar quel scn che mai
di volto in volto; a poco a poco Sovra le ambasce altrui non fu tranquillo,
una vena penetrar di dolce ^"^ del reo morbo l'inclemenza lunga
imaro che inondami, e riprende l^Uenlar parve ; e già le vesti allegre
ze prime e si rialza 1 alma. (chiedeva Elisa, col pensiero ardito
n quel vólo colà 've monumento ^} ^^^ Novare suo 1* aure campestri
' erge alcun, quali parole nere Già respirava ; ed io, credulo troppo,
• vegg' io su la parete ignuda? Sperai che seco ancor non pochi soli
t che primo di que' grandi aduno Dietro il vago suo colle avrei sepolti.
elbel chiostro dormono con Co- Oh speranze fallaci! Oh mesti soli,
[pre Che ora per tutta la cetesie volta
glierày deporrà in questo loco ^" <^"n sospiri inutili accompagno!
ita e,inmarminonminori chiù- Foscolo, vieni e di giacinti un nembo
[ so, * Il llOi!a..o.
>£OPARDi, Crestomazia. II. V^
194 CRESTOAAZIA POETICV
Meco spargi su lei: ravvisti a tempo, £ nel vólo palagio ecco mi trovo.
I miei concittadin miglior riposo fgu Stillan le volte, e per 1' aperte sak
Giàconcedono ai morti; an proprio alber- Passa ululando l'aquiioo, né tace
Quindi aver lice anco sotterra, e a lei Nel cavo sen dell' ozI«>se scale.
Dato è giacer sovra il suo ccner solo. E pender dalle travi odo loquace
Ecco la patria del suo nome impressa .* Nido, entro cui tenera madre stasst
Che delle madri ali* ottima la grata I frutti del suo amor covando in pace:
Delle figlie pietà gemendo pose. Quindi sul campo con gli erranti pasti,
l\endi, rendi, o mia cetra, il più soave Per via diversa dalla prima, io torno:
Suono che in te s'asconda, e chea traverso Veg<{0 persona tra i cespugli e i sassi.
Di questo marmo al fredd'orecchio forse Sedea sovra il maggior masso, che un
Giungerà. Che diss' io? Sparì per sempre [ giorno
Quel dolie tempo che solca cortese Sorse nobil metà d*alta colonna :
L'orecchio ella inchinare a' versi miei. Abbarbicata or gli è V edera intorno.
Suon di strumento uman non v'ha che M'appresso; ed era ossequTabii donna:
[ possa Scendea sul petto il crine in due diviso,
Sovra gli estinti, cui sol fia che svegli E biauca la copria semplice gonna, [so
De' volanti del ciel divini araldi Vat che lo sguardo al ctel rivolto e £•
Nel giorno estremo la gran tromba d'oro. Ì^AÌt nubi si pasca, e tutta p(^
Che sarà Klisa allor? parie d'Elisa L' alma rapita nel beato viso.
Un' erba, un fiore sarà forse, un fiore, Chi sei? le dico; ed ella, i rai pensosi
Che dell'aurora a spegnersi vicina Chinando, Solitudine m* appello.
L'ultime bagnerm roride stille. O diva, sempre io t* onorai, risposi.
Ma sotto a qual sembianza e in quaicon- Metteadal mentoappena ilfiornoveilo
Dell'universo nuotino disgiunti [trade Ed uscendo ( tu sai che parlo il vero )
Quegli atomi ond' Elis ì era composta , Dal folleggiar d' un giovauil drappello ,
Rluniransi e torneranno Klisa. In disparte io traeva; e se un sentiero
Chi seppe tesser pria dell'uom la tela Muto e solingn a me s'aprìa, per esso
Ritesserla saprà ; l' eterno Mastro Mi lasciava condor dal mio pensiero.
Fece assai più quando le rozze fila Poscia delle città lodai più spesso
Del suo nobit lavor dal nulla trasse ; Rustico asilo, e più che loggia ed arco,
£ allor non fia per circolar di tanti Piacquemi un largo iaggio e un buon ci-
Secoli e tanti indebolita punto [no. [ presso.
Ne invecchiata la man del Mastro eter- Questoso ben: ma che sovente al varco
Lode a lui, lode a lui sinoaquel giorno. Un nume t'aspettò, pur mixammento»
Ippolito Pindemonte. Riìpose, e che per te sonar fé' l* arco.
E stato fora allor parlar col vento
27. La solitudine. II parlarti de' campi, e morte stato
Far un passo lontan dal tuo tormento.
Picn d'uncaropensierche mi rapiva, Ma tutto de' tuoi giorni era il gran fato
Giunto io mi vidi ove sorgean d' antica '"Seguir la tua giovine maga, e meno
Magion gli avanzi su deserta riva. Curar la vita che Io starle a lato^
Cinge le mura intorno alfa 1* ortica , E> dal torbido sempre o dal sereno
K tra le vie della cornice infranta Lume degli occhi suoi pendendo, berne
L' arbusto fischia e tremola la spica. L' incendioso ior dolce veleno. «»
Scherza in cima la vite o ad altra pian- E vero, è ver : ma chi mirar l'eteroe
[ ta , Può in man d' amor terribili quadrelli,
In giù cadendo, si congiunge e allaccia, E non alcuna in mezlo al cor tenerne,
K idi ghirlande il nudo sasso ammanta : S' egli al fianco si pon d'una donzella
E con verde di musco estinta faccia Che ad una fronte che qual astro raggia
Sculto nume qui giace, e 1' umil rovo Giunga iusè stessa ogni virtù più bella;
Là gran pilastro rovesciato abbraccia. Chemodesta ci sembri e non selvaggia,.
M'arresto; e poi tra la folt'erbamovo: Varia ne mai volubile ; che V ore
Troppo di cardo o spina al pie non cale, Viva tra i libri e pur rimanga saggiaf
SECOLO fìECIMONONO 195
tii, l' esperienza e il core Gode Tolar; dì moudo in mondo passa ,
Passa di meraviglia in meraviglia.
Levando allor la (roote trista e bassa,
!0 ed il pensier, che ad altro è
[ volto,
esso potran farmi signore.
; allor sorrriso tal, che al volto
* maestà crebbe dolcezza,
diva; e così dir 1* ascolto :
di me seguir pnnge vaghezza ;
)gnor come a poc' alme infondo
verace della mia bellezza. —
mi 5egue,perchè scorge immon-
[ do
di viltà quantunque ei mira:
9n ama me, detesta il mondo.
ma me chi del suo prence l' ira
estossi ed in romita villa
tiontario il pie ritira;
Iure del treno, onde scintilla
n balza, egli odia, odia Paspctto
e livat che ne sfavilla,
hi la lontananza d' un soggetto
Ile prima il fea contento e pago
sse partendo il cor del petto;
un romito ciel si mostra vago >
r vagheggiar libero e oscuro
ir aere 1' adorata imigo.
voti d' nn cor, ohe non è puro,
li lui che in me cerca me slessa
iltari e i sacrifizi io curo,
auto a pochi è dagli dei concessa
e sol di se si nutre e pasce !
dì che a lei spunta è sempre
[ dessa !
Deh! grido, se ti piate il culto mio,
E che pensi di me, saper mi lassa.
Il tuo culto sprezzar no non poss' io :
Ma scosso appena dalle gialle fronde
Avrà r autunno il lor ramo natio,
Che tu darai le spalle a queste sponde,
E d'altro filo tesserai la vita
Ove città sovrana esce dell* onde.
Né però dal tuo core andrà sbandita
La voglia di tornare ai bosco e al campo
Tosto che torni la stagion fiorita.
E se noi vieta di due ciglia il lampo,
Se una dolce eloiquenza non ti lega ,
Ti rivedrò; né temo d^altro inciampo.
Ciò detto, in pie levossi ; ed io: Deh!
[ spiega
Se ancor mi s^appareccbia al core un dar-
[do.
Ella, già mossa: Il labro tuo mi prega
Di quel che dubbio pende ancoal mio
i; sguardo .
Ippolito PindemoHte.
28. Origine del corallo.
Pria che il nocchier pel regno ampio dei
Levasse ardite vele,e potè umano [venti
Cuore l' aspetto sostener dell' acque,
D* orride forme albèrgo e di portenti
E d'alte meraviglie era e di mostri
Qor vive a se cara! Uom che le L* invì'olabil mare. Il navigante ,
[ ambasce Cui non molto partia dal patrio lido
•rso, torcendo in se la vista, Pauroso camrain , fra le sonanti
-à, questi per me non nasce. Tempeste il guardo palpitando spinse
1 sol qualche ben nel vario acqui- Neil' alta notte. E vide emerger truci
[ sta Dall'onde combattute immani aspetti,
, perchè in lui strugge e disperde E vagolar fantasime, cui spesso
Irradiava e di terror pingea
Il fuggente baleno; e dalla poppa
Lui diverso feria d' ignote belve
Tale un tumulto e d'urli alto frastuono
Che torse gli occhi esterrefatto e vinto.
Poi come cesse la tempesta, a| tremulo
d* uom non gli vien contro al- De le stelle cadenti ultimo raggio,
[ cuna , A 11' attonito ciglio il mar dischiuse
Meraviglie non viste: il mar cui lieve
Aura careggia a la nascente luce.
Vide gemmate conche ori-lucenti
Di solido ametiste e di cora'io
Lievi a fior d* onda sorgere, e sedersi
Diresembianze in quellej eli marin carr»
cenza di se stesso trista,
lucido colle, o per la verde
un bosco, co' pensieri insieme
li dolci sogni, in cui si perde,
già il mìo fedele; e duol non
[ preme,
è stesso ritrovar non teme;
silenzio della notte bruna
i fissar gode le ciglia
ro!to soave, o argentea luna;
*ampia degli astri aurea fami-
[filia
190 CRE$TOMAZIA POETICA
Dell* ondivaga Tet», a cui fra il rauco Andromeda fu segno, e al ìnarin tnosfro
Suon delPonde sbattute e ì raggi infranti (Cosi volle il destin, così Io sdegno
Divin corteggio le tritoote schiere Puote in divini petti) in sullo scoglio
Fean colle gravi buccine sonanti. Fu proferta, le belle membra igAuda,
£ fama anco s* udia che nella qneta Dalle irate nereidi, il ciel veloce
Notte, infauste al nocchier, voci soavi Sovr* alato destrier di Danae il figlio '
Via per 1* onde corressero di ninfe: Trascorrea d' Etiopia ; e in giù chinando
Voci infauste al nocchier, cui la dolcezza 11 generoso sguardo, al disonesto
Vinse del canto ingannatore, e il rapo Supplizio di magnanima pietade
Grave dal sonno reclinando, cadde Si spinse: e stretto iu man l'atroce teschio
Dairalta poppa, e tomba ebbe nell'acque. Della spirante gorgone immortale.
Di portenti argomento e di delitto, £i nel rigor di sasso il fero strinse
£ d'occulte paure, il mar sorgea Immane orrido mostro ; a la cui sozta
Dinanzi all'uom, che dall* antico seggio Crudcl fame, dolente erano invito
Cui lo strinse Natura il guardo e l'alma Le ignude membra della mesta offesa.
Spingea ver (jncllo tuttavia tremando. E poiibè cesse il turpe assalto, in terra
Ma come al terzo regno aditi aperse Po>ò 1' infausto capo, e le man volse
Acre necessilade, e V uonif cui dotto A la donzella , cui di ceppi intanto
Fé sperlenza nelle ardite imprese , Greve pc^do il bel corpo affaticava.
Trovò, dono del ciel, come si vinca Bebbe la rena allor del serpentoso
Del gran padre Occàu la procellosa Capo il sangue stillante; e dove tocche
Ira temuta ,• vincitor le vele Del sopposto terreno ebbe le frondi.
Alzò dinanzi ai venti, e trovò modo Per subito rigore ogni virgulto
Di spiar giù ne' fondi umidi, albergo Fu vòlto iu pietra e nel color aanguìgao;
Inviolato delle ninfe ; e tutte £ le dive del mar colse vaghezza
Alle sue mani si recò dell'onde Del veduto prodigio; e agli arboscelli
Le ricchissime spoglie un tempo ascose. Che sul fianco sedean de* scogli ignudi ,
Né te più lungamente, o di romita Quella imago appressando, e a le verd*ai-
Stanza e di freddi spechi e di caverne Di non più viste proporine selve [gbc
Parto gentil, purpureo corallo, 11 regno d' Anfitrite andò superbo.
Obbliò dispregiando. Umile arbusto. Ma pr<ichè i duri stami acuto ferro
Fra quante cresce il mar piante e virgulti Svolse dapprima, e la virtù si accrebbe
£ lievi spugne e verdi alghe natanti. Per sopposto cristal de le papille ,
Ignoto ci nacque, e scolorando i rami Filosofia dal ver l' ombre rimosse
Per soverchia vecchiezza, il roseo manto De' sogui ascrei. Naturala se l' industre
Si fé rancio non visto; o dallo spesso Lavor, che di viventi alme fea nido,
Picchiar dell' onde e de' squamosi dorsi Rivendicò ; che delle man sue dive
Boso e infranto si giacque. Entro a' ma- Opra è il corallo e quanto l'universo
Umid' antri u'avean cura e diletto [rlni Per ignota cagion pasce ed abbella.
Sol le nereìdi, e ne ingemmar le avvolte £ poiché sovra saldo immobil trono
Chiome e i riposti talami e la stanza Locò il sole, e alle sfere ordine impose
Della bionda Anfitrite e del possente Dell'Olimpo sublime, e all'uom fé dono
Scotitor della terra almo Nettuno. Di conoscenza, liberal si rese
Di Cecrope la storia opra divina Natura a più .«cottili opre ammirande.
£sser disse il corallo, e al favoloso Finse di fior la terra, e le beanti
Nascimento plaudir del roman Pindo Fragranze, amor d' eteree nari, accolse
L' alme sorelle, poiché in molle, ornato, Entro a bei fiori, e colorì le foglie
Nitido verso s'awolgea, maestro De' raggi che in suo grembo Iri dipinge.
D' amorosi precetti, i' infelice Indi a pe>ci di lucide rotelle
£sul di Ponto % a cui del trasformato Fu cortese e di vago argenteo ammanto,
Mondo gli aspetti primi, e le novelle £ die piumosi e colorati i vanni
Forme diverse un dio cantando apprese. Agli augelli e di canto anima e voce f
Poiché della superba ira di Giuno £ distinse di fregi e macchie d* oro
^Ovidio. ' Perseoi
SrXOLO DECIMONONO
i97
leggerissime farfalle,
gii legae iafra le punte or meco
i ardoc li affretta e fra le sirti :
:iaai|K> al nocchier , che palpi-
[taudo
ì addita e le domanda infami.
M* onda il mar, né sospir d*aure
intorno comraove. Ecco a fior di
[onda
scoglio emerge. Or giù nel fondo
1 negri fianchi delia rupe
echio, che spesse e caporolte
rcdrai le coralline piante,
ludo macigno si riposa
ente ciascheduna e impronta
(nggel, né dal sopposto sasso,
ise, nodrimento bee.
» seme nascono, ne certa
par di radici entro cui passi
lor che le fecondi e cresca.
»lo petroso il pici iol fusto
da questo alterni e multiformi
di foglia ignudi e di corteccia
ni, cui di spessi nodi
lura spiacente anco difforma.
lio oltre si spinge, e noi disvia
pusto umor, siccome punte
barbaro Cacto arma il solcato
lungo il ramoso ordine vedi
ente partite e in fasci accolte
lobili fila. Indarno estimi
^0 difesa abile appresti
arida man ; che, se di lieve
iproviso abbia sentar, le aggua-
glia
) e le commette, e non t' è dato
quelle scorgere né loco ;
bianche gocciole minute ,
eder, si grandina e punteggia:
otesimìl per V umid'erbe
lita chiocciola, che il nodo
icente muscolo protende
guscio nativo e move lenta
) delle stelle; a cui se intoppo
accorre, la cornuta fronte
1 nicchio rilira, e la patente
Qiiida spuma occupa e chiude.
Cesai'Cjiricifìì corallo, e. L
serse generazioni di pecore.
fecondo il dima e la natura
Jie le ricetta, indole e forma
le pecorelle: come in terra
Non una è de* cavalli e de* segnaci
Veltri la specie e de* volanti augelli,
Se ben discerni , troverai diversa
L* un' agnella dell* altra; e la fatica
£ lo stadio a mal fin quagli conduce ,
Se non bada alla scelta allorché attende
Di nuovi capi a ingenerar V armento.
Premio invano ed onor spera dall' opra
Chi mal vide da pria , cercando ali* ague
Degenere marito ; e chi nel pieno
Felice ovil ne trascegliea qoell' uno
Che tutti avanza in vigoria d* etade,
Ricco di vaga prole altrui prevalse.
Come fan duo nocchier, che, d*un mede^mo
Lido salpando, al mar danno le vele:
L* un , cui la vista non falli tra l'ombre,
Per diritto cammin tocca a la meta;
L* altro, cui ^ima traviò la notte,
L* oscuro nembo o la piegata antenna,
Fa ritroso sentiere e in mar si perde:
K sì raffiNTiò i remi e , tutte ali* aure
Predatrici le vele in alto alzando ,
Rapidissimo solco aprì fra l* onde;
Ma non però dal corso utile alcuno
Gli vien, che in peggio il primo error lo ad-
[duce.
La bellicosa Cimo <, aspra d* inturno
D* eccelse rupi, in sen cresce e nutrica
Arieti , che forti e a spira avvolte
Verso gli orecchi hanno le corna, e i cervi,
Così veloci movono correndo,
Lasciansì indietro e le silvestri fere.
Tra i faretrati Persi e i Caramàni
Coda enorme protende, al mover lenta.
L'orientale agnella; e di più corna
Sotto r adusto cielo orna la fronte,
£ come cervo solitaria imbosca.
Or, pari ali* asinel, dalla ramosa
Testa lunghe nna spanna prone cadono
In giù le orecchie; or di gran gobba il dorso
Va distinta fra gli Indi; e dove Innga
Sporge in altre la coda, una gran massa
Di lento adipe solo alla numida
Ed all' araba agnella i lombi aggreva.
Ma, che intera una greggia a guardar
Novellamente , o ricrear soltanto [prenda
Ami la tua (che trascuranza , e a caso
Male assortite nozze o clima avverso
Invilir fra pochi anni], a te 1' altrice
Non roen di mostri e di nocenti belve
Che di (orti animali Africa mandi
11 generoso ariete , e con qoello
Bino velia la specie e il gregfe adevpi.
^ L* isola di Cortica,
i98 CRESTOMAZIA POETICA
Se tardi prende accrescimento e forza Tra i fertili si vide immensi piani]
Sua venturosa prole, a lei natura Della betica terra , ogni desio
Un più largo confin di vita assente ; Del riveder la patria in Ini si tarqne;
E dove altra si giace inutil* ossa Quivi pose Tovil, quivi ebbe regno
Già preda della morte al terzo iastro , £ ferma stanza; e il ferro indi, che tutti
Quella pur si feconda ed al travaglio Insanguinò que' campi, a le capanne
Vale de* parti ed a lattarne i figli. Perdonò de' pastori ed agli armenti.
Candida il roseo corpo e in ricci avvolta Guarda, ch^ un misto di selvaggio ancora
Copre morbida lana, e al tatto agguaglia Dell' inospite suolo onde a noi venne
Molle bambagio, che al niliaco Egitto Ti palesa il merin ! se non che il grave
£ ne' campi maltesi appar del grembo Contegnoso andamento e 1* altereua ,
Dello squarciato calice diffuso. Dell' ispanica terra esser ti dice
Quindi l' Ibero dai propinqui lidi Abitatore. Or chi n' acquista, al vdlo
D'Africa lo raccolse; e il Tago e l'Ebro Badi, agli atti, alle forme, onde non erri
Primamente pascean del fortunato Nella scelta il giudicio, e di non vera
Gregge le torme ; e quindi oltre Pirene Ignobil razza adempia indi l'ovile.
Varcaro nelle Galiie, e la divisa Tra le iberiche madri alto si estolle . .
Alblon ne fé acquisto, e nll tno seno 11 maschio, e nell' andar libero e pronto
Sotto cielo miglior tu l'accogliesti, Par che ad arte misuri e studii il passo.
Italia mia, di quanto altrui comparte Scuro e vivace ha l' occhio, oltre misura
L' alma Cerere e Bacco e Pale e Flora Largo il capo e compresso, irte le orecchie,
Non manchevole madre e pronta altrice. £ giù ravvolte a spira ambo le corna.
Ma chi dal natio seggio a più benigne Denso ha il ciuffo elevato e sime nari,
Piagge, all' Ispano suol primo le trasse ? Grossa cervice e breve còllo, e largo
Qoal più caso o fortuna a noi fé dono Frai rilevati muscoli si spande
Del pellegrino ariete, che tutti Lanoso il petto; in molto adipe avvolta
Abbandonando della patria terra Tonda è la groppa, e molle si riposa
I ritrosi costumi, a miglior culto Sovra 1' anca piegata agile e pieno.
S' arrese obbediente, e nuovo assunse Come suole apparir purpurea veste
Abito e tempre e di merino il nome? Sotto candido vel che man gentile
Tra le prische memorie e nell' incerto Suppone e di leggiadro abito adorna
Volgerdegii anni il guardoalcun non pose; Alcuna delle Grazie, ove i condensi *
Ne dell'esule armento ai nostri lidi Bioccoli mova, ti parrà la cute;
Alcun notava i tempi, e sì beli' opra Ma se tanto è sottil che dell'errante
Dalle muse convenne esser negletta. Sangue gli avvolgimenti appaion tutti »
Forse rasa dal lito africo appena Sta però salda nei tenaci bulbi
Era Carlago , e calda ancor la strage La contessuta lana oltre a duo remi.
Della punica rabbia, allorché addotto Tal forse era il monton che di Lihetra
Venne all'ultima Gade il primo armento: Sull'ara apparve ai giovinetti figli
Se così piacque al vincitor Romano, . Del tebano Atamante; e tal si fece
Fra l'altre opime spoglie e Tauro e l'armi II gran padre de'numi allorché, centra
Della vinta città, nelle felici Tiféo gli sdegni differendo e i tuoni,
Glebe recarlo dell' ausonia terra ; Stampò di bifid'orma il suol d' Egitto ;
Onde il Calabro poscia e il tarentino E smarriti il seguian conversi in belve
E il milesio pastor V itale schiatte Del combattuto Olimpo i fuggitivi
Bigeneràr, siccome intorno è grido. £igliy esulando alle terrene sedi.
E forse allor che tutt' Africa in armi C. .<^We/^ La PàstorUia, 1U>. Y.
Con barbarica possa entro i confini
Si versò delle Spagne, onde sì cruda 30. Il viaggio malinconico»
Volse fortuna un dì con dubbio Marte ,
L'ire seguendo de'suoi re, l'insegne Com'nom che, ignaro della ▼ia,si mette
II nomade pastor movea dall'arso Per ignoto cammino alla ventora.
Terreno^ e affidò al mar coU'ampie greggi Mesto in core e pensoso, a le mie hdle
/ vagabondi lari, E come giunto Colline io dissi ed alla patria addJO|
SI- COLO DFCIMONONO i90
è forte ancor mi preme e strugge Delle nozze festivi in ch'io la trassi
pianto la memoria e il fato A diportarsi per le ville opime,
he morte dispietata e fera E le amene isolette che la bella
1 fiore de* begli anni suoi. Romana Lesbia e il tenero Catnllo
ingiunti, ne d'amici il dolce Ebbero care. Ahimè! chi detto avria
enne desio, né Pamor santo Che vedovo e solingo e abbandonato
• figlio; e non la chiara e bella Per Torme istesse ancor, ninfe pietose,
ia amistà che a te mi strinse, Destin mi fosse di tornar fra voi?
donna, onor del mìo paese, Stretto d'amare rimembranze il passo
le' tuoi: che, dove aspra ne incolga Recai vèr Baldo, che dal verno irsute
iagura, anco la terra istessa Leva le fronti trarupate al cielo:
die vita, e i teneri parenti Pur com'uom cui disvia cura profonda
mi del pianlo, e i dolci amici Dal retto intender della mente. E vidi
travaglio all'affannato core. La non pria vista ancor, ma riverita
'austero di sofia precetto Dentro all'intimo petto, per le accolte
ro che commiseri all'afflitto Arti felici e i liberali ingegni,
; invan di ricordi e di parole Regal Verona. Infra quc' savi un seggio'
conforto ove la doglia abbondi; 11 mìo buon genio apparecchiommi; ond'io
samo rhe dolce a le ferite Fui degnalo del Circo o del Liceo,
, e d'oblio le sparge e le rinserra, Cui già vide il cantor del molle Rijo
itrio del tempo è conceduti). E il divin Fracastoro. Al cader primo
rima, errante pellegrino, accolse Della tacita sera ecco per l'ampie
erdi lauri e il margine fiorito Contrade e i calli obliqui in gran faccenda
nulto dell'onde e i sacri ulivi Vociferando dileguarsi il popolo,
padre Benàco. A' miei vcrd'anni, Ricuvrando al suo tetto, e al convenuto
do il caro delle muse invito. Cenno avviarsi timida e sospesa
qui m'ebbi; che fra queste rive, La verginella per udir parole
e udisti, germinò la prima D'amore: ed io, cercando esca all'intenso
ch'io cinsi poetando al crine. Dolor, mi volsi nel silenzio al loco
n della speranza e dell'amore Infrequente; ai sepolcri, ove le mule
qui venni allora, e lutto intorno Ceneri e l'armi stanno de' potenti
li: e Itelo il cielo era, e la terra Scaligeri. Nessuno ancor mi occorse
ma, e festivi i colli e l'acque, Monumento che parli airintelletto
icata Pallade, i severi Più di questo. La storia ivi sta scritta
n'aprendo del viril suo petto, Dei secoli feroci. Il brividio
li porse per seguir la dolce Della morte mi prese; e tutte a tondo
el canto e sue sante vestigia. Rigirando le sbarre onde si cinge,
;non punte il tempo? E che non Dcntroa quell'arche mi parean commosse
[cangia Fremer l'ossa, e sonar l' arme, e rizzarsi
) in triste nostra mente afflitta Dalla cìntola in su le ferree facce
vagli confusa? Oscuro il lago Dei sepolti vegliando alla difesa
li, e mesto il cielo, e lagrimoso Del monumento. Ahi, che dormian l' c-
) il colle, e nel siìcnzu) mula Ineccitabil sonno allor che ardito [terno
a selva, e quando, le notturne Stranicr ruppe gli avelli, e razzolando
visando, in flebile lamento Isella polve, monili e giaco e insegne
squille ricordar la prece Tolse aglischeltri, e il manine le corone,
voto mortai debbe agli estinti E al pugno chiuso ardì'nvolar la spada!
orecchio,ahi lasso ! e per l'immenso E come l'un pensier dall'altro scoppia,
dell'acque e por le valli e gli antri Qui mi soccorse ancor che nel ricinlo
pechi romiti un miserabile Della città, devoto a la memoria
levarsi da per tutto intesi. Di Giulietta e Romeo, funebre un sasiO
le ninfe, del mio duol pietosa, Disventuralo amor pose, e la tarda
[irrotto ira lor della perduta Pietà d'avversi genitori. Ond'io
Ice sposa: ricordando i giorni Avidamente ne cercai ^ct V^\fi^t^
200 CRESTOMAZIA rOETICA
Della notte, sostando ove d'antichi Qui anror di che dolerti abbia, o cortese;
Tempi scorgea le venerande impronte: ^^hè il filtro, onde sopita ebbi la donni,
Ma né più cippo alcun deirin felice Sciogliea già i s^nsi, e nel divincolarsi
(coppia rammenta i nomi, ne delubro Quel misero, tra i freddi abbracciamenti,
Più ne guarda le spof»lie, e sol fra poche ^'Jn raccapriccio fremere la vita
Alme cortesi la memoria vive Sentì per quelle membra e tremar tutte
Del fiero caso. Indarno ad ogni sasso ^ scaldarsi a*suoi baci... Amor di tanto
Mi atterrai lacrimando, indarno a tanto ^^ lor benigno, e tanto ancor di vit»
Amor compiansi; perocché Tarerba Bastò per abbracciarsi e saper come
Istoria ancor mi ragionava in mente Amando aucora si moriano insieme,
Di/quelTamico fraticel. — Cercato L'un di veleno e l'altra di dolore.
A morte e a strania terra esule uscito Tardi iosorvennial monumento,ahi lasso!
Bomeo, pur io promisi iu salvo addurgU Piangendo io il dico,e tupiangendoscrivi.
Quando che fosse la sua donna e trarla Del cor Taugoscia alleviar cercando
Dalle ingius!e del padre altere voglie: ^'}^^ J"» stringea, dall'ombra e dai ricinli
Però che a' miei ginocchi amendue fórsi ^^^^'^ notturno al puro aperto cielo:
Nel segreto gli amami, e benedetti A.1 gran ponte che l'Adige attraversa
NelU sagramcntal pace gli strinsi. Sovra marmoree torri. Ivi il sereno
Onde per mio consiglio ad ogni sguardo -^^""c spirando, mi parca che tutto
Quella mesta si chiuse e, simulando Fo>se pace d'intorno: i campi e l'onde
Fiere angosce, per la(?rime e digiuni ^^ ^^i città soggetta, a cui dal balzo
Svenne, e a tutti fu chiaro il suo m >rirc; D'oriente splendea la bianca luna.
Perch'io d'alta viitù nappo le porsi ^* novello di patria ira intervenne '
Che assonna, e tulli della vita i moli ^[^ quel silenzio allo argomento,e nuoto
Sospende: uffici e sensi. A la mia fede l'ianlo, ch'ambo le rive, intra cui scende
Creduta ella, sostenne esser condona Mormorando il sonante Adige altero,
Nel sepolcro de'suoi: là d )vp, ahi lasso ! ^id'io scomposte e desolate. E quale
Dileguata la turba e sciolto il piauto, Stupisce e geme, di lontan tornando,
Scender dovrà per involarla, e meco ^^ monlanar sul campo o ne la valle,
Bediviva condurre a serurtade. Se torrente im proviso impeto fece:
Volò fidalo dell'esilio al loco ^^he trasportali i limiti e confusi ~
Tali avvisi recando indarno un messo; ^^c' podcr vede int«)rno. e dove all'aura
Ma quello sventurato come seppe Bionde sorgean le messi, esser palude
Per fama il caso e tenne per dolore E steril rena e sparse arbori e massi:
Morta la donna, d'un letalsuo tosco A questa imago mi pungea la vista
Fatto securo, disprezzò l'editto Di quc* lochi, cui lunga ha combattuto
Che il persegufa, tornando alla sua terra Di servaggio vicenda aspra e di pugne.
Non altro più che per vederla estinta Ne pur qui lieto è l'uom, né fortunata
Ancora è in un con ella seppellirsi. I-a terra; che talor sorge e s'avvalla
Cidi sventura I Ardilo e tutto chiuso Per cumuli e per fosse, orrendo a dirsi !
Nel suo dolor, venne furtivo all'arche Suona qui l'acre ancor di pianti e gri<l'5
Abbandonate, e con ferrati ingegni Fuma ogni gleba ancor del sangue; e tratta
Tolse la sbarra, e dentro si sommerse Dall'odio antico ond'arsero gli spirti
L'infelice; avvisando a fioco lume. De' combattenti, per le gelid'ombre
Cheavea con seco in testìmon dell'opra. Della notte ululando e lamentando
La poverella, le man giunte al petto. Vanno le pugne a rinovar pei campi.
¥. in bianco lino avvolta , in sulla polve P»ù lungo indugio non sostenni; e vòlt*
De' padri suoi. La vide, e senza mente All' attica Vicenza, i digradanti
Stette immoto sovr'clla singhiozzando Belici colli, e il bello ordine e i fregi
E tremando; ma poi che venir meno Lodai del circo olìmpico, e i palagi
Parve il ginocchio, e al cor stringersi il Onde il sovrano architettor die nome
[sangue, Alla sua patria e splendido decoro.
Bevve il tosco mortale, abbandonandosi Delbel tempio che al nome di Maria
Sovr*airamàlo corpo. E non e tulio Sorge sul colle e i citladim affida
SECOLO DKCMONONO 20 1
pre$«; e con immenso affetto Quella appunto che, in bronzo effigiata ,
co sacrato sottentrando 'luni lari adorna, ottima Tosi, e il dolce
, i riposi e gii umili perdoni, Offre tripudio del/a ?ita e il riso
monte in vetta, e vie più lieve A^ scelti amici che ti fan corona,
iiza mi rendea del loco E qui (siccome a pellegria cui duro
ierio alla salita il passo. Fato cx>strlngc ad esular dal caro
lor degli angeli, all'affitta Proprio paese alcun porge la destra,
tta Madre, opre e pensieri £ ne storna il dolore, e nell'afflitta
ì, anch'io di lagrime e di mirra Anima induce la speranza) un dolce
profersi; e il cor, sepolto Amico ^, un chiaro delle muse alunno
ato in pria, libero farsi E delle medic'arti a me fu incontro;
l^er mollo e palpitar lo intesi. E mi raccolse e salutò, siccome
'euganea terra infra gli illustri (Campato a marte o naufrago sbattuto
:colse; e rome ognor più intenso ^^ gi"^" tempesta che raggiunga il lito
rio mi pungea dell'alma Fuor d'ogni speme. A salutar' cnn^igU
le correnti onde felici II labbro aperse il mio buon Redi; e l'arti
l BreriU, mi recar nell'alto C le grazie e le mnse, a cui solenni
i paludi e al mar sonante. In sua ricca maginn sacrò gli altari,
igi apparir vidi fra Tacque M'adunò intorno; ma salute increbbe
iltade, Oh salve, io dissi, altero All' egro spirto, ed a' conforti il cnore
o forte dell'adriaca Teli Non s'aprì, che ferito e tutto chiuso
>lia! Io di te molto udia £ suggellato me l'avea la morte,
nell'infanzia: ed or le imprese Così forse del Iliaco ramingo
he io guerra ei consolie i trionfi li ^u udito, cui Pallade condusse
prata liberià col sangue Per lieri scogli e rischi e casi avversi
figli; e lodarne udia le moli £ per litoti giardini e dilettose
! gli edifici e le barriere Isole, di cui dolce un canto nscia
ìll'iracond'i Adria, che infranto -^i naviganti di sirene e ninfe
ato a' tui»i piedi e si ritira. Che legavano i sensi e de' più schivi
aude maggior ti si convenne; lVIolce;*u l'alletto; ed <>gli immoto e chiuso
vinte dal ferro arti divine, A la dolcezza che movca dal lito
la Grecia, ospitai si'àe £d agli incanti, in gran pensier sepolto
rembo porgesti ai prischi tempi, I^i Penelope sua, guardava indarno
rbarie perseguia crudele Dell'alta poppa all' Itaca lontana,
icendii» con gli odii e le rapine; J^e poscia il Brenta e l'antenorea terra
!ggi e costumi e sensi e moti Rivide ancora, a satisfar la vista
ICO apprendesti e liberiate Con la presenza degli illustri amici,
lo l'amor quando per tutta Di cui la fama m'avea detto i nomi
i ignoranza e furor cieco. £ la benevolenza e l'opre egregie,
vinto abbia mortai fortuna £ qui '1 sulfureo gioco e le bollenti
uto lion che sovra l'acque Acque sotterra e la vulcania fiamma
i Teti riverito e grande, Maravigliando i' vidi, e più mi piacque
^stigia ancor della tua prisca Quel sì caro ad amor queto ritiro
iscernp e la possanza avita. Del niio Petrarca, che, l'error fuggendo
'arti maestre a me fu schiuso Del seroi guasto e le sventure e i casi»
;ran tempio, a cui veglia custode Per aver pace là si trasse, e pianse
amico S ed ammirai la scola Di lei la morte che beata e bella
ti pennelli e l'opre eterne £d amorosa lo si udia dal cielo,
nte Prassitek: che quale L'aspra ferita del suo cuor piangendo,
nistra il nettare ai celesti Pietà mi vinse di me stesso, e rotto
ante, anco qui spira e parla Dalla fatica del cammin, la fresca
co marmo £be seconda; Ora del vespro e il solitario loco
e Leoi.oldo Gico^ara , presidente Di posar mi fé vago, e qui mi vinse
rcademig di-belle i4rii> * Il coos. doU. Fraacsscp AgUeUi^
20-2 CRESTOMAZIA PORTCA
Piacido SODDO. Fra que* verdi allori Parve si tosto, e su le gelid' ale
Gode il sacro si cinge ospite asilo, Fuor da gli antri rifei borea fu nnosso.
Vera e presente mi apjMiria del vate Tal su Taere un rigor corse che i fiumi
vesti
Kè fia morte per lagrime pietosa. Indurir su le membra, e sostar tosto
Koa quadrilustre amor, non Tonorato Attoniti pel campo i corsier vinti.
Versi) in ch'io vivo fra i gentili ancora Che vai , mìseri, allor voce, né sprone,
Mi vabe, ahimè ! per ritornar fra* vivi ^^ l' instante flagello ? Entro i ior petti
Quella che tanto sopr*ogn*altra amai, ^gni spirto guerrier dorme , che l* ossa
E compiè sua giornata innanzi sera. Possiede un gel di morte, e irresoluto
Ma ben, se contro morte inutil parve D'atra piaga depasce il sangue bruno
Il furor sacro di Calliope e il canto, Li' umide nari , e d' un medesmo fato
L'itale muse m'apprestar robuste Cadou le torme : sul funereo piano
Ali per tnrmi alla nemica etade Stanno i vasti cadaveri , e repente
E ai falsi ingegni, ond'io, quasi colomba, '^ confuso teuor lerve pedestre
Uscii fra tristi augelli al ciel poggiando. ^^ facenda e '1 conflitto , e come sempre
Cessa tu pur rinutit pianto e segui Più s' ad<iensan le morti, inerti e sparse
Le mie vestigia che la gloria accenna: ^^^^ le salme di guerra e le gran ruote
Se pur vera di te la rinomanza E le predate spoglie e i cavi bronzi
Mi presagì da' tuoi verd'anni un dio. Di morte, e i derelitti egri guerrieri
Svegliati ai grandi esempli ; e la viliade (^bi vista miserabile!) a' fuggenti
Vinci e la turpe indifferenza, avversa Dai plaustri querelandosi ; .né intanto
A le bell'opre; e la ruina e il lutto l>a bufera crudel resta e la neve
Canta all'Italia di Sionne ' e il nuovo Combattuta ne l' aere, e per eYitro
Ilio verace che l'antico ha vinto. — H tumulto e le grida e i feri scontri.
Questo mi disse e sparve. E il generoso Dov' eri allor, qual su l'amato capo
Conforto in cor mi posi, e nella mente Pendea turbin di guerra, ove più oprasti
Vigor nuovo mi corse e nuova lena; La giovan destra, e quale era il tuo fato.
Ma desto,ahi lasso! affisai gli occhi, e vidi Fratel mio, de la vita a me più caro?
Sola dinansi a me starsi una tomba. Ahi ! che le senza te tornate schiere
C. Arici, E > presaghi del ver sogni e un segreto
Sentimento del cor troppo mi parla !
31. La ritirata dallaRussia, Vanto d' eletta schiera, amor de* forti
Di mia patria speranza, onor de' tuoi.
Non vedi tu com'anco ogni più lieve Come cadesti ahimè! qual duol, qual morbo
Ferita al verno rincrudisce e imbruna Qual mìetea cruda man sì gentil stame ?
Su le membra mortali, e come spesso Miser ! clii sa se 1* alterezza e l' onte
L' infelice e l' estremo egro conduce ! l^d tuo superbo vincitof, cui forse
Ahi ben più il verno ancor che le furenti lu pascevi i cavalli , e la perduta
Scitiche lance e i disastrosi piani Speme di liberiate il non servile
Kon pria tentati e i gran deserti e i fiumi, Per disdegnoso duolo animo vinse ?
Tanti fi)rti.abbattea che non umano Chi sa se la nemica ira fuggendo
Ivi ardimento a perigliar condusse, Di selva in selva e de le fere il morso
E tra '1 ferro nemico e la vincente (Gelo in pensarlo) te solingo, errante,
Commossa per sua man fiamma cadea Non soccorso , non visto alfin le lunghe
La magnanima Mosca, e a lei fea plauso Fami domàro e le rigenli brume ?
Da paventosa meraviglia presa Come cadesti , ahimè ! qual più de' tuoi
La sorella regal, che quella luce Ne 1' ultimo sospir chiamasti a nome ?
Vedea splender sul mare: allor che fiero i-asso! che invan la pia madre e l'amante
Portento incomportabil di quel cielo Genitor sospirasti e il fratel tuo
'Accentuai poernsi Za Gerusalemme di- D'amor fiùchedi sangue; e niuBO al seno
^fruita, c6c ooa coodusse a lerAiae, Di noi ti strinse ; né il fuggente spirto
SECOLO DtCIMONONO
205
Kaccolse , e niun ti disse il vale estremo.
!Nè l' infelice tuo fato, né quella
Che di tanto desir , di tanta speme
Cara e trista memoria a noi sol resta ,
A me di carme generoso e quale
A i' estinte si deble alme de* forti
Lice onorar.; che nel turbato petto
Tace ogni nobil estro, e da mia vena [td!
I^on tragge assidua doglia altroché pian-
Se non che forse, se avverrà che prive
D'alcun favor non sieu queste ch*io spar-
Come consiglia amor, pietose note [go,
Da* cenomani colli, al mio lamento
Itale madri sconsolate, e caste
Vergini amanti, e vedovale spose
Rbponderanno, equanltal pianto invoglia
La congiunta pietade. Onor del prode
£ il pubblico compianto , e si fa meno
Il dolor ne le afflitte alme diviso.
G. Nieolinij La Colliv. de'cedriy 1. I(«
32. Anacreontiche*
platano felice.
Ch'io stesso un dì piantai,
Bello fra quanti mai
Levano il capo al ciel;
Come sì presto, dimmi,
Le folte braccia hai stese,
Né l'ira mai ti offese
Di turbine crudel ?
Quel nome che t*i repressi
Isella corteccia verde
Lungi da te disperde
11 nembo struggitor.
Anch'io lo porto in seno
Scritto per man d'Amore,
Ma sento nel mio core
Fremere il nembo ognor.
Ascolta, infida, un sogno
Della trascorsa notte:
Parevami le grotte
D'Alfesibeo mirar;
D'Alfesibeo, che, quando
Alza la verga bruna,
Fa pallida la luna,
Fa tempestoso il mar.
Padre (io gridai), nel fianco
Ho una puntura acerba;
Con qualche magica erba
Sanami per pietà.
Rise il buon vecchio, € disse:
Fuggi colei che adori.
£rbe per te migliori
Alfesibeo non ha.
Guarda che bianca luna !
Guarda che notte azzurrai
Un^aura non susurra,
Non tremola uno stel.
L'usiguolctto solo
Va dalla siepe all'orno,
£, sospirando intorno,
Chiama la sua fedel.
Ella, che il sente appena,
Già vieti di fronda in fronda
E par che gli risponda:
Non piangere, son qui.
Che dolci affetti, o Irene,
Che gemiti son questi?
Ah ! mai tu non sapesti
Kispondermi così.
Non t'accostare all'urna
Che il cener mio rinserra:
Questa pietosa terra
E sacra al mio dolor.
Odio gli affanni tuoi,
Ricuso i tuoi giarinti:
Che giovano agli estinti
Due lagrime o due fior ?
Empia ! dovevi allora
Porgermi un fìl d'aita
Quando traea la vita
Nell'ansia e nel sospir.
A che d'inutil pianto
Assordi la foresta?
Rispetta un'ombra mesta
£ lasciala dormir.
Jacopo Vittorellì, Rim^,
33 Le comparazioni.
Ma, musici, son cose da fratelli
Il volerci veder quasi distrutti?
Lo so che vo' sapete d' esser belli.
Ma gli hanno da campare ancora i bratti.
No' ci siamo nel mondo ancora noi,
Esiam fatti di carne come voi.
Ah pur troppo è così, sorte tiranni!
Pei poveri poeti oggi è spiovuto,
E pei musici sol casca la manna ;
Voi stimanperle, enoi quanto ano spato;
Voi vivete da veri gaudenti,
E noi tenghiamo l' anima co' denti.
Io mi sbattezzerei, corpo de'frati,
Perchè color che hanno una bella Toce
504 CRESTOMAZIA POETICA
A tatti i desinar sono invitati ; Le dita vergognoso si rimpiatta.
Ed il poeta fa segni di croce, L'un-^hie per non mostrar della granbestia,
£ al sole in su e in giù h cento ^iri , £ sol le mette fuor auando si gratta :
Allunga il colio e campa di sospiri. Del valore d* un soldo non fa acquisto,
Sente un molle cantori' ambra e le rose, Ne gli darebber da baciare un Cristo:
£ d' unguenti odorosi ha sparso il crine, Con quel bel pelliccion e il manicotto
Dugeulo inverni sfidano i cantanti:
Ha sempre in bocca e principi e rei ne, £ con quel paslran uccio mezzo rotto.
Sempre aspetta una- lettera che porte Sgambettano i poeti tremolanti;
L' invito d'andar tosto a una gran corte. E svoltano ed indietro tornan spesso,
Sulle galanterie non sta il poeta , Che hanno veduto i creditori o il messo.
£ fortunr.ttc a lui non gnene tocca , Un cantor con la paga e il benehcio
Perchè non ci vuol versi, ma moneta. Ingrassa come un ortolano in stia ,
Prenci non ha, ma un rosicchiolo in bocca, £ se la gode e sta in barba di micio;
£ aspetta un precettino in certi metri, Una mummia il poeta par che sia
pagar la soffitta, « in domo Petri ^ £ un di quei stentarelli secchi secchi,
Un cantantecoi grandi entra in vettura Non si sa come stia su que* due stecchi.
£ coi magnati a tavola si pone Ha un viso lungo lungo, rifinito,
E per dei mesi sta in vii legislatura; Che pare uscito fuor dello spedale;
£ ver che ci è un pochìn d'indiscrezione, Ha una barbuccia che pare un romito,
Che il fan tanto cantar eh* egli si sgola; Un cudin come quello del maiale: [glio
Ma quella bella tavola consola. Un cappello che sembra un spicchiu d'a-
li vale perle vie mesto cammina, E che ripara T acqua come un vaglio.
Ed in faccia a palazzo d' un signore Ha un vecchio vestitoccio di stamina
Sta il fumo ad odorar delia cucina; Con le maniche tutte rattoppate,
E sopra un pasticcier proprio ci muore; Regge le tasche con una forcina ,
Ed un dcsinarin quando gli danno, £ son dentro di pelle foderate;
A cantar durerebbe per un anno. E quando è a qualche buon desinarctto,
A un trillo sta tutta la gente cheta, Vi fa sgusciare un* ala di galletto.
A bocca aperta ed inarcate ciglia; Ha uu par di calzonucci corti corti,
E quando canta un povero poeta Che un spauracchio si potrebbe farne;
Chi chiacchiera, chi dorme, chi sbadiglia: Invece di botton, due spilli torti
Un violìnacrio gli fa ziro ziro, C le sempre gli punzecchiano la carne,
E poi per lui va col cappello in giro. E quandogli si attaccano alla pelle,
il musico gentil molle adagiato 11 povero signor vede le stelle.
Sta in sale ricche di cristalli e d'oro: Nere ha le calze, tutte bucherelli.
Da un lato un clavicembalo accordato. Ma l'ingegno vien subito al riparo;
Se le incinfrigna con due punteretli.
Sul caminetto in vago ordine uniti E inzuppa un bel ditln nel calamito:
£ bigliettini, e visite ed inviti. Ogni dì là le scarpe al ciabatìiuo,
Sta il vate scamicialo e nudo il collo Ma le dita fan sempre capolino.
A ima tavola che ha tre piedi soli, Pananti, Il poeta di teatro.
Per somigliare al tripode d^Apollo;
So pezzacci di carta i versirciuoli 34. £pigramtni'.
Volano per la stanza e per la villa ,
Come le profezie della sibilla. Nel d'i della battaglia,
D'oro ha un cantante la persona carca Togliendosi d& dosso
E vaghi annelli in tutte le sue dita, 11 cimiero e la maglia ,
E per fargli veder la mano inarca ; Un Guascone fuggiva a più non posso.
ÌA guardaroba è d'ogni ben fornita; Alcun gli disse: Sì vilmente cedi ?
Ed a monti ha le scatole e i cammei E dov'è il tao coraggio ? Ed ei; Me'piedi.
Che donati gli fur da* semidei.
Il vate pien di tema e di modestia Lesse Tirsi a Dorilla aa suo sonetto.
' Cioè: in prigione, Lesse ella; Oh bello ! cosa avete d^tto?
SECOLO DECI MOVONO
205
Sosteneva un dottore
Zht ha fatto tutto bene il Creatore.
Jn gobbo ad esso -■ Guardami le rene*
£ quei: Per gobbo tu se' fatto bene.
Fece compra un villan d'un barbagian-
Dicendo: Un dotto assicurato m'ha [ni
[]he tali bestie vivono mille anni.
Voglio veder se l'è la verità.
FU. Pananti.
35. Il zefiro f Vape e la rosa.
Un dolce zefiro
Con r ali d'oro
Scorrea sa florido
Colto terren,
Uve odorifero
Spandea tesoro
Rosa piirpur^fa
Dal molle Vn.
Egli eoa avido
Fiato e dimesso
Del fiore amabile
Bapia l'odor;
VA aggirandosi
Nel loco istesso,
Volgeavi l'alilo
Non sazio ancor.
Quando pur giunsevi
Ape dorala,
Che in seno al tenero
Fiur si posò,
K dal suo calice
La delicata
Ambrosia a suggerc
Incominciò.
AUor d'invidia
Uxefiretto
L'acuto stimolo
Nel cuor sentì,
Forte sdegnandosi
Che un vile insetto
Del ben partecipe
Fosse così .
Onde su fragile
Stelo le penne
Baltea, credendosi
L'ape fugar:
Ma r »pe immobile
Sempre si tenne,
Né l'urto placido
Parca curar.
Alfin con impelo
Mosso dall'ira
La troppo amabile
Rosa a^itò,
E parve borea
Che il turbo spira,
Poiché le gelide
Nubi adunò.
Dall'urto fervido
Sc:tccia la allora
Vide fuggirsene
Quell'ape, e ver;
Ma, il fiore infrantone,
Distrutta ancora
Vide l'origine
Del suo piacer.
O folle invidia,
Talor tu vuoi
L'altrui distruggere
elicita;
Ma spesso adopriti
Ai danni tuoi,
E il mal che fabbrichi
Tuo mal si fa.
L. Clasiot
36. // lupo e la volpe.
Nel più tacito e cupo
Orror d'oscura notte
Una volpe ed un lupo
Sbucaron fuor delle natie lor grolle:
E prendendo il cammino
Verso lo s lesso rustico abituro,
S'incontrarou per via molto vicino
Al destinalo loco,
Ove credean trovar pasto sic aro.
Pria sbirciaronsi un poco,
Poi disse il lupo: E, dove vai, comare?
Io, la volpe ri^pose,
In un poliajo a questo bosco appresso,
Signor, vado a rubare.
— Son le solite cose,
Il lupo replicò; pur ti confesso
Che SI fatto pensicr non disapprovo.
Anzi ancor io nel caso tuo mi trovo,
E men vado all'ovile a far lo stesso.
Vuo' tu che in quel che restaci di via
Ci farciam compagnia?
— Oh! volentieri, tosto
Disse l'asluia volpe; onor mi fate
Quando sì vi degnate
Prendermi per compagna: il destro posto
Prendete eandiam di coppia. Il lupo avea
D'uni folle albagia colma la testai
£08 CRESTOMAZIA rOETICA
Dinanzi fa viltà del lor pKcato, Ai remigi sfgnitc e ai n.i1atori
Canzoni e tresche e un battere di palme Venian le prode trionfanti, e lene
Fremearonrorde ed un chiamai si incolpa, Fiato d*anra seconda empiea te vele
Un chieder grazia, un mormorio di- Sul tremulo increspar della marina.
[verso S* udia di cennamelle, di chitarre
Di giubilo, d* affanno; avviluppato Xunghesso i monti un numeroso accordo
Per cento guise il rondottier l'ampli'sso, Pien d'allegrezza, e un intonar festivo
A cui lieto rivolge, a cui sorride Di natali canzoni:.... Olà cessate
() parla affabilmente, e degli oltraggi 1 dolci suoni, ammainate, al fondo
Vuol che intero perdon sia la vendetta. Lanciate le pesanti ancore: oh viva
signor degli ardui giri, o tu l'heimbian- Il soccorso dt Dio! viva Ualiella,
[chi Viva re Ferdinando ! è questo il porlo
L* una faccia alla terra e Taltra avvolta E il termine segnato ai nostri errori,
lasci nel manto di colei che fugge E sì dicendo frettoloso e primo ,
Quando movi a rincontro, e vien seguace 0>Iombo discendea, levate in asta
Quando lungi ne vai scherzosa amica, le regali bandiere; e gli si versa
Esci dairorìente e la gioconda Gran folla attorno; il barbaro terreno
Vista deir avverato orbe palesa. Brulica , suona e polverio solleva
Non impronto vapore e non maligna Sotto l' orme de* suoi che dissipati
Nube ti copra invidiando i rai. Di su, di giù per la campagna in fretta
Ma libero lampeggia e ornato a festa Vengono e van letiziando: un torvo
Qual dopo la primiera alba del mondo : Pensier non guasta (|uelle gioje, un atto.
Cosi 1' Eroe pregava e d* oriente, Una voce sinistra : il ben presente
Suo talamo sereno , uscia lo sposo Fuga ogni affanno , e se partia lo sdegna
Della vergiu natura. In pien cilestro Gii animi infesti, la cangiata sorte
Azzurreggiava ancor l'ultima schiena Cangia pur essi e li ritorna amici.
Delle montagne, e nebulose falde L. Costa, Crìsioforo Colombo, lib. Ili
Agili al vento le mute con valli
Circolavano e i boschi ; e già suU* erte 38. Le maremme toscane.
Cime ihe il rubicondo astro colora
Parca che fosse nevigato un nembo Tra le foci del Tevere e dell'Arno,
D'amaranti e di rose. 11 dolce olezzo Al mezzodì, giace un paese guasto;
De* balsami e de' fior salia disperso Gli antichi Etruschi un dì lo coltivarno ,
Per l'acr vaporato, e allegri augelli E tenne imperio glorioso e vasto:
Pavoneggiando le dipinte piume Oggi di Chiusi e Populonia indarno
Cantavano lor note al dì che nasce. Ricercheresti le ricchezze e il fasto,
lueflabil veduta! Eran gli Ispani E dal mar , sovra cui curvo si stende
Quasi fuor di se stessi, e dallo scuro Questo suol, di Maremma il nome prende.
Centro d' inferno si credean traslati Da un lato i lontanissimi Appennini
Ne' celesti giardini. Oh! come intento Veggionsi quasi immensi anfiteatri,
Alle prossime piagge ognun riguarda £ dall'altro tra i nuvoli turchini
E i profumi ne spira, e in quell'ambiente Di san Giulian le cime e di Velatri,
Violato s'inebbria e par che voli! E dalla parte dei flutti marini,
Con quanta impazienza altri di botto Sempre di nebbia incoronati ed atri,
Giù dalle navi si periglia o solca Sembrano uscir dall'umido elemento
li pelago natando, altri si caccia I due monti del Giglio e dell'Argento.
Ne' palischermi, e dietro lui confusa^ Sentier non segna quelle lande incolte,
Mente la piena de' compagni è volta ! E Io sguardo nei lor spazi! si perde:
Allor vedesi 1' urto e lo sbaraglio Genti nonhanno,e sol mugfffaian per molte
Di chi sottentra e spinge e di chi tonfa Mandre quando la terra si rinverde:
Per subito riverso, e l'arrancato Aspre macchie vi son, foreste folte
Guizzo de^ remi e io spingar veloce ^ Per gli anni altere e per l'eterud verde,
E il menar delle braccia onde spumeggia E l'alto muro delle antiche piante
Di coatiauo bollar l'argenteo guado. Di spavento comprende il viandante.
SECOLO DECIMONONO
209
Dalla loro esce il lupo ombra malvagia Fuggan la valle di lor vita iagorda,
Spiando occolto ove Tarmento pasca, K nelle fratte appiattansi gli a ugelli
Il selvatico toro vi si adagia, Cioguettando con voce incerta e sorda;
E col rumore del mare in burrasca Sol 1» cicala in vetta agli arboscelli
L*irto cinghiale dagli occhi di bragia Collo stridulo metro i campi assorda.
Lasciando il brago fa stormir la frasca, Né contro al sole di garrir si stanca
E se la scure mai tronca gii sterpi.
Suona la selva al sibilar dei serpi.
Acqua stagnante in paludosi fossi.
Erba nocente che ^cura cresce,
Compressa fan la pigra aria di grossi
"Vapor, d*onde virtù venefica esce,
E qualor più dal sol vengon percossi,
Tra gli animati rio morbo si mesce,
11 cacciator fuggendo da lontano
Finché V adamantin grido le manca.
Non più scorron sonando i rivi alpestri
Nei fonti fuor delle petrose conche,
Né moto ha fronda nei gioghi silvestri,
Né i venti osano uscir di lor spelonche .-
Sol misto al leppo dei fuochi campestri
Che ardon le paglie dalle falci tronche,
Dalle roventi sabbie di Marocco,
Qual vampo di vulcan soffia Scirocco.
Monte contempla il periglioso piano. Né più la notte del suo gel con vive
Ma il montagnolo agricoltor, s* invola Perle cadenti i
Da poi che ha tronca la matura spica;
Kitorna ai colli e con la famiglinola
Spera il frutto goder di sua fatica:
Ma gonfio e smorto, dall* asciutta gola
Mentre esala l'accolta aria nemica,
Muore, e piange la moglie sbigottita
Sul pan che prezzo é di sì cara vita.
Io stesso fidi in quella parte un lago
Impaludar di chiusa valle in fondo.
Del dì poche ore il sol vede, e Timago
Di lui mai non riflette il flutto immondo. Ma col continuo aspro concento rompe
E non s'increspa mai, né si fa vago II silenzio dell'aride campagne
Allo spirar d' un venticel giocondo. Trillar di grilli, gracidar di rane,
£ ancor quando sui colli il vento romba Ed ululato di ramingo cane.
Morte stan ToijKie come in una tomba. Quel giovin toro che i lunati comi
Se4tini, La Vìa, e. /. Baldanzoso ostentò re dell'armento,
£ aguzzandoli ai cortice degli orni,
campi arsi rintegra.
Né al dolce nembo delle brine estive.
Si rinfraoca l'erbetta e si rallegra:
E se dall'abbronzate infette rive
Di vapori erge il sol nuvola negra.
Nella notte invbibile ricade
Le morti a seminar, non le rugiade.
Il notturno squallor non interrompe
Zampogna, o canto che d* amor si lagoe ,
Del faggio sotto le appassite pompe
Non più r usignolin soave piagne:
39. V arsura nelle maremme
e la Pia,
Era nella stagion che il sole accende
Del celeste Leon le giube bionde,
E mostra il mondo che la faccia fende
(.e viscere di pioggia sitibonde,
E sul gambo ogni fior languido pende.
Aride pendon le ingiallite fronde,
E a stelle crudelissime in governo
Muggì sfidando alla battaglia il vento,
Fugge all'ombra ilfervor deicaldi giorni,
Né più l' erba ricerca o il rio d'argento,
£ giace e inchina il capo, e contro ai rari
Aliti di ponente apre le nari.
Il viator suli' uscio dell* ospizio
Esce col sole, e, l'orizzonte visto
Listato a strisce fiammeggianti , indizio
Di giorno del passato anco più tristo,
Non ha cor di fidarsi a certo esizio
Parean quelle Maremme un.nuovo inferno. Nel cammin d'acque e d' alberi sprovvista.
Signoreggiò tal anno.nelle calde
Maremme nostre inusitata arsura ,
Ignee colonne fino a terra salde
Parean piover dai sole alla pianura:
Cadea il sol cinto d' infiammate falde
Predicendo pcggior l'alba futura,
Misera Pia ! l' istesso cielo infausto
Parve voler tua vita in olocausto .
Taccion l'opre de'rampi; i villanelli
Leopardi, Crestomazia, II.
E n^ll' albergo, ove restar gli spiace.
Languente e a sé gravoso pondo giace.
Fra i muri dei castel fatti di fuoco
Geme 1* abbandonata prigioniera.
Né conforto trovar, né trovar loco
Può da sera al matlin, da mane a sera;
L' intenso ardor le vieta il sonno , e poco
E il refrigerio che dal sonno spera.
Che qualche sogno torbido la sveglia,
210
CRESTOMAZIA POETICA
K la ricacfU in odiosa Teglia.
£ più sembra clieiu lei Tardor s^accresca,
£ il nal dell' es&rr sola io tai disagi,
Qaaodo le torna a mente l'onda fresca
Di FonTtebranda e di sua patria gli agi,
£ i colli che odorosa aura rinfresraf
£ le mense e le ancelle e i bei palagi
Ore dolce menò ? ita serena
In temperato dina e in terra amena.
Del maritale albergo avea trovata
Una fanle YecGhissima e devota.
Che, degli ari di Nello al tempo nata.
Di quei storia narrava a molti ignota,
£ più d' una lor colpa consumata
In quel -palagio nell'età rimota,
£ rhe però di quelle sedi impure
Tolto possesso avean spettri e paure.
£d aggiungea che v'erano i folletti »
£ vi solean le brutte streghe andarne,
£ succhiar dei rapili pargoletti
11 fresco sangue, ed il cervel stillarne.
£ con osceni riti i lor banchetti
Gavasuodo imbandir d'umana carne,
£d apprestarvi ì filtri e le malie
Sotto le forme di rapaci arpie.
Or soletta la Pia nelle riposte
Sedi in mente voigea racconti tali;
£ comeohè, per mantener nascoste
Le stanze al sole e a'caldi venti australi,
Dei balconi tenea chiuse le imposte,
Cadea d'un mal fnggendo in altri mali,
Dando largo alimento al suo timore
Il bujo dei fantasmi genitore. ,
£ slesa stando sull'ingrato Ietto
Nasconde sotto i lin gli occhi soavi;
£ il solitario passero sul tetto
Se ascolta, o.i tarii nelle vecchie travi,
Parie veder con minaccioso aspetto
Per la stanza trescar di Nello gli avi;
Si rannicchia la trepida, e dimanda
Piangendo ajulo e a Dio si raccomanda.
Così Vestale neli' avello occulto
Sotto le glebe d' infamato campo,
Impaurita dal iìsillace culto.
Che a vivere e ad amar l' era d'inciampo.
Del fioco lume.seco lei sepolto
Al moribondo scintillante lampo
Tremava, e le parea d'aver presenti
Le furie con le faci e coi serpenti.
Nelle notti spiacevoli e no Jose,
i^er l'aspra angoscia e per l'estivo ardore,
A ila fenestra traea l'affannose
Membra, onde respirar l'aura di fuore,
£ mirara U iuoa^ che le cuu
Di modesto tingea dolce colore,
£ specchiando al pantan le sceme guance,
Fea l'onde negre, scintillanti e ranre. —
£d oh ! luna, dicea, consolatrice
Della miseria altrui, tu confidente,
£ compagna dell'esule infelice
Dal cielo abbandonato e dalla gente.
Deh! non calar si tosto alla pendice.
Non affrettarti verso l'occidente,
Non far che l'etra povero rimanga,
£ del tuo lume anco il difetto io pianga.
£ il chiaror blando, che tempra il desio
Del cor gentile e di dolcezza inonda.
Liberale a me volgi e in questo mio
Nappo di duol stilla vitale infonda,
£ il Teggenle tuo faggio assbta pio
Al termin di mia vita moribonda j -
£ m'accompagni ove all'avello io scenda
£ al viator su quello indice splenda.
£ se dal tempo, come avvieu talora.
Scoperto il ver sarà, l' onor redento,
Verrà il mio sposo in questa terra, allora
Scorgilo ove il mio fral riposi spento:
£i ben vorrà compagna avermi ancura,
SAlisfarmi vorrà col pentimento,
iMa una pietra ofirirassi ai di lui sguardi,
£ dovrà pianger perchè venne tardi. —
Per lenta febbre intanto attrita ed egra
Tributava la vita al sozzo clima, [legra
Com' uom dai mali oppresso, e che si al-
Per morte e di campar non fa più stima,
£d era scorsa omai l' estate integra,
E d'autunno apparia la nube prima.
Che in improvvisa pioggia si risolve,
L'odor destando della spenta polve.
Sorto un dì ^ ch'ella già sentia man-
£ la salma restar di vita scema, [carsi,
Vedendo dietro ai monti il sol calarsi
Volle seguirlo con la vista estrema.
Ai campi e a'colli ancor di luce sparsi,
Che ogn'uom lasciando desioso trema,
Un sospiro e un addio per dar pur anco.
Al balcon trascinò l' infermo fianco.
Sestini, La Pia, e. /•
éO.J.* eremita.
£ alla velata vista le si offerse
Un pòvero eremita in riva al fosso,
Che rieàea dalla questua con divèrse
Vettovaglie nel zaino e un sacco indosso;
Bianca a vea barba, e ciglia alsuolcouterK;
£ dalla nuca ogni -capri rimosso. I
£ »u scabro biston curvo per via J
SECOLO DECIMONOIVO 2 \ 1
Orava mormorando, Ave Maria. Pregherò Dio che mai non ti abbandoni. —
Al chino tergo, all'abito, al ranuto Sì disse, e nel compir 1' estreme. note
Mento, ella riconobbe il solitario , Con le palme asciugò V umide gote.
E ricordossi che V avea veduto Tal se dal sommo d* altissimo masso
Fuor della c«Ha innanzi al santuario La sima agnella, che vi è incauta ascesa,
Starsi a chiedere a Dio graiia ed ajuto Nel lato ov'è il burrou sdrucciola al basso ,
Contro il nostro ingannevole avversario, E fra la terra e il ciel riman sospesa,
Sopra un colle di là poco lontano Sul caprifico, o sul sporgente sasso
Alquanto fuor di strada a destra mano. Bela, ne può salir, né far discesa ;
E dair alto il chiamò con fievol voce L*ode il pastor dall' imo, ed a. mirarla
Dicendo, — Miserere, o padre santo , Stassi e si duol di non poter salvarla.
Per Io tuo Dio che morir volle in croce , Alzate l' eremita avea le ciglia
A por mente al mio mal t'arresta alquanto: Quand' eli» pria la voce alzò chiamaodu ,
Caitiva in questo domicilio atroce E pien d' inaspettata meraviglia
Tiemmi il crudo consorte,emuojo intanto, A manca mania già raffigi^ando.
E qui non ho chi l' ultime rispetti Benché non fosse più fresca e vermiglia,
Volontà sacre, e i miei ricordi accetti. Un non so che di dolce e venerando
A te dunque ricorro, e se vedrai In lei scolpito avea la doglia, sema
A sorte un dì passar dalla tua cella Involarne T antica conoscenza.
L'nom con cui, son due mesi, ivi passai. Scadute ahi ! troppo le sembianze rare
Della vittima sua dagli novella ; ^ Dall' esser primo, comparia^ qua! »uole
Digli qual mi vedesti, e di' che i rai L'astro che opaco nel parelio appare ,
Chiusi sposa innocente e fida ancella , Pur mostra ancor l' imagine del sole :
Che gli perdona i maleficti sui : O stella che scolorasi sul mare
£ imploro anche da Dio perdono a lui. Se l' alba sparge i gigli e le viole,
£ per dargli contezza che morendo Quando sembra restar vedovo il polo.
Gli resi per mal far grata mercede , E ne piange nel bosco il rusignuolo. [se
Dagli, e l' anel dall' anular traendo , ^ Raccolse il vecchio la gemma, e promes-
Dagli, seguia, l' anel eh' ei già mi diede, A lei di-far quanto pregò il suo- dire,
E di', che come questo integro rendo , Aggiungendo che in Dio fidanza avesse,
Tale a lui rendo intatta la mia fede ; — Qual non fa eterno dei buoni il martire.
Disse , e del crin reciso ad una ciocca E ancor seguia, ma 1* egra più non resse,
Aggruppato il gittò fuor della rocca. ^ E venir meo sentendosi e morire ,
Èsoggiungea: — questa troncata treccia Vacillante ritrassesi: ed immoto
Pur prendi, e se pastore, o peregrino , Ei restò contemplando il balcon vuoto.
O qualche messaggera villereccia, ^ E veggendo che già siili' universo
Che vèr Siena rivolga il suo cammino, Stendea la Qotte i maestosi vanni,
Passa dalla tua casa boschereccia. Fé' ritorno al tugurio, al caso avverso
Alla madre che ignora il mio destino Di lei pensando e ai non merlati afianiii.
Inviala , e 1' abbia del mio corpo invece , L'altro di sorse, ed egli a Dio converso
Sul qual spargere il pianto a lei non lece. PregoUo a ristorar del giusto i danni,
£ sappia che morendo, al cielo io ginro Dandogli lume onde prestare aita
Che al mio sposo giammai fede non ruppi, A lei pria che dovesse uscir di vita.
E le caste virtudi che mi furo Sorgea su bel declivo in {Maggia molle
Ispirate da lei mai non corrupppi ; Edificato l'abituro agreste,
Onde \§i mia memoria dall' imputo ^ Eran di pietra i muri, erbose zolle
Laccio in che giace avvolta disviluppi, Coprlano il tetto e tavole conteste,
£ il carnefice mio sia fatto accorto Di retro ad esso rivestiano il colle
D'aver dannata un' innocente a tarto. Intricate e densissime foreste,
E, ond' io mepcè nell'altra vita ottenga, £ il bianco ostello su quel fondo nero
Priega tu Dio che i fìiUi miei perdoni ; Chiaro apparia da lunge al passag{;iero.
Di me che son la Pia ti risovvenga Un picciol orticello era alla destra
Nelle quotidiane orazioni ; Distinto in bei riquadri a più filari,
E quando fia che accolta io cielo io venga, £ in quello difcndca siepe sllvesicx
212 CRESTOMAZIA POETICA
1 frutti più alla vita necessari: Biograziò il frale la pietà celeste
Qui l'eremita avea da tonte alpestra Come d'appresso in lui lo sguardo intese,
Derivali gli umor nutrenti e chiari, Che al torvo sguardo, al viso ed alla veste
K dell'ore del dì, fatto bifolco, Quei della Pia lo sposo esser comprese;
Quel che alPaltar togliea donava al solco. Gli si fé* innanzi, e d'accoglienze oneste.
Era a sinistra un prato, e piante folte Fattolo distnontar, gli fu cortese.
Gli fean ombrella e circolar serrarne. il suo ronzin prima al coperto addusse;
t/avea piantate ei stesso, e venti volte Poi nel rustico albergo lo introdusse;
Le avea vedute rinnovar le rame. E mentre piùsifea la pioggia intensa,
Era in mezzo un altare, e di sepolte E nero e spaventoso il ciel notturno,
<>eature l'ornava il nudo ossame, L*ospite siede, e per la doglia immensa
Kravi sopra un cranio, ed incrociati China sul petto il volto taciturno:
Eran femori e stinrhi in tutti i iati. E il vecchio diessi ad apprestar la mensa
Qui il fraticel, di quel che fare in forse, Coi cibi, frutto del lavor diarno,
Bimase salmeggiando infìno a sera, K della cella nel più atto loco
Quando nel piano un ca vallerò scorse Di preparate legna accese un fuoco.
Che galoppando in riva alla riviera, Arde il giovine crin d'arbori cionchi,
Dirittamente a quella volta corse E in sospeso le vette urla la vampa,
Cercando asilo incontro alla bufera, E aperta sotto a quel coi corni adouchi
Che parca minacciar piogge dirotte L'abbraccia mormorando, e in su divam-
Già cominciando ad oscurar la notte, Stridon fra ilari i crepitanti tronchi, [pa:
in quel tempo i villan spesso vediéno £ abbagliante splendor la cella stampa
Quest'uom d'aspetto torbido e diverso , E fa scoprir sulle pareti umili,
Dall'arcione al cavai lentando il freno Croci, figure e rustici utensili.
Della boscaglia correre a traverso. Poi che il cotto legume e il cereale
Anelante il cavallo ha il tergo e il seno Pasto venne sul desco e d'acqua il vase,
Di larghe strisce di sudore asperso. Ognun le man vi stese; e il naturale
E sempre che lo spron sente alla pancia D'esca e bevanda amor i>pento rimase.
Come locusta celere si slancia.* Disse il vecchio: —Ancor notte alta non
Mena le zampe impetuose inuant [sale,
£ divorar le vie sembra nel corso; Ne il sonno ancor le nostre membra invase:
Scherzan sulla cervice i crin volanti, Onde narrar ti vo', se alla memoria
£ balzan flagellando il largo dorso; Ben mi ritorna, una leggiadra istoria.
Fumo esalan le nari e le tremanti Su quella via che mena al mar dov'oggi
Fibre, e di calde spume inondai! morso; Passasi qui venendo in piaggia aprica,
S'alza la polve e in densa nube il serra, Che giace all'ombra di due verdi poggi»
E sotto al calpestio trema la terra. Son le reliquie d'una torre antica;
Giunto -.-..-.
Scopri
Frenava
Detti gliuscian da' labri, asciutti e bian- Alloggiamento fu d'un uom selvaggio.
[chi, Vivea di «accia, e sol prendea diletto,
K tra i fremiti orrendi e tra i singhiozzi Mansuefatta l'anima proterva,
Gli occhi aggrottati ; e già da pianger ^el posseder doppio tesoro eletto.
Truci rotava, e sull'ostello tetro [stanchi Un cristallino fonte ed una certa:
Teneagli fitti, e rifuggiasi a retro. Vinceiil primo in beltà qual mai più
E giù correa precipitoso al chino [schietto
in balia del dcstrier tra gorghi e massi; Fonie in porfidi scalti si conserva,
Davano l'erbe a lui vitto ferino. Ne forse fu sì bella la fontana
£ tetto erangli i rami e letto i sassi: Che finsero gli Achei sacra a Diana.
Lo additava tremante il pellegrino . Dall'ampia vòlta d'incavata roccia
Vèr l'abitato accelerando i passi, Scabra di spume, e gruppi cristallini
J-, fu creduto in tal secol ferrigno Cadca l'onda sonante a goccia a goccia
Di quei boschi lo spirilo maligno. Wei nativi ricetti alabastrini,
SECOLO DKCmONONO 2i3
E racrolU in profonda erbosa doccia Dà mano a un* asta , e va senza ritegno
botto Inombra dei platani e dei pini, Sopra la imbelle lon ferocia estrema:
Tacita e bruna susurrando giva Elia non fugge ed ali* amico indegno
A nutrir l'erbe e ad infocar la riva. Volge supplici sguardi e geme e trema :
N*era geloso e non soffria che armenti L* atterra , ed ella le sanguigne, gambe
Vi appressasser le labbia, o viatori; Dell* ingrato uccisor morendo lambc.
Kd or godea coi derivati argenti Al fonte che credea di velcn carco
Del'giardino innaffiar gli arbusti e ifìofi, Sterpò col ferro le selvose scene ,
Or della calda estate ai di cocenti L'antro percosse e minar fé' i* arco ,
Ristorarsi , bevendo i freschi umori , £ fur sepolte le sorgenti amene ,
Or , dalla caccia reduce , 1* immonda Che trovando k\V uscir niegato il varcu
Sudata polve deponea ntW onda. Tornar neglette alle nascoste vene :
Domestica cotanto era la belva Cosi il bel rivo violato giacqae ,
Che dalia man di lui prendea pastura E fuor più mai non trapelar quell* acque.
£ dove ogni altra timida s* inselva , Poiché solo trovossi , e irrigar 1* arse
Seco ella stava ad abitar secura , Semente al fonte più non fu concesso,
Scorrea nel dì per la vicina selva , Che mancar le ricolte , e ricovrarse
Tornando al chiuso quando il ciel s*osca-> Non potè nelP ombrifero recesso ,
£ godea, colia fronte alla e superba [ra. Aperto il suo gran danno gli comparse :
Di fiori adorna , carolar su 1* erba. Tardi s'avvide dell* error commesso,
Di corallo parean due rami grossi E sì gli venne in odio quel soggiorno
Non anco usciti dalla man dei mastro Ch*indi partissi e più non fé* ritorno.
Del vigilante capo i lucidi ossi ; E ben fu saggio a non tornar dappoi.
Ed- era bianco il pel come alabastro , Oh quanto affanno riserbato gli era
Tranne gli snelli piedi alquanto rossi Se udito avesse, come udimnio noi,
E il collo che cingea ceruleo nastro , Che a torto fé* morir l'innocua fera,
Ov*era scritto negli estremi fiocchi: E il fonte ruppe, e ancise gli arhor suoi!
Son sacro almiosigrior, nessun mi tocchi. Che il cacclator con libgua menzogner;i
Un dì che, staiicq, a togliersi l'usbergo Avea tessuta Tinganno esecrando.
D'aspro cuojo e depor 1* asta e la daga , Possesso sì gentil grinvidiando. —
Biedea con molte prede appese al tergo, Con questo di parabole apparecchio.
Vide la belva mansueta e vaga , Il frate tentò l'ospite e il compunse:
Accosciata anelar fuor dell* albergo A capo basso.ei gli avea dato orecchio.
Per sanguigna nel pie recente piaga , Ma quando deirislorìa al termin giunse,
E vide a un tempo intorbidato e brutto < Levò la faccia e guardò fiso il vecchio^
Per lorda tabe del bel rivo il flutto. Che, commosso scorgendolo, soggiunse:
Ed ecco un cacciaforchesovraggiungC; Questa gemma alla cerva ornava il collo.
Mentre il suo danno addolorato guarda, £ Tanel della Pia tol.<ie e mostrollo.
Un cacciator che albergo avea non lunge Nello il vide, il conobbe e si riscosse,
D' invida mente e d* anima bugiarda : R, Dove e quando, volea dir, l'avesti?
Gran serpe che se slunga e se raggiunge, £ come s*ei sognante egro si fosse
Che fischia e par che i fior con Falitoarda, Cui fantasma letal si manifesti.
Dice che visto avea sbucar dal bosco , Che a lui, qual per gridar fa tutte posse,
Turbar la fonte e vomitarvi il tosco. Par che strìnga la gola, e il fiato arresti,
E che veduto avea dalla montagna Rimase inerte , e la man che già stesa
Scender correndo sull* arsiccia sabbia Avea per torlo, gli restò sospesa.
Una bramosa attenuata cagna , Ma Taltro il tempocolse e a narrar prese
Fatta tremenda per morbosa rabbia. Come egli vide a mal termine giunta
£ fa cerva inseguir nella campagna, La relegata' donna, e fé* palese
Giungerla e in essa insanguinarle labbia, L'ambasceria che da lei fugli ingiunta.
Onde la belva per li morsi eh' ebbe , E che se pronto a riparar Toffese
Còito il contagio , in rabbia ita sarebbe. Non accorrea, la troveria 4erunta,
Crede l'incauto, e accendesi di sdegno, E aggiunse ch'ei presentimento avea
£ che la fiera in rabbia monti ha tema; Quasi di via ch*clU aocv t^%^ \^'^>
LM4 CRESTOMAZIA POETICA
Chi*, oltre all'esser villania e bassa Visse alle donne ed a i sartori ignoto.
Cosa rimprigionar bella consorte, I polverosi inonorati lari
Era empietà ch*ogni misura passa Dò tempo immemorabile rovesci
Sol per sospetti il darla a certa morte; Giacean sul freddo focolar. Conviva
Che se Dio l'innocente perir lassa. Quotidiano agli amici misurava
Gli dà compenso neircmpirea corte, Tanto di cibo al consapevol ventre
Ma il di lui sangue, che vendetta grida, Che al dì venturo illamentoso stesse.
Fa sempre ricader su l'omicida. Se il crudo verno nelle lunghe sere
Ond'ei temesse deirJìterno l'ira, Gli feriva le spalle e Pugne immonde,
Se airinnocente fea soffrir tal onta, Nella paterna variopinta avvolto
K quel verme che Tanimo martira Rattoppata zimarra, del vicino
Onde il commesso malefìcio sconta, Appoggiavasi al muro in cui sorgeva
Contai dir, qual se l'austro estivospira [ta, L'incessante camin d*unta cucina.
Laneve a scior che brumai vento ammon- ]!fon meno agli altri che a sé stesso parco,
11 ghiaccio che cingea quel petto infranse, A nullo dava e non aveva donde; *
K al fìnirdel scrmon l'ospite pianse. Che del maturo argento il pronto frutto
B, Sestini, La Pisi^ e. II. Ideile infallibili arche dei magnati
Mentre cresceva a lui securo e intatto t
41 . Sulle pie disposizioni Dal domestico scrigno sempre esausto
testamentarie. Al ladro in faccia e allVsattor ridea.
Così visse Macronio, e agli 'ottant*aaRÌ
Scrivi, notajo: poi cVè fisso in cielo Lasci6 le semisecolari vesti
Ch'ogn* uom che nasce abbia ad andar Da molta goccia asperse e i rosi lini
[ sotterra, Al vecchio servo; e al nosocomio erede
Ne Pera è nota del fatai tragitto, Due volte diece cento mila scrisse.
Me tuttor sano tesfator ricevi. Dimmi: dei due chi ti par più saggio?
Allor che l'alma dal solubil corpo Né Tun né Taltro, se diritto estimi.
Sarà disgiunta, abbiala Dio : il moto Oh! se di Stige la tarlata barca
Indolente cadavere a cui nega Reggesse al pondo dol raccolto indarno
Il novo rito un penitente sacco. Auro inseguace, inosservata imago
Fra cento lumi e i cantici lugubri Del postumo dator forse più rara
£ i negri ammanti e le mercate insegne, Penderebbe dai portici e dagli atrii
Se emergeranno dalla imposta calce, Alla languente umanità concessi.
Sia portato alla tomba. Ad ogni altare Chi non vorrebbe colla fida scorta
Si moUiplichin Tostie; il mesto canto Del non ignoto al Tartaro metallo
Ogn'anno si ripeta : al mio riposo Tentar di Piolo la placabil moglie
Un ministro si sacri e il marmo inscritto Della selva cumana ai doni avvezza ;
Sorga all'ara vicino e noti il nome O dividendo del frodato erario
Di chi'l sottrasse all'utile telonio Un'altra volta i conservati lucri
O alla marra pesante e fenne un prete. Render più miti Radamanto e Mìnos?
Cosi vassi a salute; e così voglio. Ma laggiù la giustizia non è merce
Me di lacci nimico il nuzial patto fna Né può cambiarsi col bandito nnmmo:
Non lega a sempre egual moglie importu- £ o sia di Creta il regnatore, oppure
Né a domestica prole. A Lidia scrivi Qual altro più ti fingi, v'è un severo
Quarantamila d'amicizia in pegno, Inesorabil giudice che libra
£ diecimila alla sorella Cloe: Su nuova lance i calcoli autorati
Del resto erede il nosocomio sia, Dal venduto pretor, e che rimesce
Onde perdono si conceda all'alma. I sepolti chirografi, ed il pianto
Così testava KIbion, cui l'ampie usure Interroga del debole calcato
£ i molti di pupilli assi ingojati £ del concusso popolo i susurri.
£ la pubblica fame avean condotto Non se l'onda lustrai tutta si versi
Dal nulla avito al milionario onore. Sulla tua tomba e all'indigente leghi
Macronio in vece aell a vuota casa Quanto il doppio emisfero e miete escava,
Più solitario che mlV Alto EgUlo Ès^v^Vi sarai: è inulil l» (^tia
SECOLO DFXIMONONO SI 5
Lorda deirallrai sangue, e \a rapina DMlacrimate ceneri custodi*
Invano alTare si rii^vra e al tempio. Voi ch'illustrale le memorie antiche
Tu doni, £lhion, poi che gli umani patti Pria che l'edace secolo le inghioUa,
A sé induigentì pronunùaron sacra Scrivete pur sulle marmoree fronti
Di natura e ragione oltre le leggi DeV.ulti (empii e ne' sonanti chiostri :
Deiruom la volontà nel punto istesso « Questi del popol saccheggiato in pace
In cui cessa il voler: Elhion, tu doni « E degli amici a tradimento oppressi
Ciò che ad Elbiou di posseder non danno « Trofei superbi il fondatore eresse. •
Né Bartaio né Giove, e allor cominci, Ma non così Macronio: egli non fu
Quando non sei, ad essere pietoso. Ne rapace ne ÌDKiusto; ai vezzi astuti
Ma a me che giova cui furasti iniquo E all*insaziabil lusso ed al mt^cello
Col trafugato codicillo il dritto Sottrasse ciò che al nosocomio diede.
Al leggittimo fondo o cui traesti Né v'era dunque a quell'età felice
Stanco ed esangue alle corrotte scranne, Una vedova mesta o una languente
Se dal cieco sepolcro appresti all' egro Desolata famiglia a cui partisse
La non dovuta medicina mentre 11 destinato alle future (ebbri?
Me spogliato con«lanoi a ingiusta fame ? Oh fortunati di Maeronio i giorni
Sia però paceaEibion né per me grave £ l'inaudito suol che lo produsse!
Su di lui pesi la sacrata terra ; Cosi il padre del ciel 1<» serbi illeso
Già che d'immensa inestricabii frode D.ii filosofi sempre e dalle guerre.
£ de' pubblici furti almen gli avanzi Nel nostro clima, è ver, s'alzan frequente-
Liberale concesse agli intestini Dai scossi cenci gli improvisi Alianti ,
Del morboso plebeo: il nero sofo Alle aspettate imagini de'quali
Dai senti^nziosi rubricati libri Se fuggiran dal pendere d'altronde.
Quest'utile dettò farraaca all'alma. Nuovi archi connettiamo e nuove logge
Ma il fàrmaco che vale all'uom sepolto ? In cui stanti e calzale al di solenne
Fa il tempo allor di trangugiarlo quando Da curioso contadin sien viste:
Fra Lidia astuta e la crescente Cloe Ma siccome tra noi ruota indefessa
S'alternavano l'ore e i compri baci: Fortuna, al crescer loro anche s'accresce
() quando al suon del popolar lamento De' meschini la calca, e a lor di sotto
Le Provincie svenate e i non pasciuti Gemer sentiamo non intese innanzi
Laceri battaglioni a Ini festoso Voci dolenti ed al pregare indotte.
Imbandivano i lenti ebrii conviti A questi aggiungi una recente turba
£ le lucide cene. Troppo bella Cui l'emula virtù de' tempi andari
Fora la colpa ed il pentirsi dolce I nostri migliorando a inopia addusse.
Se dopp un lungo ripo.«ar beato Poi che, grazia al destin che tutto volve ,
Sulle tranquille invendicate prede Noi lisci prima e inaonellati e rasi
11 pio voler raccomandato a Clolo La guancia e il mento ricopiammo iBrut i;
Potesse al fin del deliziosa stame £ le adocchiate da non regio amante
Spegnere colla vita anche il delitto Nostre Lucrezie ritornar le chiome
£ di pietoso procurar la fama. Ai prischi nodi e alle sincere trecce,
Ma non'è.nuovoal mondo il reo costume Molto in addietro laborioso e cerco
Che la pietà stuprata al latrocinio Pettine cadde dalla man costretta
£ aircrgoglio potente sia compagna. A mendicar, e molta gente afflitta
Spesso vedemmo 1' occidente stanco Vide alla mula ricondotta e al forno^
Dall' atroce pugnale e dal veleno \ La ripulsa dal crin candida Eleusi.
£ spesso fra i pugnali ancora immersi Molti altresì che dai servili uffizi
Ne' domestici seni, e i letti caldi All'uom indegni Libertà riscosse, •
Da non cessate infamie , innalzar chiese Se non ebber la destra al ferro pronta
A rimedio dell'alma, e fondar celle Ed al notturno assalto, la mostraro
Coli' oro estorto alle città soggette Aperta ad implorar l'altrui soccorso,
E a gli invadi vicini, ove abitasse E l' aprono tuttor. Fra tanto stuolo
Da lontan bosco il monaco chiamato Che ci preme d'intorno ed a cui resta
A salmeggiai* sugli effigiali avelli 11 dritto almen dteU'inUn&lbil vitav
I
'2\C, CRESTOMAZIA POFTICA I
A che segnar nel vorticoso «os Al misero mortai, nascere al pianto»
O nelPoTaje dell*etcrDa plebe £ di*!!* etereo lume assai più dolci
11 possibii mendico a noi non noto? Sortir i'npaca tomba e il fito estremo.
Tu mentre ammassi al nascituro erede Non la pietà, non la diritta iihpose
Onde sani la scabbia o il tristo autunno. Legge dei cielo. £ se di vostro antieo
A te virino e da sottil parete Error, che l'uman seme alla tiranna
Forse diviso inconsolato giace Tossa de' morbi e di sciagura offerse,
Fra i nudi figli ed alla patria nati. Grido antiro ragiona, altre più dire
. Dalla miseria e dalPangitscia muto, Colpe de* figli e pervicace ingegno
Un infelice genitore, oppure E demeoea maggior Toffeso Olimpo
Sospira indarno al talamo matura N* armaro incontra e la negletta riuao
Una indotata vergine pudica Dell* altrice natura; onde la Wva
Forse cresciuta a non oscuro Imene. Fiamma n* increbbe, e detestato il parto
Che se più Tegro a te pietate inspira Fu del grembo materno, e violento
E M represso vagir deirinnocente Emerse il disperato Èrebo in terra.
Frutto non sempre di furtivo amore, Tu primo il giorno e le purpnrre faci
Hai molto ond'esser pio: ormai non basta Delle n>tanti sfere t la novella
I/ospital tetto al condensato infermo Prole de* campi, o duce antico e padre
E alla nutrice deiPignoto parto; Dell' umana famiglia, e tu l' errante
Ne basterà fra poco il vallo intero Per li giovani prati aura contempli :
A contenere i pubblici grabati, Quando le rupi e le deserte vaili
Se rinclemente rid non volge altrove Precipite 1* alpina onda feria
Il funesto girar d'astri maligni. D* inudito fragor; quando gli amem
Dunque che tardi ed insen^bil siedi Futuri seggi di lodate genti
Suirarca chiusa e il numerato argento E di cittadi romorose ignota
Aspettando le esequie? o che maturi Pace regnava; e gì* inarati colli
Tu ascoitator di Lnca e di Matteo Solo e muto ascendea i* aprico raggio
Alle venture eia ciò ch'è dovuto Di Febo e l'aurea luna. On forlnaata.
Al presente bisogno? al giorno estremo Di colpe ignara e di lugubri eventi.
Tutto è preda di morte e non tuo dono. Erma terrena sede ! Oh quanto afiutno
Sii pur Macronio o di Macronio sii Al gener tuo, padre infelice, e qnair
Più parco e più digiuno alla tua mensa, D* amarissimi casi ordine immenio
Né il fuggitivo topo abbia che roda Preparano i destini! Ecco di sangue
Nell'aperta cucina, ne il giulivi» Gli avari colti e di fraterno scempio
Amico il vin de*co1li tuoi conosca Furor novello incesta, e le nefande
O dell' orto serrato il venal pomo: Ali di morte il divo etere itìipara.
Bìtrova mille ordigni ed arti mille Trepido, errante il fratricida, e l'ombre
Ali* onesto guadagno ed al risparmio; Solitarie fuggendo e la secreta
Pur che da la tua mano e non dal tardo Nelle profonde selve ira de* vènti.
Esecutore Tindigenle ottenga Primo i civili tetti, albergo e re^no
Ciò che operoso a lui raduni: allora Alle macere cure, innalta; e primo
Te sconosciuto ai portici ventosi 11 disperato pentimento i cieclii
Collocherem su gì* incensati altari. Mortali egro, anelante, aduna e stringe
G. Zanoia, Sermooì. Ne'consorti ricetti: onde negata
V improba mano al curvo aratro e vili
42./nno à'patHarchif o de*prineipii Fur gli agresti sudori; esio le soglie
del genere umano. Scellerate occupò; ne* corpi inerti
Domo il vigor natio, languide, ignave
E voi de* figli dolorosi il canto, Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Voi dell* umana prole incliti padri, Umane vite,vltimo danno, aceolse.
}x>dando appellerà ; molto ali eterno E tu dalPetra infesto e dal mngghiante
Degli astri agìtator più cari, e molto Su i nubiferi gioghi equoreo flotto
/i/ noi men lacrimahiìi nell* alma ScaTft\iv V *\ti\«\x»k ^«\s«., ^ v^ t.'w ^nmà
Ittce prodotti, Jnaicdicati a£FaDBÌ 1>*VV *m tv^ci ^ ^iJ t«.\i|<%.\Ri^
si: COLO DKCIMOXONO
217
Segno arrecò d* instaurata si>ene
La candita colomba, e deile antiche
Nubi r occiduo sol naufrago uscendo,
L* atro polo di vaga iri dipinse.
Biede alla terra, e il cr ado effetto e gli empi
Studi rinova e le seguaci ambasce
La riparata gente. Agi' ipaccessi
Kegni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e il pianto
A novi liti e nove stelle insegna.
Or te, padre de* pii, te giusto e forte,
£ di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò siccome
Sedente oscuro in sul meriggio alVombre
Del riposato albergo appo le molli
Rive dici gregge tuo nutrici e sedi,
Te de' ci'lesli peregrini occulte
Bear l* eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, ih su la sera.
Presso al rustico pozso e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranilica valle amor ti punse
Della vezzosa Labanide: invitto
-'\mor, cfa*a lunghi esIgUe lunghi affanni
£ di servaggio air odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu(né d*error vano e d'ombra
L' aonio canto e della fama il grido
Pasce 1* avida plebe ) amica un tempo
Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, e qpn le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili
£ guidasse per gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d' affanno
Visse V umana stirpe ; alle .scerete
I^gi del cielo e di natura indotto
Valse r ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco.
Nidi r intima rupe, onde ministra
L* irrigua valle, inopinato il giorno
Dell'atra morte incombe.Oh contra il no-
Scellerato ardimento inermi regni [stro
])ella saggia natura! I lidi e gli antri
£ le quiete selve Apre V invitto
Nostro faror; ie YÌohU genti
Al peregrino affanno; agi' ignorati
Desiri edùca; e la fugace ignuda
Felicità per l'imo sole incalza.
Giacomo Leopardi, Poesie.
' 43. AW Italia.
patria mia, vedo le mura egli archi
E le colonne e i simulacri e V erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo, [ chi
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran car-
1 nostri padri antichi. Or fatta inerme.
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! uh quatti veggio.
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
£ al mondo: ditr, dite,*
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio.
Che di catene ha carrhe ambe le braccia
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia .
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia.
Le genti a vincer nata
£ nella*fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive.
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive.
Che, rimembrando il tuo passato vanto.
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perchè, perchè? duv' è la forza antica.
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? qual arte oqual fatica
qual tanta possanza [ 'le?
Valse a spogliarti il maulo e 1* auree ben-
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loro?
Nessun pugna p-r te? non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi : io
(Combatterò, procomberò sol io. rsalo
Dammi, o ciel, che sU foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?odu suou d'armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli. [mi.
Attendi , Italia^ alVK.tA\.V^ -n^^^^tk^K^^^».'
218
CRESTOMAZIA POETICA
Cosie tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soiFri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
Lutala gioventude? numi, o numi !
Pug nan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
l^on per lì paftrii lidi e per la pia
Consorte e figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L' antiche età, che a morte,
Per la patria correan le genti a sqnadre;
£ voi sempre onorate e gloriose,
O tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di }K)ch* alme franche e generose !
Io credo che le piante e i sassi e V onda
E le montagne vostre al passeggiere
Cou indistinta voce
Itarrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
De* corpi eh' alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per V Ellesponto si fuggta,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoii ;
E sul colle d* Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo ,
Simonide salia ,
Guardando V etra e la marina e il suolo.
£ di lacrime sparso ambe le guance ,
£ il petto ansante, e vacillante il piede ,
Toglieasi in man la lira :
Beatissimi voi,
Ch' offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei eh' al sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo^ammira.
Neir armi e ne* perigli
Qual tanto amor le giovanetto menti,
Qiial nell' acerbo fato amor vi trasse ?
Comesi lieta, o figli,
L*ora estrema vi parve , onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro?
Parca eh* a danza e non a morte andasse
Ciascun de* vostri, o splendido convito :
Ma V* attendea lo scuro
Tartaro, e i* onda morta ;
Né le spose vi foro o i figli accanto
Quando su 1* aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma noQ senza de* Perii orcida ^tua
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e si gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L' ira de* greci petti e la virtntc.
Ve* cavalli supini e cavalieri.
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra* primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno ;
Ve* come infusi e tinti
Del barbarico sangue i greci eroi ,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poro vinti dalle piaghe,
L*un sopra l*altro cade. Oa viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scrìva.
Prima divelle, in mar precipitando,
Spente nell* imo strideran le stelle.
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba e. un*ara; e qua ifiostrabdor
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi pro-
benedetti, al suolo. [stro,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dair uno alTaltro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest* alma terr* ;
Che se il fato é diverso , e non consente
Ch* io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
'Cosi la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.
Giacomo Leopardi, Poesie.
44. Ad Angelo Mai, quand'ebbe tro-
vaio i libri di Cicerone Della Re-
pubblica.
Italo ardito, a che giammai non posi
Di svegliar dalle tombe
1 nostri padri? ed a parlar gli meni
A questo secol morto , al quale incombe
Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
Si forte a*nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de* nostri.
Muta sì lunga etade?e perché tanti
Kisorgimenti ? In un balen feconde
SECOLO DEC1M0N0N0
219
le carte ; alla stagion presente
)si chiostri
occulti i generosi e santi
gli avi. E che valor t' infonde,
egio, il fato ? U con V umano
Tsc contrasta il ^to invano ?
senza de* nami alto coasiglio
C ove più lento
è il nostro disperato obblio,
er ne rieda ogni momento
do de* padri. Ancora è pio
all' Italia il cielo; anco si cura
[ualcbe immortale ;
ido questa o nessun* altra poi
i ripor mano alla virtude
sa dell* itala natura,
i cbe tanto e tale
nor de* sepolti, e cbe gli eroi
catl il suol quasi dischiude,
ar s* a questa età sì tarda
giovi, o patria, esser codarda.
i serbate, o gloriosi, ancora
speranza ? in tutto
n periti ? A voi forse il futuro
r non si toglie. Io son distrutto
mo alcuno ho dai dolor, chèscuro
venire, e tutto quanto io scerno
ì sogno e fola
la speranza. Anime prodi,
vostri inonorata , immonda
ccesse; al vostro sangue è scherno
e di parola
or; di vostre eterne lodi'
ir più ne invidia; ozio circonda
[lenti vostri; e di viltade
tti esempio alla futura etade.
ilo ingegno, or quando altrui non
ri alti parenti, [cale
caglia , a te cui fato aspira
SI, che per tua man presenti
ie*giorni allor che dalia dira
ine antica ergean la chioma,
studi sepolti ,
divini, a cui natura
oza svelarsi, onde i riposi
ìtAì allegrar d' Atene e Roma,
pi , oh tempi avvolti
eterno ! Allora anco immatura
1 d' Italia, anco sdegnosi
d* ozio turpe, e l* aura a vob
Ile rapia da questo suolo,
calde le tue ceneri sante ,
nito nemico
iftuna; al cui sdegno e dolore
Fu più Taverno che la terra amico.
L* averno : e qual non è parte migliore
Di questa nostra? £ le tue dolci corde
Susurravann ancora
Dal tocco dì tua destra, o sfortnnato
Amante. Ahi dal dolor comincia e nas4!e
L* italo canto. £ pur men grava e morde
Il mal. che n* addolora
Dei tedio che n*affoga. Oh te beato,
A cui fu vita il pianto ! A noi le fasce
Cinse il fastidio ; a noi presso la culla
Immoto siede, e.su la tomba, il nulla.
Ma tua vita era allor con gli astri e il ma-
Ligure ardita prole, [ [re,
Quand*oltre alle colonne, ed oltre ailiti,
Cui strider 1* nude all' atluffar del soie
Parve i^dir su la sera, agi* infiniti
Flutti commesso, ritrovasti il raggio
Dei Sol caduto, e il giorno
Che nasce allorch*ai nostri è giunto al fnn-
£ rotto di natura ogni contrasto, [ dis
Ignota immensa terra al tuo viaggio
Fu gloria , e del ritorno
Ai rischi. Ahi ahi , ma conosciuto il mondo
Noncresce, anzisi scema, e assai. più vastu
L' etra sonante e l*alma terra e il mare
Al fauci ttllin, che non al saggio, appare.
Nostri sogni leggiadri ove son giti
Dell* ignoto ricetto
D'ignoti abitatori, o del diurno
Degli astri albergo, e del rimoto letto
Della giovane Aurora, e del notturno
Occulto sonno del maggior pianeta ?
£gco svanirò a un punto,
£ figurato è il mondo in breve carta;
£cco tutto è simile, e discoprendo,
Solo il nulla s* accresce. A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar ; da te s* apparta
Nostra mente in eterno ; allo stupendo
Poter tuo primo ne sottraggon gli anni ;
E il conforto perì de* nostri affanui.
Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
Sole splendeati in vista,
Cantor vago dell* arme e degli amori ,
Che in età della nostra assai mea trista
Empier la vita di felici errori:
Nova speme d' Italia. torri, o celle,
donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi l a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia. Di vanità, di belle
Fole e strani pensieri
Si componea 1* umana vita: la hax\ds^.
220 CRESTOMAZIA POFTCA
Li cacciammo: or che resta? or poi che il Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
[venie Paghi viriamo , e scorti
K spogliato alle cose? Il certo e solo Da mediocrità; sreso il sapiente
Veder che tutto è vano altro che il duolo. E salita è la turba a nn sol confine,
OTorquato,o Torquato, a noi l'eccelsa Che il mondo agguaglia- O scopritor fa-
Ttia mente allora, il pianto Segui; risvegliai morii, Imoso,
A te, non altro, preparava il cielo. Poi che dormono i vivi; arma le spente
misero Torquato ! il dolce vanto. Lingue de* prischi eroi ; tanto che infine
Non valse i consolarti o a sciorre il gelo Questo secol di fango o vita agogni
Onde r alma t* avean, eh* era sì calda, E sorga ad atti illustri , o si vergogni.
Cinta V odio e 1* immondo Giacomo Leopardi, Poesict
Livor privato e de' tiranni. Amore,
Amor, di nostra vita ultimo inganno, 45. Il Passero solitario,
T* abbandonava. Ombra reale e salda
Ti parve il nulla, e il mondo D* in sn la vetta della torre antica ,
Inabitata piaggia. Al lardo onore Passero solitario, alla campagna
Nonsorsergliocchituoi;mercè, non danno Cantando vai finché non more il giorno ;
L*ora estrema ti fu. Morte domanda Ed erra l'armonia per questa valle.
Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda. Primavera dintorno
Torna torna fra noi, sorgi dal muto Brilla nell'aria , e per li campi esnlta,
K sconsolato avello, Sì che a mirarla intenerisce il core.
Se d* angoscia sei vago, o miserando Odi greggi belar, muggire armenti;
Esemplo di sciagura. Assai da quello Gli altri augelli con lenti, a gara insieme
Che ti parve sì mesto e sì nefando, Per lo libero ciel fan mille giri,
li peggiorato il viver nostro. O caro. Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Chi ti compiangerla, Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Se, fuor che di se stesso , altri non cura ? Non compagni, non voli,
Chi stolto non direbbe il tuo mortale Non ti cai d'allegria, schivi g!i spassi:
Aifanuo anrhe oggidì, se il grande e il raro Canti e così trapassi
Ha nome di follia; Dell' anno e di tua vita il più bel fiore.
Ne livor più, ma ben di lui più dura Oimè, quanto somiglia
La noncuranza avTÌeneaisommi?oqnale, Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Se più de'carmi, il computar s' ascolta. Della novella età dolce famiglia.
Ti appresterebbe il lauro un'altra volta ? E te german di giovinezza, amore,
Da te fino a quest'ora uom non è sorto, Sospiro acerbo de' provetti giorni,
O sventurato ingegno. Non coro, io non so come; anzi da loro
Pari air italo nome, altro eh' no solo. Quasi fuggo lontano;
Solo di sua codarda etade indegno Quasi romita e strano
Allohrogo feroce, a cui dal polo Al mio loco natio.
Maschia virtù, non già da questa mia Passo del viver mio la primavera.
Stanca ed arida terra, Questo giorno ch'ornai cede alla sera,
Vcnne.uel petto; onde privilo , inerme, Festeggiar si costuma al nostro borgo.
(Memorando ardimento) in su la scena Odi per lo sereno un suon di squilla.
Mosse guerra a' tiranni: al men si dia Odi spesso un tonar di ferree canne.
Questa mìsera guerra Che rimtmmba Ionia n di villa in villa.
E questo vano rampo all' ire inferme Tutta vestita a festa
Del mondo.Ei primo e sol dentro all'arena La gioventù del loco
Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto Lascia le case, e per le vie sì spande;
Silenzio orpreme ai nostri innanzi a tutto. E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Disdegnando e fremendo, immacolata Io solitario in questa
Trasse la vita intera, Rimofa parte alla campagna uscendo,
E morte lo scampò dal veder peggio. Ogni diletto e gioco
Vittorio mio, questa per te non era Indugio in altro tempo: e intanto il gnar^
Età aè saolo. Altri anni ed aUro se^^Vo Svt&o nell'aria aprica
SECOLO DECIMONONO
221
Mi fere il Sol che tra lontani monli ,
Dupo il {giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Cerio del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ugni vostra vaghezza.
■ A me, sé di vecchiezza
La detestata soglia
Kvitar non impetro, L re
Quando muli questi occhi ali* altrui co-
li lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più nojoso e tetro,
i^he parrà di tal voglia?
Che diquest^'anni miei? che di me stesso?
Ahi peotirommi, e spesso,
>Ja sconsolato, volgerommi indietro.
G. Leopardi j Pjesie.
46. // Sabato delvillaggio,
\jk donzelletta vien dalla campagna,
]n sui calar del soie.
Col suo fascio dell* erba; e reca in mano
LJn mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scaU a filar la vecchierella.
Incontro là dove si perde il giorno;
£ novellaudo vien del suo buon tempo.
Quando al dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch*ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l' aria imbruna.
Torna azzurro il sereuo, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti.
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che vi eoe;
Ed a quel suou diresti
Che il cor si riconforta.
1 fanciulli gridando
Sala piazzuola in frotta,
E qaa e là saltando,
Fanno un lieto romore;
E iutanto riede alla sua parca mensa,
Fischiandi), il zappatore,
E seco pcu^a al dì del suo riposo. [ face
Poi qu::ndu intorno è speata ogni al tra
E tutto l'altro tace.
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnajuol,chc veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, es'adopra
Di foruir l' opra anzi il chiarir dell' alba.
Questo di setteè il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioja:
Di man tristezza e noja
Recheran 1' ore, ed al trnvaj^lio osato
Ciascun in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Codesta età fiorita
È come un giorno d' allegrezza pieno, ■
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stalo soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
Ch' anco tardi a venir non ti sia grave.
G. Leopardi f Po«»ie.
47. La ginestra , o il fior$
del deserto.
£ gli uomlui vollero piuUoct*
le teoebre che la luce.
CiOTAMìft, III, 19.
Qui sa l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore ,
Tuoi cespi solitari intorno spargi ,
Odorata ginestra.
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo ,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al pa>seggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d' afflitte fortune ognor compagni.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell' impietrata lava.
Che sotto i passi al peregrio risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso cuvil torna il coniglio;
Fur liete ville e colli,
£ biondeggiar, di spiche e risonaro
S22 CBBSTOMAZU POETICA
Di muggilo d* armenti ; Guida i pubblici fati.
Fur giardini e palagi, Così ti spiacque il vero
Agli ozi de'poteBti DelKaspra sorte e del depresso loco
Gradito ospizio; e fur città famose, Che natura ci die. Per questo il tergo
Che coi torrenti suoi Patterò monte Vigliaccamente rivolgesti al lume
Dall'ignea bocca fulminando oppresse Che il fé' palese; e, fuggitivo, appelli
Con gli abitanti insiem. Or tutto intorno Vìi chi lui segue, e solo
Una mina involve; Magnanimo colui [folle.
Dove tu siedi, o fior gentil, e, quasi Che,sè schernendo o gli altri , astuto e
] danni altrui commiserando, al cielo Fin sopra gli astri il mortai gradò estolle.
Di dolcissimo odor mandi un profumo Uom di povero stato e membra infer-
Che il deserto consola. A queste piagge Che sìa dell* alma generoso ed alto^ [me
Venga colui che d* innalzar cou lode Non chiama se ne stima
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto Ricco d* or né gagliardo,
È il ce ner nostro in cura . £ di splendida vita o di valente
Air amante natura. £ la possanza Persona infra la gente
Qui con giusta misura Non fa risibil mostra;
Anco estimar potrà deirnman seme, Ma se di forza e di tesor mendico
Cui la dura nutrice, ov* ei non teme, Lascia parer senza vergogna, e noma
Con lieve moto in un momento annulla Parlando, apertamente, e di sue cose
In parte, e può con moti Fa stima al vero uguale.
Poco men lievi ancor subitamente Magnanimo animale
Annichilare in tutto. Non credo io già, ma stolto
Dipinte in queste rive Quel che, nato a perir, nutrito in pene,.
boli deir umana gente Dire, a goder son fatto.
Le magnifiche sorti e progressive, £ di fetido orgoglio
Qui mira e qui ti specchia , Empie le carte, eccelsi fati e nove
Secol superbo e sciocco. Felicità, quali il ciel tutto ignora.
Che il calle insino allora ^ ^ Non pur quest'orbe, promettendo in terra
Dal risorto pensier segnalo incanti ^ A popoli che un* onda
Abbandonasti, e, vòlti addietro i passi, Di mar commosso, un fiato
Del ritornar ti vanti, D* aura maligna, un sotterraneo crollo
£ procedere il chiami. Distrugge sì ch'avanza
Al tuo pargoleggiar gì* ingegni tutti A gran pena di lor la rimembransa.
Di cui lor sorte rea padre ti fece Nobil natura è quella
Vanno adulando, ancora Ch' a sollevar s* ardisce
Ch* a ludibrio talora Gli occhi mortali incontra
T* abbian fra se. Non io Al cornun fato, e che con frane» lingua^
Con tal vergogna scenderò sotterra: Nulla al ver detraendo ,
£ ben facil mi fora Con€e.ssa il mal che «ri fu dato in sorte
Imitar gli altri e, vaneggiando in prova, £ il basso stato e frale;
Farmi agli orecchi tuoi cani andò accetto: Quella che grande e forte
Ma il disprezzo piuttosto che si serra Mostra sé nel soffrir , né gli odii e l'ire
Di te nel petto mio, Fraterne ancor più gravi
Mostrato avrò quanto si possa aperto: D* ogni altro danno, accresce
Bench*io sappia che obblio Alle miserie sue, 1* uomo- incolpando
Preme chi troppo all'età propria inrreb- Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Di questo mal, che teco [be. Che veramente é rea, che de' mortali
Mi fia comune assai finor mi rido. £ madre in parto ed tn voler matrigna.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo Cjstei c£iama inimica^ie incontroaqaesi»
Vuoi di novo il pensiero, CoYiginnta esser pensando,.
Sol per cui risorgemmo Siccom'è il vero, ed ordinata in pria
DaiJa barbarie in parte e per cui solo^ L' umana compagnia,
^i (Te5ce in civiltà, che mU in meglio Tutti fra sé confederati estlsia
SECOLO DECIMONOXO 223
Gli uomini; e tutti abbraccia Dell* uomo? £ rimembrando
Con vero amor, porgendo 11 tuo stato qu:tggiù;'di cui fa segno
Valida e pronta ed aspettando aita II suol ch*io premo; e poidairaltra parte»
Negli alterni perigli e nelle angosce Che te signora e fine
Della guerra comune. Ed aile offese Credi tu data al Tutto, e quante Tolte
Dell'uomo armar la destra,e laccio porre Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Al vicino ed inciampo, Granel di sabbia, il quai di terra ha Do-
Stolto crede così, qual fora In campo , Per tua cagion, delPuniverse cose [me,
Cinto d*oste contraria, in sul più tìvo Scender gli autori, e conversar sovente
Incalzar degli assalti, Co* tuoi piacevolmente ; e che i derìsi
or inimici obbliando, acerbe gare Sogni rinnovellando, ai saggi insulla
Imprender con gii amici. Fin la presente età, che in conosceoxa
£ sparger fuga e fulminar col brando Ed in civil costume
Infra i propri guerrieri. Sembra tutte avanzar; qual moto allora.
Cosi fatti pensieri Mortai prole iof^^lice, o qual pensiero
Quando fien, come fnr, palesi al vólgo , Verso te finalmente il cor m* assale?
E queir orror che primo Non so se il riso o la pietà prevale.
Contra Tempia natura Come d'arbor cadendo unpicciol pomo.
Strinse i mortali in social catena Cui là nel tardo autunno
Fia ricondotto in parte Maturità scnz'altra forza atterra,
Da verace saper, 1* onesto e il retto D' un popol di formiche i dolci alberghi
Conversar cittadino, Cavati in molle gleba
' £ giustizia e piefade altra radice Con grau lavoro, e V opre
Avranno allor che non superbe fole, £ le ricchezze eh* adunate a prova
Ove fondata probità del volgo Con lungo affaticar 1* assidua gente
Cosi star suole in piede Area prò vida mente al tempo estivo,
Qnalestar può quel ch*hainarrorIasede. Schiaccia, diserta e copre
Sovente in queste piagge, In un punto; così d' alto piombando ,
Che, desolate, a bruno Dall' utero tonante
Veste il flutto indurato,e par che ondeggi , Scagliata al ciel , profondo
Seggo la notte; e su la mesta landa Di ceneri, di pomici e di sassi
In purissimo azzurro Notte e ruina, infusa
Veggo dair alto fiammeggiar le stelle, Di bollenti ruscelli ,
Cui di lontan fa specchio O pei montano fianco
li mare, e tutto di scintille in giro Furiosa tra l*erba
Per lo vóto seren brillare il mondo. Di liquefatti massi
E poi che gli occhi a quelle luci appunto, E di metalli e d'infocala arena
eh* a lor sembrano un punto. Scendendo immensa piena,
E sono immense in guisa Le cittadi che il mar là sa Teslremo
Che un punto a petto a lor son terra e Lido aspergca, confuse
Veracemente; a cui [mare E infranse e ricoperse
L' uomo non pur, ma questo In pochi istanti: onde so quelle or paKc-
Globo ove l'uomo è nulla. La capra, e città nove
Sconosciuto è del tutto: e quando miro Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Quegli ancor più senz' alcun fin remoti Son le sepolte, e le prostrate mura
Nodi quasi di stelle, [l'uomo L'arduo monte al suo pie quasi calpesta.
Ch' a noi pajon qual nebbia, a cui non Non ha natura al seme
E non la terra sol, ma tutte in uno, Dell' uom più stima o cura
Del numero infinite e della mole, Ch' alla formica: e se più rara in quello
Con l' aureo sole insiem, le nostre stelle Che nell' altra è la strage ,
(> sono ignote, o così pajon come Non awien ciò d* altronde
Essi alla terra, un puntò Fuor che l' uom sue prosapie lift meo fe-
Di luce nebulosa; ai pensier mio Ben mille ed ottocento [conde.
Che sembri allora, o prak Anni varcar poi che sparirò, oppressi
Dair ignea forza, | popolati seggi,
£ il vilianello inlenlo
Ai vigneti rhc a stento in questi campi
lontre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatai, che nulla mai fatta più mite
CRESTOMAZIA IK)liTlCA
Per sì lungo cammino [tanto,
Che sembra star. Caggiono i regni iu-
Passan genti e linguaggi: ella noi vede ;
£ l'uom d' eternità s'arroga il vanto.
£ tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni.
Ancor siede tremenda, ancor minaccia Anche tu presto alla crudel possanza
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. £ spesso
Il meschino in sul (etto
Dell' ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne ,
K balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall' inesausto grembo
Su ir arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
£ di Napoli il porto e Mergellina.
K se appressar lo vede, o se nel cupo
Dfl domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli ,
Soccomberai del sotterraneo foco.
Che, ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. £ piegherai
Sotto il fascio mortai non renitente
II tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretta
Con forsennato orgoglio invér le stelle,
Né sul deserto, dove
£ la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna a^vesti ;
Ma più saggia, ma tanto
Desta lamogiie in fretta,e via con quanto Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Di lor cose rapir posson, fuggendo.
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo
Che gli fu dalla fame unico schermo ,
Preda al flutto rovente.
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sopra quei si spiega.
Torna al celeste raggio,
Dopo r antica oblivìon, l' estinta
.Pompei, come sepolto
Scheletro cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
£ dal deserto fòro
Diritto infra le file
De' mozzi colonnati il peregrino
LuDge contempla il bipartito giogo
t^ la cresta fumante,
Ch' alla sparsa mina ancor minaccia.
£ nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Tue stirpi non credesti
dal fato o da te fatte immortali*
Giacomo Leopardi, Poesie.
48. Sul traffico dei JVegri.
Nome di saggio, di gentil, d' umano,
Secol novello, invano
Speri per filolofici argomenti,
Mentre a stampar di fiera
Abbominosa crudeltà consenti
Pel tuo lucido colio orma si nera.
Al patrio suol dolce qoal sia, rapite
Mille innocenti vite
Dolorano colà sul mal concesso
Lido ove corse il forte
Ligure, e r alla cupidigia appresso
Col delilto ridendo e con la morte.
Ahi sventurati, a cui dal Sirio ardore
Insolito calore
Per le misere carni si diffonde;
Ca:se, ove i parti il pipistrello asconde, Voi mercadante inferra
Come sinistra face Barbaro, e tragge oltre vastìssìm'onde
Che per vóti palagi atra s' aggiri, Lente glebe a sudar d'ignota terra.
Corre il baglior della funerea lava, sbigottito mio pensier, tu vedi
Che di lontan per l'ombre Mal su gì' infermi piedi
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Reggersi quelle estenuate membra:
Cosi, oeir uomo ignara e dell' etadi Tu vedi ad uno ad uno
Ch' ei c*hiama antiche e del seguir che Cader que' volti .che discarna e smeml»ra
Dopo gli avi i nei>oti, [fanno 11 dolor, la fatica ed il diginno.
Su natura ognor verde, ani» \>toccdc Fise le.luci al suol, poggiando stanco
SECOLO DKaMONONO
335
ra marra il fianco,
muti il lor natio ricetto,
i Tani lai
figli, al cai soave aspetto
ran gli orchi consolar più mai.
etato flagello li respinge
affanno e tinge
erren dell'infelice sangue.
iebbre percosso
nza conforto a terra langue,
a pelle maculata in rosso.
anto dVgni lena altri in tenace
[)ro fondo giace,
più non sarà eh* arte il rìdesti;
tue degne voglie,
Che TÌvo e morto rip'^sar qui volle,
Tu che vivo il vedesti
(Quanto t* invidio!) e di bei lauri cinto
Trar sua vecchiezza a lenti passi e gravi
Per queste ombre soavi,
Qaando del prisco italico valore
Pensier gravosi e mesti
Qui portava nel volto, ancor dipinto
De là dolcezza che vi pose Amore ;
Dl% qnal partedi quest'ombrosa chiostra
Copre Tavanzo de la gloria nostra?
Ecco, io 'ti veggio, o solo
£ più che gemma prezioso sasso!
Fortunata quest*aura e questo suolo
A cui rivolge il passo
Europa, a veder gli efletti onesti. Cupidamente ogni anima bennata
di tua virtù frutto si coglie.
ìri affetti e d* amorosi amplessi
^ioja è per essi;
sorge l'aurora, alcun la sera
>enso non porta,
le il ciel, non torna primavera,
tizia di natura é morta.
risti petti a poco a poco spento
uman sentimento;
Che qui gode inchinarsi e star pensosa ;
£ ogni anima amorosa
Che sospir più soavi unqua non spera:
lo veggo Amor che lasso
Si volge a 1' urna dolorosa e guata;
La sacra Poesia, cinta di nera
Benda, con mano a' tristi occhi fa-telo:
Credo la guardi con pietade il cielo.
E Amor così le dice :
è quel germe che talvolta in rude Quivi seder con lagrime e con lutto
3r di selve A me veracemente, a me s'addice,
stesso è possente a dar virtude; Vedi a che m' han ridutto
i furo ed or son fatti belve. Diversi tempi e tralignate ^enti,
na, sdegno di Dio, vindice telo, Ch' io porto di lascivia abito e nome ;
tira e del ciclo £ ben sa '1 mondo come
la Tonta, i rei tiranni prostra, La più gentil fra le gentili cose
le scellerate Questi mi fece, e tutto
; e voi^ della grand' ombra vostra, Pudico innanzi a giovinette menti,
lermo a tanta indignità, tremate. Col suo sì dolce lamentar, mi pose :
drizza le vele ed il governo In lui, sommo intelletto e puro core,
nave che a scherno [ vampa? 1 divini pcnsier spirava Amore,
tlante che mugge, e il eie! che av- Ed ella a lui : Ben parmi
l' ella appressa i lidi Che più a me si convegna il van disio
lusta Guinea. Celati, scampa. Qui disfogare t piangere e lagnarmi ;
le incauto al margine ti fidi. Amor, tu'l sai, com' io
le r altiveggente aquila piomba Presi l'alme più schive e più selvagge
Di mia beltate allor ch'ei mi die veste
Eletta e sì celeste.
Dolcezza che sonò 'per Isnga etade;
Or donna vii che il mio
Kome si toglie, e i oiùovi ingegni tragge
Dietro sua vanità, chft par beltade,
Vaga di strani fregi usd del faugo:
a tomba del Petrarca inArquà. Ella gode onorata, ed io ^ui piango.
cenei; beatdetlo,
de e solingo colle Or ccaér innto che nna pietra guarda,
mio vate gentil tantp piacesti £ già stanza d'altissimo Intel Icitu -,
lEOPARDi, CrettomoMia, IL ^ « V^
nido colomba,
empio naviglio a quella riva:
! pezzo d'argento
turba fa misera e capti va!
iTC e grida se ne porta il vento.
G. Marchetti, Poesie.
2Ì6 CRESTOMAZIA POETICA
Ben (Ttà* io rhe ancor arda, Tntla l'invade un gelato sudore^ - " y ^
Volta qiiaggià, la tua santìsbim* ombra £ n«ile fauci un brivido le serra '^ >
Di queil* amor magnanimo e cortese II respiro ed i palpiti nel core: ' '. ' \^
Che ben d'altro 1* accese Più s* affrettando si confonde ed erra '
Che d'occhi rilucenti e di crìn biondo. Smarrita a lungo entro quel cupo orrorr/
O sol, ch'ogni più tarda Riscontra alfin per caso sotto ai passo ;'-'
Reliquia hai vinto di barbarie' ombra Le scale e vien precipitosa al basso.' ' ' ''
£ adorni ancor di gentilezza il mondo, Varca la corte e i portici, e discende ;'
ih chi ti cela? or che saria mestiero Per un àndito ignoto^ barcollante
Di te che apristi ai più superbi il vero. Fiuo all' orto e alla cava ove l' attettdé
CanzoR, sovra quest* urna Fra tema e speme il combattuto amxdiéi^.
Poni uq serto di lauro ed un di mirto; H qual con una man tosto la prende, ''
£ la querela affeltuosa e il canto £ tentando con 1' altra a sé davante
Leva umilmente a quel divino spirto, Con lei si mette per l'oscuro calle
A quel sovrano italico decoro, Sempre temendo aver gente alle spalle.
£ lui rinf;razia : intanto Quanto più ponno accelerando i passi
lo bacio il snolo, e questa tomba adoro. £ran già a mezzodì qnel fosco loco,
G. Marchetii, Poesie. Quando lontau lontan visibil fassi
L' incerto tremolar d*^ un picciol foco,
/•9. La fuga e la sorpresa. ^^ odono un fragor sordo che vassi
Approssimando sempre a poco a poeo,
Del clausf ro nel solingo orto s' apria £ raffiguran poi più da vicino
Dagli sterpi impedita e dalle spine Molti armati venir per quel cammino.
Una vetusta sotterranea via Indietro si rivoltan spaventati
Che del Circo adduceva alle mine ; Tornando su la strada già fornita ;
Quinci ei medesmo incontro le verria, Ma non sì tosto veggonsi arrivati
£ lei vestita d' armi e ascoso il crine, Al pertugio che s' apre in sull' uscita.
Scortar farebbe da un fidato messo, Ch'ivi pur trovan numerosi armati,
Col qual r avria di pochi dì precesso. Onde la fuga vien loro impedita :
£cco la notte della speme arriva Mettono questi un grido, e di lontano
Agli amanti propizia, olire il costume Risponde il primo stuol dal sotterrano:
Di densa nebbia intenebrata, e priva Rizzardo, sguainando allor la spada.
Sotto ciel procelloso d* ogni lume: Dice all'amata che al suo fianco stia,
Già la fanciulla tacita e furtiva E a correr dassi per l'incerta strada
Abbandonò le travagliate piume : Verso lo stuol che addosso gli venia:
Già si volge evilando ogni fragore Scontra fra i primi della ria masnada
Verso le scale giù pel corridore. Un che gli altri scorgea per quella vii ;
A se dinanzi nullo obbietfu vede. La man che il lume sofferia gli tronite,
£, come i ciechi, vien per l'aria oscura £ torna buja a un tratto la spelonca.
Movendo piena di sospetto il piede, Nella confusion che lo seconda
E le man brancolanti per le mura : Rotando ei vien con una man l'acciaro,
Fra un duplice di celle ordin procede £ con l' altra si trae dietro lldegonda
Lieve lieve , tremando di paura Del suo petto facendole riparo:
(Jhe ulcuna delle suore non si desti Quai diersi in fuga, quai dalla profonda
Al fievol suonde'passi e delle vesti, [sa. Oscurità difesi s'appiattaro:
Se a una porla la man tentando appres- Molli a que' colpi orribili, improvvisi
La tragge indietro,ed oltrepassa incerta: Cadeau feriti d'ogni parte o uectsi»
Spesso tende l'orecchio, e l'andar cessa, Suonan le basse sotterranee vòlta
Che ad ogni moto parie esser scoverta; D' urla lu|;ubri e strida di terrore
iNJa giunta ove s' alloggia la badéssa Delle genti che vanno ia fuga aciòUe,
S
j:
Fu percàtict Mìo spavcntó'k^-im;^. xV v«c\à^ ì^xlt^tt liifczardo' itlMnladó, '
SECOLO DGCmONOm)
sai
lu^ì<>,sl TieU sempre avansaodo.
i un ^tartooifigli tpparia dal fesso
il la s^r»4a ^l Circo adito dava;
'/{uelle alfrettando&i era presso
Ria. giunto deilWreada cava,
«cciogUaUe spalle un branco spesso
a.'|[ente db^ loseguitava
ci. accese ed armi d' ogni sorte,
ido.e mkiacciandol deOa morte,
«koandosi dietro la mal viva
sv fuor di quel pertugio in fretta,
U prima torma fuggitiva
accolla la fuga gli è intercetta,*
va schiera intanto ecco che arriva;
Q felice coppia in mezzo è stretta :
tt questo r indomito s'arrende,
gratamente si difende,
spessi colpi la calca dirada,
a tanti assalitor pur basta,
e sui cadaveri una strada
^un de' nemici gli contrasta:
legonda fra quegli avvien checada,
1 ferita indietro era rimasta,
che il giovin se ne fosse accorto
ne] caldo della pugna assorto,
dalla fiera mìschia ci si districa ,
Iva mento giungere pò tea;
i si volge, e vede che Tamica *
ei rischio seguito non V avea ;
i gridi di lei, che s'affatica
r Ài man di quella turba rea;
ojto nomando, un' altra volta
isi ardito in mezzo delia folta,
olti pur nel nuovo scontro atterra,
.suo valor miranda prova,
ippo disuguale era la- guerra ,
sser forte. a lungo anco gli giova,
ogni intorno sempre più lo terra
a calca succedente e nova;
spossato e in molte parti offeso,
lungo contrasto al&n fu preso.
Grossi, lldefonda, parte li»
{JO. Morte d'ildegonda.
poscia che rinvenne dal celeste
ento a che s'era abbandonata, '
kose inchinò 1^ luci meste
che a tanta s^ltez^ l'ha levata:-
l:h! disse,; potrò 1^ mortai veste
UT, dal ps^revmÀo sendo esecrata?
porlaRdpi.ÌQ.fnèi)t0.ancpr scolpita
maledi^pn 'Qe^ll af Ir^. vita?
direbbe l»sailt» jDì^dfQ mia
Allor che in deb iaG^dj^tn^rtnl v)hià$s«^ìÌ
Vedendo che la figlia ;iwiic«i^f^nf4> (.)!•' ^
Morta ribelle al padfe come vissUi^up Hi
Ella che sempre sofferente e .pia , ri f)i\'. ■
Stette soflimessaaquantAei le prei8ck$5«cv>
E moglie e donna era per se veggente^ r
Mentr*io fanciulla:, ed egli è; il iriiq.ipa^^
■ [retate.
— Volgiti al padre, il confessor ]e'4$ce ,
!Nè possibil non è ch'ei non si pieghi,-
Che alla morente sua figlia infelice^ .
Supplicato, il perdono ultimo neghi :
Avvalorati fian dalla vittrice
Parola del Signor per me i tuoi preghi.
Le membra inferme di vigor già prive
Dal letto a stento ella solleva e scriver
— « Padre: ricolma e la misura orrendai
n Dell' ira un dì sul mio capo imprecata,
(c Sapete voi, sapete qual tremenda
V Prova sostenne qnesta sventurata?
ff Deh! un'anima paterna nou l'intenda;
« Troppo, ah! troppo ne fora esulcerata,
ff Solo il cielo lo sappia , e il dolor mip
« Gradito salga in olocausto a Dio. —
a Ecco la mia giornata in sul mattino,
« In sul primo roattiu manca e si more^
a Mi volgo addietro nel mortai cammino,
a Più non veggio che l'orme del dolore:
« Ma l'eterno avvenir, cui m' avvicinq,
« Mi sU dinanzi e il giorno del Signore,
ff 11 novissimo dì della vendetta ,
a £ del giudicio estremo che m'aspetta.
— cr Perdonatemi, o padre, e benedite
tf L'afflitta vostra ^glia moribonda ;
« Deh per l' amor ai Dio, deh non patite
tf Per pietà della povera Ildegonda ,
a Che v'amò tanto in questa vita, e mite
a Vi pregherà il Signor nella seconda ,
« Deh non patite che sotterra io scenda,
« Nella paterna vostra ira tremenda, —
Finito che ebbe, alzata lentamente.
La faccia, vista fu che lagrìmava;
Prese il foglio, e baciollo con la mente
Rivolta al genitor coi lo mandava;
Quindi piegato, e chiuso finalmente, .
Con un sospiro al confessor lo dava,
Che lo riceve impietosito» e vola
Fuor della stanza, uè può dir parola^. .
Un lieve cenno allor fé con la tc^ta,
Idelben richiamando presso al lètto,, .
: £ tutta olla^pietosa mnaifesta
Che 4i. l^i^z<ardo il x:onfe&sor le ha d£t|<^, :
£ come a desiar più non le resta
. Che la morte, ouii \wm ^\ vaji^'^w^x^
2-28 CRESTOMAZIA roF.TCA
a ch'ella ben la invorheria di rorc Che Icrao troverà n, venendo al bas<o *.
Se impetrasse il perdon dal genitore. Etu,allor che involandoti alla schieri
Poi ledice:— Baco affrettasi il momento Delle infelici che non han mai pianto
Che darà fine a questa lunga guerra : Verrai soletta, quando si fa sera.
Già nelle membra travagliate sento Celatamente in quelì*asilo santo,
Una voce rhe chiamami sotterra : Prostrati, o cara, nella tua preghiera,
Forse mi cercherai domani, e spento ^ Sul sepolcro di lei che t*amò tanto;
Quel raggio in me che tanlo amasti in Seuliran dal profondo della fossa
Mi troverai, e non avrai presente [terra, La tua presenza e esulteran quest^ossa.
Fuor che un freddo cadavere indolente;
E tu, sorella, tu il cada ver mio
Toccherai sola, tanto imploro, o cara; Meste squillan nel bujo le campane:
Tu lo componi in atto umile e pio Un basso mormorar di molle genti,
Con le tue man sulla funerea bara; Che di lontan procedon lente e piane,
£ orando sopra lui prega da Dio Avvicinarsi a poco a poco senti;
La pace che a'suoi giusti egli prepara. — Il mistico recando augusto pane
L^altra a risponder si movea,ma intanto Fra lo splendor de' sacri ceri ardenti;
Pietà la vinse e ruppe in un gran pianto. Ecco apparir devotamente il santo
— Non pianger, proseguia la rassegnata. Ministro, e stargli le sorelle accanto.
Non pianger me,chealfin arrivo in porto: La povera celletta d' improvviso
Che fare'io deserta € travagliata Rifulger parve d' un celeste raggio;
In tanto mare, senza alcun conforto, Una soavità di paradiso
Or che tolta mi fu la madre amata, Confortò la morente al gran viaggio,
Che il mio Riizardo, il mio Rizzardo , e E fu veduta sfavillar d' un riso
^ [ morto? Di carità, di speme e di coraggio
A tutti in odio , fuor che il pianto , in Qnando TOstia d*amor, le sacre note
[ questa Proferendo, le porse il sacerdote.
Misera valle, dimmi, or che mi resta ? . Poiché col ^^acram«tlto benedette
E , in cosi dir, Tamica accarezzando, Egli ebbe alfin le congregate suore.
Le asciuga gli occhi e bacia in fronte Quelle in due files^avviàr risti^ette,
ttpeiso. Intonando le laudi del Signore:
E — Mei conredi quel che ti domando ? Nessuna il pie fuor della soglia mette
Lo farai? dunque lo prometti adesso? — Che non volga nno sguardo di dolore
Cosi insistente supplicava; e quando [so, Alia morente, la qnal grave e mula
Quella il capo inchinando ebbcl promes- Con gli occhi ad una ad una le saluta.
— Mercè te n'abbia il ciel, sorella mia:
Oh di che amor mi amasti ! — e prose- .......
[guia; Mentre con san li detti la rincora
— Mi vestirai di quella veste bianca La voce di quel giusto al gran tragitto,
Che mi trapunse la mia madre invano, Ecco che giunge rapida una suora
Nei tristi giorni quando afHitta e stanca Alla badessa e recale uno scritto :
L'aspettato piagnea sposo lontano : Del ver presaga, la morente allora
li mio rosario ponmi nella manca. Parve rasserenasse il volto afflitto ;
Il crocifisso nella destra mano. La madre incontanente a lei lo porse,
E di quel nastro aunodanii le chiome Che, ogni vigor raccolto, alquanto sorse;
hu che intreccialo il mio sta col tuo no- E baciò quello scritto e al corlostrin-
[me. Che scosso le balzò sotto la mano; [st»
Se fuor verrò portata dal convento. Poi desiosa a leggerlo s' accinse
Siccome prego e supplico clic sia, Tre volte e quattro, e fu ogni scherzo va-
Mi porran ncirantico monumento Che nebuloso al senso le si piuse [no»
Della famiglia con la madre mia : Ed ondulante su mal fermo piano ;
Che se dato non m'è tanto contento. Sicché forzata finalmente il cesse
Mi 5P/)/)elIiscan qui presso la zia Al confessor, che lagrimando lesse:
Nella cbìesa de' morii sotto a\ S3iSso « Amata figlia, il veggio, è troppo tario
SCCOLO DECIMONONO 229
inoìntutlo il pentimento mio: Col primo raggio incontra e la riveste
so che m' ami , e 1' ultimo tuo D*una luce purissima celeste.
[ sguardo
sdegnerà lo scritto che t*invio.
perdonami, e prega il tuo Rizza rdo
non chiami vendetta innanzi aDiO'
sa che il tuo fratello è mio nemico,
:i m'ha tradito, e ch*io ti benedico,
ktto di pietà la moribonda
e luci al ciel senza far motto:
i alla gioja che nel sen le abbonda
lo, die in un piangere dirotto:
ata del letto in sulla sponda,
ti piange la sua fida, e sotto
assati veli la badessa
mente lagrima va anch' e5sa.
>mmosso ministro sulla pia
irenti le preci proferendo,
imente ad or ad or la già
me di Gesù bei^dicendo,
i il4occo feral dall' agonia
opor che l'aggrava ella sentendo,
.'ommossa, girò gli occhi intorno,
andò s'era spuntato il giorno,
"u risposto esser la notte ancora ;
e indugiar però più lungamente
uote ad apparir nel ciel l'aurora,
à svanian le stelle iu oriente,
rivederla luce allora
desio nel cor della morente
schiuder le imposte, e fu veduta
ar gran tempo il ciel cupida e muta,
.osse finalmente, e vista accesa
la face benedetta accanto ,
ghiere ascoltando della Chiesa,
peteale quel ministro sanlo,
mpana funerale intesa,
squillar non desisteva intanto ,
alzò gli occhi ad Idelbene in viso,
Ecco, le dicea con un sorriso,
> l'istante che da lungo agogno. —
i affanno improvviso qui l' oppres-
sa a sedersi fu bisogno, [ se,
iver l' anelilo potesse. [ gno —
me contenta! questo non è un so-
poichè il vigor glielo concesse ,
di de'morti rammentava, quando
tranquilla si credea sognando,
ron queste l'ultime parole:
, a guisa di persona stanca,
mt inchinò siccome suole
) fior cui nutrimento manca.
re a fronte luminoso il soie,
la faccia più che neve biauca
Grassiy Udegonda, parte IV.
51. Canto di un Trovatore.
Bello al pari d'una ro'sa
Che sì schiude a sol di maggio
È Folchetlo, un giovin paggio
Di (lai mondo di Tolosa ;
Prode in armi, ardito e destro
Trovator di lai maestro.
Chi lo vede al di di festa
Su un leardo pomellato
Fulminar per lo steccato
Con la salda lancia in resta,
A san Giorgio lo ragguaglia
Che il dragon vince in battaglia:
Se al tenor di meste note
Sciorre il canto poi l' intende ,
Quando il biondo crin gli scende
In anellaperlegote,
Tocco il cor di maraviglia
Ad un aogiol l' assomiglia.
In sua corte lo desia
Qual signor più in armi vale,
^on è bella provenzale
Che il sospiro ei non ne sia ;
Ma il fedel paggio non ama
Che il suo sire, e la sua dama.
D'un baron di Salamanca
Essa è figlia, e Nélda ha nome:
Nero ciglio, nere chiome,
Guancia al par d' averlo bianca;
Non è vergine iu Tolosa
Più leggiadra o più sdegnosa.
All'amor del giovinetto
La superba non s' inchina.
« Sente ancor della fucina »
Fra se ÒM't con dispetto :
« No, SI basso il cor non pone
La figliuola d'un barone, m
Piange il paggio e si lamenta
Notte e di sulla mandola;
Di lei canta, di lei sola ,
La sua cobla e la sirventa;
La quintana corre a prova,
I.ance spezza: e nulla giova.
Ond' ei langue come fiore
In sul cespite appassito:
Smunto il viso, n*è smarrito
Delie fragole il colore;
£ si spegne a poco a poco
Ne* cerulei sguardi il foco.
CBr.STÒMÀZIA tntTfcK
'LelirghciM del suo se
£i la àait ciValiert,
- 'blKarbonalofkcoiilt;
E iu u<i S'Oiao eK dife spoM
, La Jugiaa^ disdegnosa.
FoTle d arali apparecchio t'ailnlia
Di Tolosa pel campi e pel vallo.
Che far tristo na ribelle vaiiallo
11 signor di Pcoienia giurò.
Non tì manca bandiera nesiana
Di baron, di ciltade soggetta:
Vtrso Anlibo già il ompo a' affrelU,
Kt' snoi piani Te lende pianti.
A Folchrlto che a par gli cavalca
Dolcemente Raimondo TaTella:
" Perchè sempre sì meslaf la bella
Che sospiri . fra poco Terrà,
Di Narbona il cammiao già ulca
Un cnrrierrhe a chiamarla ho spacciato;
Troppo presto da lei t' ho strappalo,
Del tuo duolo mi strinse pietà, o
_ Ecco il giamo in che Nelda s'attende,
Kcco nn altro, ed nn altro succede;
Passa il qaarlo ed il messo non rìede,
E la bella aipeltata non «ien.
La cillì combattala i' arrende;
Già cadnto i il ribelle stendardo:
Vjen Folchetlo al suo lido leardo ;
Che pili nullo rispetto lo tien.
Alla volta del grato castella
Tutto un giorno lìaggia solello,
Poi, sviandosi verso un borghetlo
Che di meno agli ulivi Iraspar,
Lera ^li occhi al leron d'un ostello
Al cui pie r onda irata si frange,
E li scoim una donna che piange
Inlendendo gli sguardi nel mar.
Al portar delta bella persona,
Al sembiante, al vestir gli par dessa.
Palpitando al verone s' appressa:
ElIaèNelda.piAdubblononv'è.
Sulla strada il cavallo abbandona.
Di sospetto tremante a lei vola:
1 Tu, mia sposa, — le grida — qui sola?
E piangente ?... di', come? perchè?«
Sciolta le chiome, pallida,
£ par secura in viso,
Scniudendo dalle trepide
Labbra un superbo riso,
' La beliaa lui rivolta,
" Scostali— disse— e ascolta.
• In me un'antica, ingenua
a Sebutùi mitxhiuti, o TÌk;
. Chi ti levò dal tritio,
■ Ma non li fea gentile
• Quel III» signor villano
■ Cbe mi ti diede in mano.
» Nun io patir l'ingiuria
■ Potei del sangue e il danno,
' E concedelii, abì misera !,
■ A un cavalicr britanno
■ Freno di mia Tenj)e|)a
■ Questa beltà negletta.
* Ei m'ha tradilà: al subila '
■ Romoreggiar eh' io sento
■ Balio fra il sonno, c.tacite
• Veggio spiegaU al vento
• Di quel felloii crudele
■ Ratte fuRgir le vele.
e Cader due volle, sorgere
Due volle, il soie b vidi
• Soletta errando in lagrime
• Su questi ignoti lìdi;
e Sprllacnl, mostra a dito
D Dal volgo impielosilo.
* (Ir che mi resta? supplice
• L'unta de] tuo perdano
» Implorerò spregiandoli ?
D Si abbietta ancor non sono.
• Quanto vedesti, al mio
• Padre tu annuniia. Addio.
Dice cai terraiio avventasi,
E ratti) dalla sp'mda
D'un salto si precipita
Col capo in giù nell'onda;
Sonar pel curvo lido
S'intese un tonfo e un grido.
Fra ì ciechi scogli infrantasi
Il delicato fianco,
Spari; ma tosto emer^terc
Fu visto un velo bianco,
Non die una lagrima
li l'a valle re :
Qual è di nere
Armi vestita.
Soletto e tacito
Lunghesso il lito
Si dilegui.
I venti muggODo,
Biancheggia l'onda;
£i dalla spoqda ,
D'una barehella
(ìiiarda la florida
Terra diletta
Cb t^handonfi^
E l'aeaue
Farsi di s
, SECOLO
la fr^ le nordiche
Nebb^evltagglay
Già iùlla spiaggia
Éd*Aibroàe:
Ed ecco affrontasi
Con quel barone
Che io tradì.
Le lance abbassano,
Pi|[liari del cambio ;
iRattL quài lampo^
I ^ue giannetti
Con tanta furia
S* urtar coi petti,
Ch*un ne morì.
A un punto snudano
Entrambi il brando^
E fulminando,
Di colpi crudi
Con vece assidua
Elmetti e scudi
Fan risonar.
Ma, il grave anelito
Frenando in petto ,
Ecco Folchetto
Al traditore
Con fero giubilo
In mezzo al core
Pianta Tacciar.
Pallida pallida
Divien la laccia
Che la minaccia
Spira pur anco.
La destra il misero
Si preme al fianco.
Vacilla e muor..
Allor nel fodero
L* acciar ripone;
Guarda il barone
Che giace ucciso,
Né rasserenaci
Pertant«ril viso
Delvincitor.
AlPestremo confin della Spagna,
Sulla vetta scoscesa d'un monte
Che dal piede ncU'onde si bagna
Alla verde Provenza di fronte,
Sorge un chiostro che Bruno fondò.
Pochi eletti lassuso raccolti
Vivon d*erbe e di strane radici,
Coi cappucci calati 3ui volti.
Cinto ognun di penosi cilici
Che ^por, finca ei vi[ye, non può.
Sonar gli archi d'un portico acuti
Fa usa spulila a riatocchi percossa:
DECmONONO ^i
L*aa con l'altro guardandosi^ muti
Stanno i monaci intorno a un^ f^ssa
Atteggiati di cupo dolor. r-
Chi è quel vecchiochein terraji giace
Colle braccia incrociate sul petto? —
11 tremante chiaror d'una face :
Gli erra incerto sul volto. ~£ Folchetto,
Il baron di Narbooa che muor. , , r.
Bianca bianca la barba fluente
Della tunica il cinto gli passa;
E all'alterno respir, mollemente
Ondeggiando, or si leva or s'abbassa
Come fanno le spume del mar. ,
Ma fra i casti pensieri di morte «
Nella mente del vecchio sereoàf
Di quell'ora solenne più forte
Uu'imagin ribelle balena
Cui non valser tant'auni a domar.
Qual la vide neli'uttimo giorno
^Col crin nero per gli omeri sciolto ,
Vagolarsi ancor vede d'intorno
Tutta in lagrime, pallida il volto,
E pur bella, la sposa infedel. —
Santo vecchio! e ti spunta morendo
Una stilla segreta di pianto ?
Che t'affanna?— Ah t'intendo, t'intendo:
Riveder lei che amasti già tanto
Non potrai fra gli eletti nel cìel.
'^2. La Rondinella»
Rondinella pellegrina,
Che ti posi in svi verone,
Ricantando ogni mattina
Quella flebile canzone.
Che vuoi dirmi in tua favella.
Pellegrina rondinella? .,.
Solitaria nell'oblio.
Dal tuo sposo abbandonata,
Planai forse al pianto mio
Vedove tla sconsolata ?
Piangi, piangi in tua favella,
Pellegrina rondinella.
Pur di me manco infelice
Tu alle penne aimcu t'affidi ,.
Scorri il Iago e la pendice,
Empi l'aria de' tuoi gridi,
Tutto il giorno in tua favella
Lui chiamando, o rondinella.
Oh se anch'io!... Ma lo contende
Questa bassa, angusta volta,
Dove sole non risplende.
Dove l'aria ancor m'è tolta,
232
CRESTOiMAZIA POETll?il
Donde a te la mia favella
Giunge appena, o rondinella.
Il settembre innanzi viene
£ a lasciarmi ti prepari ;
Ta Yedrai lontane arene.
Nuovi monti, naovi mari
Salutando in tua favella,
Pellegrina rondinella:
Ed io tutte le mattine,
Riaprendo gli occhi al pianto,
¥rg le nevi e fra le brine
Crederò d'udir quei canto
Onde par che in tua favella
Mi compianga, o rondinella.
Una croce a primavera
Troverai su questo suolo:
Rondinella, in su la sera
Sovra lei raccogli il volo :
Dimmi pace in tua favella.
Pellegrina rondinella.
T. Grossi, Poesie.
53. La giovinezza.
Corri su fuggitiva ala veloce,
O giovinezza : lieve
Sfiori la terra, e di tuo viver breve [de:
Già al fin se' giunta, e a te si spoglia il vcr-
XJn bel raggio così spunta e si perde.
giovinezza, o primo di natura
Leggiadro fiore che di vcrgin pura
Stai sulla guancia molle.
Ah! perchè mai sì tosto ne abbandoni,
Ne ti rinnovi come il fior del colle ?
Per te i dumi si vestono di rose,
E il mondo si colora
In luce soavissima di cielo :
Far che per te più roseo l'aurora
£ argenteo più abbia la luna il velo.
Teco vien quell'affetto che ragiona
Nell'anime non morte a gentilezza ;
Teco vien l'allegrezza,
£ il sorriso e la speme e i dolci orgogli;
Ma se tu manchi, tu di lor ci spogli.
Allor eh' è mai la vita ?
Ve' in autunno la foglia inaridita:
Cade f e un giorno sì bella.
Or stride sotto il pie del giovinetto.
.Che la preme e di lei più non favella.
/i, Cagnoti, Poesìe.
54. Fer il primo congresso dei dodi*
in Pisa Vanno 48S9.
Di sì nobile congresso
Si rallegra con àè stesso
TuUól'umàn genere.
Tra i potenti della ^na
Non si tratta, còiiie a Vienna ,
D*attottare i popoli.
E per questo «in'ti^annetto
Da quattordici'al duetto
Grida! — Oh che spropositi!
Questo principe toscano,
Per tedesco e per sovrano •
Ciurla un po' nel manico.
— Lasciar fare a chi fa bene? —
Ma badate se conviene !
Via, non è da principe.
Inter nos, la tolleranza
È una vera sconcordanza;
Cosa che dà scandalo.
— Non siam re mica in Siberia ! —
Dio '1 volesse ! Oh che miseria
Cavalcar l'Italia!
Qui nell'aria, nel terreno.
Chi lo sa? c'è del veleno :
Buscherato il genio !
Un'Altezza di talento
Questo bel ragionamento
Faccia a se medesimo:
Se la stessa teoria
Segue, salvo l'eresia ,
Il morale e il fisico;
Anco il lame di ragione
Per virtù di riflessione,
Cresce e si moltiplica.
E siccome a chi governa
É nemica la lanterna
Che portò Diogene;
Dal mio Stato felicissimo
( Che per grazia dell'Altissimo
Serbo nelle tenebre )
Imporrò con un decreto,
Che chi puzza d'alfabeto
Torni indietro subito;
E proseguano il viaggio.
Purché paghino il pedaggio.
Solamente gli asini.
Ma quel matto di Granduca
Di tener la gente duca
Non conosce il bandolo.
Qualche birba lo consiglia :
ti mestare è di famiglia
SECOLO decimonono
Vizio ereditario. Viva i quattrini!
233
Viva le maschere
D'ogni paese.
Le imposizipnl, eP«lfiiAodei mese.
Io nelle scosse •
Delle sommosse
Tenni, per àncora
D'ogni burrasca.
Da dieci o dodici
Coccarde in tasca.
Se cadde il prete
Io feci l'ateo,
Rubando lampade,
Cristi e pianete,
Case e poderi
Di monasteri.
Viva arlecchini
E burattini
£ Giacobini,
Viva le maschere
ato al signor Tallcjrand buoa*aoima D'ogni paese *
Loreto e la Repubblica francese^
Se poi la coda
i me, che so il mestiere,
he faccio il mio dovere
Propagando gli ebeti,
ntidoto al progresso,
mio popolo ho concesso
Di non saper leggere,
to all'ignoranza
ira, e paghi, e me n'avanza;
Regnerò con comodo,
n Vandalo d'origioe,
roteggo la caligine,
E rinculo il secolo,
letto l'Ateneo
i festeggia Galileo!
Benedetto l'Indice!
(r. Giusti, Poesie
55. Il brindisi di Girella,
sua.
Girella ( emerito
Ilo merito )
iando a tavola
»r faceto,
la bussola
fabeto;
trincare
ado un brindisi,
sua cronaca
ola re
ci di bocca
strocca:
a arlecchini
sttiui
e piccini;
e maschere
paese
Tornò di moda,
Ligio al Pontefice
E, al mio sovrano ,
Alzai patiboli
Da buon cristiano.
La roba presa
Non fece ostacolo ;
Che, col difendere
Corone e Chiesa,
Kon resi mai
Quel che rubai.
Viva arlecchini
E burattini
E birichini;
Briganti e maschere
D'ogni paese,
nte, i club, i principi e le chiese. Chi processò,chi prese, e chi non rese*
Da tutti qaesti
lezzi onesti
menandomi
vecchio e il nuovo,
i da vivere,
' il covo.
Ite ferma,
dì scrupoli
1 coll'anima •
' di scherma^
a pietanza
Finanza,
a arlecchini
ttini,
Quando ho stampato,
Ho celebrato
£ troni e popoli,
E paci e guerre :
Luigi, l'albero,
Pitt, Robespierre,
Napoleone,
Pio sesto e settimo ;
Morat, Fra Diavolo,
Il re Nasone,
Mosca e Marengo:
E me ne tengo.
Viva arlecchini
E burattini,
£ Ghibeiliiii :
E Gaelfi, e nusehfire .
D'ogni paeaec i. •
Evviva chi aalìy viv ajdù xeSft.
Quando tornò
Lo statu quo ,
Feci baldorie ;
Staccai cavalli ^
Mutai le statue
Sai piedistalli;
£ adagio adagio
Tra r onde e i vortici ,
^u queste tavole
Del gran naufragio,
Gri&ndo evviva »
Chiappai la riva.
Viva arlecchini
E burattini ;
Viva gì' inchini ;
Viva le maschere
D' ogni paese; •
Viva il gergo d*alloray e chi l'intese.
Quando volea
(Che beli' idea!)
Uscito il bccolo
Fuor de' minori
Levar l' incomodo
A' suoi tutori ;
Fruttò il carbone
Caputo vendere
Al cor di Cesare
D'un mio padrone
Titol di re,
E il nastro a me.
Viva arlecchini
E burattini
E pasticcini ;
Viva le maschere
D'ogni paese,
La candela di sego e chi l'accese.
Dal trenta in poi,
A dirla a voi ,
Alzo alle nuvole
liC tre giornate ;
Lodo di Modena
Le spacconate ;
Leggo giornali
Di tutti i generi ;
Piango l' Italia
Co' liberali;
£ se mi torna,
Ne dico corna.
Viva arlecchini
E bontlim
.-i
'l
E il re Chiappini 4) f . - i .
Viva le masdbere ,, ^ «
D' ogni paese, . . : - . j<
La Carta, i tr^ colori e il crtfiif n IcBsa.
Ora sop. vecchio;
Ma coU'orecchip , ,
Per abitudine' .
E per trastullp^ , ,
Certi vocaboli ; r ;.
Pigliando a frullo , ... , . ,
Placidamente < ,.
Qua e là m* esercito ;
E sotto 1* egida ,
Del Presidente
Godo il papato
Di pensionato.
Viva arlecchini
E burattini,
E teste fini ;
Viva le maschere
D' ogni paese ;
Viva chi sa tener l' orecchie tese.
Quante cadute
Si son vedute !
Chi perse il credito,
Chi perse il fiato.
Chi la collottola,
E chi lo stato.
Ma capofitti
Cascaron gli asini :
Noi valentuomini
Siam sempre ritti.
Mangiando i frutti
Del mal di lutti.
Viva arlecchini
E burattini,
E gPindovinl ,*
Viva le maschere
D' ogni paese ;
Viva Brighella che ci fa le spese,
G» Giustìj Poesie*
»6. Il Re Travicello.
Al Re Travicello
Piovuto ai ranocchi
Mi levo il cappello
E piego i ginocchi ; .
Lo predico anch' ia
Cascato da Dìo :
Oh comodo, oh bello
Un Re Travicello l
Calò nel suo regno
Con molto fracasso^
Le teste di legno . ' '*
Fan sempre grati c)iiaJso«
Ma subito tacque,
K al sommo dell'acque
Rimase un coHbello
Il Re Travicello.
Da tutto il pantano
Veduto quel coso :
« È questo il sovrano
Così rumoroso ?
( S' udì gracidare ).
Per farsi fischiare
Far tanto bordello
Un Re Travicello ?
Un tronco piallato
Avrà la corona ?
O Giove ha sbagliato,
Oppur ci minchiona.
Sia dato lo sfratto
AI Re mentecatto;
Si mandi in appello
Il Re Travicello, n
Tacete, tacete,
Lasciate il reame
O bestie che siete,
A un re di legname.
Non tira a pelare,
Vi lascia cantare.
Non apre macello
Un Re Travicello.
Là là per la reggia
Dal vento portato,
Tentenna, galleggia,
£ mai dello Stato
Non pesca nel fondo.
Che scienza di mondo !
Che re di cervello
È un Re Travicello !
Se a caso s*adopra
D' intingere il capo,
Vedete ? di sopra
Lo porta daccapo
La sua leggerezza.
Chiamatelo Altezza,
Che torna a capello
A un Re Travicello.
* Volete il serpente
Che il sonno vi scuota?
Dormite contente
Costì nella mota,
O bestie impotenti:
Per chi non ha denti,
£ fatto a pennella
Un Re Traidoello*
,0 nficrMfO!«aiW) ^2*5
Un popolo fìtm ; . ' • ! n » > . l
Di tante fortwie . . » *
Può farne di meo» t -..i^^.'O
Dei senso comune. '■'• ■
Che popolo ammodo;
Che principe sodo, .
Che santo modella
Un Re Travicello !
G. Giusti) Poesie* "^"^
57. Per reuma d*uneantant9»
V'è tal che mentre canti e in bella guisa
Lodi e monete accatastando vai,
Rammenta i dolci che non torcia iati
Tempi di Pisa,
Quando di notte per la via maestra,
Il Duo teco vociando e la romanza,
Prendea diletto di chiamar la ganza
Alla finestra.
E a lui gli amici concedeano vanto
Di ben temprato orecchio airannonia,
E dalla gola giovinetta uscia
Facile il canto.
Pazzo che almanaccò per farsi nome
Con un libraccio polveroso e vieto.
Lasciando per il suon dell'alfabeto
Crome e biscrome !
Or tu Mida diventi in una notte ;
£ via portato da veloce ruota
Sorridi a lui che lascia nella mrita
Le scarpe rotte :
Ed ei lieto risponde al tuo sorriso,
£ l'antica amistà sente nel seno
Che a te lo ravvicina, a te che almeno
Lo guardi in viso.
Vedi ? passa e calpesta il Galateo
Lindoro, amor d' inverniciate dame,
£ d'elegante anonimo bestiame
Tisico Orfeo. [ ne
^ Eccolo: ognun si scansa, ognun trattie-
L'alito, e schianta ansando dalla tosse;
E creste all'aria e seggiole commosse....
£1 viene, ei viene.
Svenevole s'inoltra e sdolcinato;
Gira, ciarla, s'inchina, e l'occhio pesto
Languidamente volge, e fa il modesto
£.^ svogliato.
Pregato e ripregato ecco sorrìde,
In atto di far grazia ai supplicanti;
I baffi arriccia in su , si tira i guanti,
E poi si asside.
La giovinetta convulsa e sbiadita
Très-bien gorgoglia con sqnarrata voce,
^256 CRESTOMAZIA
Mcntr'ei tartassa il cembalo, e veloce
Mena le dita;
£ nelle orecchie imbriacate muore
Semifranrese lambiccato gergo
Di frollo Adon che le improvvba a tergo
Frizzi d'amore.
Piange intanto il filosofo imbecille,
E dietro l'arte tua chiama sprecato
L'oro che può lo stomaco aggrinzato
Spianare a mille.
Piange di Roma gnosi, che coll'ale
Dell' alto ingegno a tanti andò di sopra,
£ i giorni estremi sostentò coli' opra
D' un manovale.
Pianto sgaa jato,che del mondo Tecchio
In noi l'uggia trapianta e il malumore.
Purché la pancia il cuoco, ed un tenore
C empia 1* orecchio,
Che imporla a. noi del nobile intelletto
Che per Putilé nostro anela e stenta.
Del poeta che bela e ci sgomenta
Con un sonetto ?
Dell'ugola il tesoro e dei registri
Di noi stuccati gli sbadigli appaga:
Torni Dante, tre paoli ; a te, la paga
Di sei ministri.
Signor ! tu ehe alla pecora tosata
Volgi in aprile il mese di gennajo,
£ secondo il mantel tarpi a rovajo
L'ala gelata,.
Salva l'educatrice arte del canto:
A te gridano i palchi e la platea,
Misererei signor, d'una trachea
Che costa tanto.
Anzi del cranio rattrappiti e monelli
Gli organi lascia che non danno pane,
£ la poca virtù che vi rimane
Cali nei bronchi.
S'usa educar, lo so; ma è pur corbello.
Bimbi, chi spende per tenervi a scuola !
Gola e orecchi ci vuole, orécchi e gola;
Péste al cervello.
G, Giustij Poesie.
58. la Chiocciola,
Viva la Chiocciola,
Viva ana bestia
Che unisce il merito
Alla modestia.
Essa all'astronomo
£ all'architetto
Forse nell'animo
Desiò a concetto
POETICA
Del cannocchiale
E delle scale :
Viva la Chiocciola y
Caro animale^
Contenta ai comodi
Che Dio le fece.
Può dirsi il Diogene
Della sua spece.
Per prender aria
Non passa l'uscio^
Nelle abitudini
Del proprio guscio
Sta persuasa
£ non intasa .*
Viva la Chiocciola,
Bestia di casa.
Di cibi estranei
Acre prurito
Svegli uno stomaco
Senza appetito:
Essa, sentendosi
Bene in arnese,
Ha gusto a rodere
Del suo paese
Tranquillamente
V erba nascente :
Viva la Chiocciola,
Bestia astinente.
Nessun procedere
Sa colle buone, .
E più d'un asino
Fa da leone.
Essa, al contrario.
Bestia com' è ,
Tira a proposito
Le corna a afe.
Non fa l'audace
Ma frigge e tace :
Viva la Cliiocciola,
Bestia di pace.
Nat4»ra, varia
Ne' suoi portenti,
La privilegia
Sopra i \iventi,
Perchè (carnefici.
Sentite questa)
Le fa rinascere
Perfin la testa,
Cosa mirabile
Ma indubitabile :
Viva la Chiocciola,
Bestia invidiabile.
Gufi dottissimi
Che predicate
SECOLO DECMO^OrsO
257
E al Tostro simile
Nulla insegnate;
£ voi girovaghi y
Gblatti, scapati y
Pa<ironi idrofobi,
Servi arrembati,
Prego a cantare
li* intercalare:
Viva la Chiocciola,
Bestia esemplare.
G. Givsti, Poesie^
39. La guigliottina a vapore.
Hanno fatto nella China
Una macchina a vapore
Per mandar ìsl guigliottina..
Questa macchina in tre ore
Fa la testa a cento mila
Messi in fila.
LMstru mento ha fatto chiasso,
£ quei preti -han presagito
C,he il paese passo passo
Sarà presto incivilito.
Rimarrà come un babbeo
V £uropeo.
L'Impj^rante è un uomo onesto;
Un po' duro, un pò* tijrato,
Un po*ciuco, . ma d^l resto
Ama i sudditi e lo stato,
£ protegge i belPingegoi
De*suoi regDÌ.
V'era un popolo ribeile
Che pagava a maliacqore
I catasti e le gabelle;
II benigno imperatore
Ha provato in quel paese
Quest'arnese.
La.virtù deiristrumento
Ha frullato una pensione
A quel boja di talento
Col brevetto d'invenzione,
E rha fatto mandarino
Di Pekino.
Grida un frate: oh! bella cosa!
Gli va daio anco il battesimo.
Ah perchè ( dice al Canosa
Un Tiberio in diciottesimo )
Questo genio non m'è nato
Nel dacato!
G. Giusti j Poesie*
^0. La repubblica.
A PIETRO Gì ANNONE.
Non mi pare idea si strana
la repubblica italiana
Una e indivisibile.
Da sentirmene sciupare
Per un tuffo atrabiliare
Il cervello , o il fegato.
Fossi te, certo, confesso
Che il vedermi intorno adesso
Balenare i popoli,
£ sapere affeddeddio!
Che codesto balenio
Significa — vattene,
Io vedrei questa tendenza,
A parlare in confidenza,
Proprio contro stomaco.
Pietro mio, siamo sinceri;
La vedrei mal volentieri
Anche, per esempio,
Se ogni sedici del mese,.
Alla barba del paese
Irottassi a riscuotere.
Non essendo coronato,
Non essendo ^salariato,
Ma pagando Testimo ;
Che mi decimi il sacchetto
O là clamide o il berretto,
Mi par la medesima.
A]|zt, a dirla tale e quale,
Vagtegpiahdo l'ideale
Per vena poetica,
Nella cim.a del pensiero,
Senza farten*^ mistero,
Sento la repubblica.
Ma se poi discendoj all' alto
Dalla sfera deirastratto,
Qui mi casca l'asino.
E gl'inciampi che ci vedo
Non mi svogliano del Credo;
Temo degli Apostoli.
Come! appena stuzzicato
11 moderno apostolato,
l'ietro, ti rannuvoli?
Mi terrai sì scimunito,
Che grettezza di partito
Mi raggrinzi Tanima?
Oh lo so: tu, poverello.
Senza casa, senza tetto,
Soiza rifrigerio ,
Ventott'anni hai tribolato,
Ostinato nel ^»ecc5ilvi
^M
CRRST05IAZU POETICA
Ddl'ainor di patria!
All'amiro, al galantuomo,
Che sbattalo, egro, e noa domo
Sorge di martirio.
Do la tfcrta nelle mani,
E sul capo ai ciarlatani
Trattengo le forbici.
Dunque, via, raggranellate
Queste genti sparpagliate
Tornino in famiglia.
Senza indugio, senza cbiasso,
Ogni spalla il proprio sasso
Porti alla gran fabbrica.
E sia casa, curia, ospizio.
Officina, sodalizio,
Torre e tabernacolo,
£ non sia nuova Babelle,
Che t'arruffi le favelle
Per toccar le nuvole.
Perchè, vedi; avendo testa
Di cercare a mente desta
Popolo per popolo.
Ogni cura in fondo in fondo
Si rannicchia a farsi un mondo
Del suo paesucoio:
£ alla barba del vicino
Tira l'acqua al suo molino
Per amor del prossime*
La concordia, l'eguaglianza.
L'unità, la fratellanza,
Eccetera, eccetera, .
Son discorsi buoni e belli ;
Tre fratelli, tre castelli,
Eccoti ITtalia.
O si svolge in largo amore
Il gomitolo del cuore
(Passa la metafora),
E faremo in c(ftnpagnia
Una tela, che non sia
Quella dì Penelope;
^ diviso e suddivìso
Questo nostro paradiso
Col sistema dllanneman.
Ottocento San Marini
Comporranno i govemini
Dell'Italia in pillole.
Se non credi all'apparenze,
FaVepubbHca Firenze,
E vedrai Peretola.
E cosi spezzato il pane.
Le ganj^sce oltramontane
Mangeranno meglio.
G. Giusti, y^zwi
61. La fiducia in Dio.
.•j
Quasi obliando la corporea aalnu .
Rapita in Quei che volentier perdoaa
Sulle ginocchia il bel corpo abbasdotti •
Soavemente e l' una e V altra palauu "■
Un dolor stanco, una celeste cairn*
Le appar diffusa in tutta la persona) '
IVIa nella fronte che con Dio ragiona. -
Balena P immortai raggio dell' alma: !
E par che dica: — Se ogni dolce fXoA-
M'inganna, e al tempo che sperai sereio '
Fuggir mi sento la vita aifaunnsa.
Signor, fidando, al tuo paterno seno
L' anima mia ricorre, e si riposa
In un affetto che non è terreno.
G. Gtusti, Poesit»
62. All' amica lontana.
Te solitaria pellegrina iilido
Tirreno e la salubre onda ritiene,
E un doloroso grido
Distinto a te per tanto aere non tiene y '
Né il largo amaro pianto
Tergi pietosa a quei che t' ama tanto.
E tu conosci amore, e sai per prova
Che neir assenza dell' obbietto amato
Al cor misero giova
Interrogar di lui tutto il creato.
Oh se gli affanni accheta
Questa di cose simpatia segreta;
Quando la luna in suo candido velo
Ritorna a consolar la notte estiva,
Se volgi gli occhi al cielo,
E un' amorosa lacrima furtiva
Bagna il viso pudico
Per la memoria del lontanò amice:
Queir occulta virtù che ti richiama
Ai dolci e malinconici pensieri,
È di colui che t' ama
Un sospir che per taciti seutieri
Giunge a te, donna mia,
E dell'anima tua trova la via.
Se il venticel con le ggerissioÉ'ala- :
Increspa l'onda che lieve t' accoglie»
E susurrando esala
Intorno a te dei fiori e delle foglie • ' •
Il balsamo, rapito
Lunge ai pomarii dell' opposto lito;
Dirai: Quest'onda che si lagna, e questa
Aere commusso da soave fiato,
\3 \JL ^tW^, >i\\ ^eosier mesto
SECOLO DEOIilONONa
239
kl giovinetto innamorato,
eserta e sgradita
iivìsa con me fngge la TÌta.
indo sali'onda il turbine imperversa
pingendo al lido i flutti amari,
irìtà si versa
impia solitudiae dei mari;
andò da lontano
e i perigli del ceruleo piano,
sa, o cara, che in me rogge sovente
Ile e mille affetti egual procella;
i' aere fremente
> dirada di benigna stella,
10 sereno aspetto
!ca pace air agitato petto. [va,
:h'io, mesto vagando all'Arno in ri-
jarlo e deliro, e veder parmi
persona viva
lover dolcemente a consolarmi:
so alia tua voce
mo petto il cor balza veloce. ^
flebile mi sqona e par che dica
•lenti sospiri: O mio diletto,
(felice amica
intero il peosier, serba l'affetto:
i(» amor la guida,
1 te si consola, in te s'affida,
mi consiglia , e da bugiardi amici
ane speranze a se mi chiama.
;iorni infelici
mi dice, ma d* intatta fama:
perpetuo ragf>io
irerà di tua vita il viaggio,
scio a te stesso, la letizia, il duolo
e l' amor di me nel tuo segreto;
acilo e solo
e dal core ardente irrequieto
interna guerra
-he sola amica hai sulla terra,
la la cara immagine celeste
jeta al pensicr chela saluta,
a Angelo veste
e ricde a sé stessa; e si trasmuta
lereo portento,
ana rosea nuvoletta al vento,
da lunge ricambiar tu puoi
e tue dolcezze e le tue pene:
eti tra noi
cose superne e le terrene:
ensiero unita,
•sì la tua colla mia vita.
, d'uopo ho di le: sovente al vero
sogni io ihi formava inganno:
r occhio il pensiero
Altre sembianze vagheggiar non sanno ;
Ogni più dolce cosa
Fugge l' animo stanco e in (a ^ posa.
Ma così solo nel desio che m' arde
Virtù vien mancò ai sensi e all'intelletto,
£ sconsolate e tarde
Si struggon V ore che sperando affretto:
Ahimè, per mille afi&nni
Già declina il sentier de'miei begli anni!
Forse mentr'io ti chiamo, e tu noi sai,
Giunge la vita afflitta all'ore estreme;
Né ti vedrò più mai,
Né i nostri petti s^4iniranno insieme:
Tu dell' amico intanto
Piangendo leggerai l' ultimo canto*
Se lo spirito infermo e travagliato
Compirà sua giornata innanzi sera.
Non sia dimenticato
II tuo misero amante: una preghiera
Dal labbro mesto e pio
Voli nel tuo dolore innanzi a Dio.
Morremo: e sciolti diquaggiù n'aspetta
Altro amore altra sorte ed altra stella.
Allora, Q mia diletta,
La nostra vita si farà più bella:
Ivi le nostre brame
Paghe saranno di miglior legame.
Di mondo in mondo con sicuri voli
Andran l' alme, di Dio candide figlie,
Negli spazii e nei soli
Numerando di lui le maraviglie ;
£ la mente nell' onda
Dell' eterna armonia sarà gioconda.
G* Giusti, Voeùe»
63. La mia gioventù.
Cor muiidum crea in me. Deus*
(P». 5o.)
Lamento sui fuggiti anni primieri,
Che fecondi di speme Iddio mi dava
£ di ricchi d'amore alti pensieri !
Tra giubili ed affanni io m'agitava
£d incessanti studi e bramosia
Di sollevarmi dalla turba ignava ;
£ spesso dentro al cor parola udia
Che diceami dell'uom sublimi cose,
Tali che d'esser uom iusuperbia.
Pupille aver credca sì generose
li mio intelletto che dovesser tutte
Schiudersi a lui le verità na^icose;
£ di ragion uelle più forlr lutte
Io mi scagliava iiidomit), sognante
Che sempre inda^lti Im\tv\ 't^>Lt\à\ Vtvì^^'^»
"^AO CRESTOMAZIA rOETICA
Quella vita arditissima ed amante Ed ii maggior mio gaudio era allori{oaa'
Di scienza e di gloria e di giustizia In una chiesa io stava, 1 dì beati [ do
Alzarmi impromelteva a gioje sante. Di mia credente infanzia rammentando:
Né sol fremeva delPaltrui nequizia, Que* dì pieni di fede in che insegnati
Ma quando reo me stesso io discopriva. Dal caro mi venian labbro materno
L'ore mi s*avvo]gean d'onta e mestizia. I portenti onde al ciel siamo appellati!
Poi dal perturbamento io risaliva Di nuovo fean di me poscia governo
A proposti elevati ed a preghiere, La incostanza, gli esempi ed il timore
Me concitando carità più viva. Dell'altrui vile e tracotante scherno,
Perocché m'avvedea eh* uom possedere E Tira tua mertai per tanto errore :
Stima non può di 0^ mcdcsmu e pace, ^^à gT indelebili anni che passaro
S'ei non calca del bel le vie sincere. Kitesser non m' è dato, o mio Signore I
Ma allur che fulger più parea la face Presentarti non posso altro riparo
Di mia virtù, vi si niescea repente Che duolo e preci e fé nel divo sangue
D' innato orgoglio il luccicar fiillace. Dì cui non fosli sulla terra avaro
E allor Dio si scostava da mia mcntC; Per chiunque a'tuoi pie pentito langue.
E a gravi rischi mi traea baldanza, S, Pellico^ Poesie.
Ed infelice er'io novellamente.
Se così vissi in lunga titubanza, 64. Giulia — Remanza,
Ond'or vergogno, ahi tu pur sai, mio Dio,
Che tremenda cingeami ostil possanza. . I-a legge è bandi tarla squilla s'è inlesa.
Sfavillante d'ingegno il secol mio, È il dì de'coscritti. — Venuti alla chiesa
Ma da irreligiose ire insanito, Fan cerchio; ed un'urna sta in mezzo di
Parlava audace, ed ascolta vai io. [lor.
E perocché tra' suoi sofismi ordito Son sette i garzoni richiesti al Ccunune;
Pur tralucea qualche pregevol lampo, Son poste nell' urna le sette forlnne ;
Spesso da quelli io mi sentìa irretito, [pò, Ciascun vi s'accosta col tremito in cor.—
Egli, imprecando ogni maligno inciam- Ma tutti d' Italia non son cittadini ?
Sciogliea della ragion laudi stupende, Perchè, se il nemico minaccia aiconBni,
Mainsiem menava di bestemmie vampo. Non vanno bramosi la patria a salvar?—
Ed io, come colui che intento pende Non è più la patria che all' armi gli ap-
Da labbra eloquentissime e divine, Lpella :
E ogni lor detto all'alma gli s'apprende ; Son servi a una gente di strania favella,
Meditando del secol le dottrine. Sottesso le verghe chiamati a stentar.
Inclinava i miei sensi alcuna volta Che vuol questa turba nel tempio sì
Di servii riverenza entro il confine. [ spessa?
Tardi vid'io ch'a indegne colpe avvolta Quest' altra che anela , che all' atrio fa
Era sua sapienza, e vidi tardi [ pressa,
Ch'ei debaccava per superbia stolta. Dolente che V occhio più lunge non va?
Trasvolaron frattanto i dì gagliardi Vuol forse i fratelli strappar dal periglio?
Della mia giovinezza, e sovra mille Aibrandi,aIleronche dar tutti di piglio?
Splendide larve io posto avea gli sguardi; Scacciar lo stranièro? gridar libertà ? —
E nulla oprai che d'alta luce brille ! Aravan sul monte ; sentito han la
E si sprecar fra inani desidèri " [ squilla,
Dell'alma mia bollente le faville ! Soh corsi alla strada, son scesi alla villa,
Lamento sui fuggiti anni primieri Siccome fanciulli traenti al romor.
Che d'eccelse speranze ebbi fecondi Che voglion ? Del giorno raccoglier gli
E di ricchi d'amore alti pensieri ! « [ eventi ,
Masien grazie al Signor che, ne'profondi Attendere ai delti, spiare i lamenti ,
Delirii miei, pur non sorrisi io mai Parlarne il domani senz' ira dolor.
Agl'inimici suoi più furibondi : Masangae,ma vita non è nellor petto?
Sempre, attraverso tutte nebbie, i rai Del giogo tedesco non v'arde il dispetto?
Del VajigeJ mi venian racconsolando; Noi punge vergogna del tanto patir 1
tempre h croce occultamcnU ama\. ^\ida.ttti alfa gleba d^inetti signori,
SECOLO DKCtMONONO 24 1
N'han toUo rcsemplo, ne* trepidi cuori Ncsvia da se ilco1po,c.he al petto gli vien .
Uan detto; Che giova ? siain nati a ser- Bestemmiali feriti. Che gesti! che voci !
[ vir. — La misera guarda, ravvisa i feroci : —
Gli stolti !... Ma i padri ? S* accorau Sou quei che alla vita portò neisuosen
[ pensosi, Ahi ratto dall'ansie del campo abborr
S' inoltran cercando con guardi pietosi [ rilp
Le nuore, le mogli piangenti all'aitar. S' arretra il materno pensiero atterrito.
Su i figli ridesti coli* alba primiera Ricade più assiduo fra 1* ansie del dì.
Si disser beati; chi sa se la sera Più rapido il sangue ne'polsi a leibatte:
Su i sonni de* figli potranno esultar ! — Le schede fatali detrurna son tratte ,
E mentre che il volgo s' avvolta e hi- Qual mai sarà quella che Carlo sorti?
[ sbiglia , Di man de* garzoni le tessere aduna ,
Chi fia quesl* immota che a uiun rasso- Ne scruta un severo la varia fortuna,
[miglia, Determina i sette che l'urna dannò.
Né sai se più sdegno la vinca o pietà? Snsurro più intorno , parola non s'ode ;
Non bassa mai '1 volto , noi chiude nel Ch'ei sorga e li nomi la plebe già gode,
[ velo. Già l'avido orecchio l'insulsa levò.
Non parla, non piange, non guarda che £ Giulia reclina gli attoniti rai
[in cielo, Sul figlio, e lo guarda d' un guardo che
Non scerne,non cura chi intorno le sta.— [mai
É Giulia, è una madre. Due figli ha Con tanto d' amore su lui non ristè.
[ cresciuto Oh angoscia ! Ode un nome ; — non e
Indarno! L' un d'essi già M chiama per- [ quel di Carlo ; —
[duto : Un altro, ed un altro; — non sente chia-
É 1* esul che sempre V è fitto nel cor. [ marlo ; —
Penò trafugato per valli deserte; Rilevan già II quinto; — no, Carlo non e.
Si tolse d'Italia nel dì che l' inerte Proclamano il sesto; — ma è il figlio
Di sé, de'suoi figli fu vista minor. [d'altrui;
Che addio lagrimoso per Giulia fu È un'altra la madre che piange per lui .
[ quello ! Ah! forse fu invano che Giuliatremò.
Ed or si tormenta dell'altro fratello, Com'aura che fresca l* infermo ravviva ,
Che un volger dell'urna rapire gliel può. Soave una voce dal cor le deriva
E Carlo dei sgherri soccorrer le file ! Che grazia il suo prego su in cielo trovò.
Vestirsi la bianca divisa del vile ! [ zò! Le cresce la fede: nel sen la pressura
Fibbiarsi una spada che l' Austro aguz- Le allevia un sospiro; con mcn di paura
Via via, cou l'iugegno delduol la ta- La settima sorte sta Giulia a'd udir.
[ pina L' haji detta; — è il suo figlio : — doman
Travalica il tempo, va incontro indovina [ vergognato ,
Ai raggi d'un giorno che nato non è : Al cenno insolente d' estranio soldato,
Tien dietro a un clangore di trombe Con l'aquila in fronte vedralìo partir.
[ guerriere ; g. Berchet, Poesie.
Fon r orme su un campo ; si abbatte in
i'ischxtTt ^^. Quando nel\%ZOModenaeBoloQna
Che alacri dell'Alpi discendono al pie. levaronsi in armi.
Ed ecco altre insegne con altri guerrieri,
Che sboccano al piano per altri sentieri , Su, figli d'Italia! su in armi! coraggio!
Che il varco ai vegnenti son corsi a tagliar; 11 suolo qui é nostro; del nostro retaggio
Là gridano: Italia! Redimer 1' oppressa! ]1 turpe mercato finisce pei re.
Qui giuran protervi serbarla sommessa : Un pupol diviso per sette destini,
L'un'oste su l'altra sguaina Tacciar. In sette spezzato da sette confini.
Da ritta spronando si slancia un fu- Si fonde in un solo, più servo non è.
[ rente, Su, Italia! su in armi! venuto é iltuodì!
Un sprona da manca ,lo assai col fendente, Dei re congiurati la tresca finì.
Leopardi, Crestomazia» II. V^
242
CRESTOMAZIA POETICA
DalPAIpi allo Stretto fratelli siam
[lutti!
Sui limiti srhiusi, su i troni distrutti
Piantiamo i comuni tre nostri color !
11 verde^ la speme, tanf anni pasciuta ;
.11 rossOf la gioja d'averla compiuta ;
Il bianco, la Ude fraterna d*amor.
Su, Italia! su in armi! venuto è il tuo di!
Dei re congiurati la tresca finì.
Gli orgogli minuti via tutti «ll'obblio!
La gloria è de'forti. — Su forti, per Dio,
Dall* Alpi allo Stretto, da questo a quel
[ n.ar!
Deposte le gare d*un sccol disfatto ,
Confusi in un nome.legatiaunsolpatto,
Sommessi a noi soli giuriam di restar.
Su, Italia! su in armi! venuto è il tuo di!
Dei re congiurati la tresca finì.
Su, Italia novella! su libera ed una !
Mal abbia cbi a vasta, secura fortuna
L'angustia prepone d'anguste città!
Sien tutte le fide d*un solo stendardo!
Su, tutti da tutte! Mal abbia il codardo ,
L'inetto che sogna parzial libertà!
Sa, Italia, su in armi! venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì. [ villa.
Voi chiusi nei borghi , voi sparsi alla
Udite le trombe, udite la squilla
Che all'armi vi chiama del vostro Comun!
Fratelli, a' fratelli correte in ajuto!
Gridate al Tedesco che guarda sparuto:
L'Italia è concorde , non serve a
[nessun.
Su, Italia, su in armi! venuto è il tuo Hi!
De' re congiurati la tresca fini.
G, Berchet, Poesie.
66. Unità e libertà.
Minaccioso l'arcangel di guerra
Già passeggia per l'itala terra :
Lo precede la oellica tromba
Che dal sonno l' Italia svegliò ;
L'Appennino per lungo rimbomba
£ dal Liri va l'eco sul Po.
Tutta l'Italia pare
Rimescolato mare :
E voce va tonando
Per campi e per città :
— Giuriam giuriam sul brando
morte o libertà ! —
La Trinacria che all' ire s'è desta
Mise grido di rauca tempesta ;
le tre punte del Della fér eco ;
Per Ire valli quell' eco muggì ;
Tonò l'Ktiia dal concavo specu ;
Latrò Scilla, Cariddi ruggì.
AU'armn allarme!— è il grido
(he va di lido in lido ;
£ 1' eco replicando
Di lido in lido va :
— Giuriam giuriam sul brand»
morte o libertà ! -*
Qua dall'Alpe che serra Lamagna
Sull'immensa lombarda campagna
Simil grido que' delti ripete ,
Simil eco quell' ire destò :
<) fratelli, sorgete sorgete !
Del riscatto già l'era suonò !
Se il centro ed ambo i lati
Brulirheran d'armati,
Chi affronterà pugnando
V italira unità ?
— Giuriam giuriam sul brando
morte o libertà ! -
Ma qual plauso si leva dal centro !.
0}), qual plauso ! Ne resta là dentro:
Come tuono cui tuono rincalza
balen cui succede balen.
Dai due Iati nel contro rimbalza
E dal centro sui lati rivicn.
Al plauso che più cresce
Queta canzon si mesce,
1 petti infervorando
Di patria carità :
— Giuriam giuriam sul brando
morte o libertà ! —
— Siam fratelli — nel centro risuona:
— Siam fratelli — nei lati rintrona :
£ già questi s' abbraccian con quelli.
Dai tre lati godendo ridir
~ Siam fratelli fratelli fratelli ;
E i confini per tutto sparir !
Ardir, fratelli ! è giunto
Il sospirato punto :
S' ei passa, ah chi sa quando
Di nuovo ei tornerà ?
— Giuriam giuriam sul brando
1> morte o libertà ! —
Questo fuoco che all'alme s'apprf nde
E le invade le scuote le accende^;
Questo fuoco, fratelli, vi sveli
Che terrestre di tempra non è :
Ah, discese dall' ara de' cieli
La scintilla che incendio si fé {
Da queir aitar discese
Che infiamma a sante imprese;
E i cuori infervorando *
SECOF.O
Tutti sclamar ci fa ;
— Giuriam ginriam sul brando
O morte o libertà ! —
Sette siri ci rolman di mali
Pari ai sette peccati mortali ;
Pari ai c?}n dell'idra lernea
Cui d'Alcide la clava mietè,
'l'risti capi d* un' idra più rea ,
Nuovo Alcide lontano non è !
Quanti la patria ha fi<ii
Tanti saran gli Alcidi:
Deh, un giorno memorando
Cangi una lunga età !
— Giuriam giuriam sul brando
O morte o libertà ! —
Ci divise perfìdia e sciagura ,
Ma congiunti ci voile natura.
Alma diva, cui l'Alpe corona
Fra gli amplessi di duplice mar,
Se una lingua sul labbro ti suona.
Un sol culto ti sacri Tallar !
Chi in sette ti partio
Tradì l* idea di Dio,
E il mostro abbomioando
Il fio ne pagherà:
— Giuriam giuriam sul brando
morte o libertà !
Mascherata malizia chercata
T' ha divisa tradita venduta ;
De*tnoi figli fé crudo governo
Queir avara malizia crudel ;
Turpe furia sbucata d*infernO|
Che si disse discesa dal ciel.
S' ella mantenne in vita
Queir idra imbaldanzita,
£ V una e T altra in bando
Da questo suol n* andrà :
— Giuriam giuriam sul brando
O morte o libertà ! —
Cada cada T anfibia potenza
Ch' è di mali feconda semenza :
E la legge del Verbo di Dio
Ch' ella appanna di nebbia d' error,
Radiante del lume natio
Rimariti la mente col cor.
Finche quel servo cullo
Ch' air uom ch'a Dio fa insulto
Dal $ozzo aitar nefando
A Sierra non cadrà,
— Giuriam giuriam sul brando
O morte o libertà ! —
Divo fonte del culto più bello
Che quell'empia converte in flagello;
Tu che inspiri si nobile impresa;
DECIMONONO 2*5
Snudo e spada d'Italia sii tu,
Saldo scudo di giusta difesa,
Forte spada di patria virtù !
Mira una madre oppressa,
Ve' i figli intorno ad essa
Che fremono gridando
Di sdegno e di pietà :
— - Giuriam giuriam sul brando
O morte o libertà ! —
G. Rossetti, Poesie.
67 La battaglia di Navarrino.
( 30 ottobre 1827. )
È caduta! ornai non sogna
Chi servaggio non soiferse;
Dell'Europa la vergogna
È caduta; Iddio la sperse.
Ei pesò del Trace il fato,
E al trionfo inaspettato
I potenti trascinò.
Patteggiando lungo il lito
Si sedean delPempia terra,
E anzi pur che fosse udito
II messaggio della guerra.
Come fòlgor che si scaglia ,
Sospignendo alla battaglia
L'angel suo precipitò.
Ov'è l'oste, u'son le vele
Dell'infido Musulmano?
Ecco, il foco d' Israele
Le divora, e l'oceÀno.
Venga oh venga chi non crede !
Al trionfo della fede,
Di rossor si coprirà.
Tal vantossi, e tal cadeo
Colle ruote e co' destrieri
Faraon nell'Eritreo,
Poi ch'uscirò i prigionieri !
Da quel giorno il ciel cortese
Co'por lenti ognor difese
La ragion di libertà.
Caro al volgo e caro al saggia
Viva il re che ha nosco un Nume ,
Un domestico linguaggio.
Una legge ed un costume;
Isella reggia, in mezzo ai valli
Viva e regni! I suoi vassalli
Non andran co' lacci al pie.
Ma stranier che passa i mari
Per recarti le ritorte,
Che diserta i santuari,
Che dissemina la morte,
Fulminato aifia ritoiuv ^
'ÌU
CRESTOMAZIA POETICI
Ne* suoi barbari soggiorni;
Con lui patto altro non è.
Pace ai Greco! A lui ben ferfe
La virtù |)ateroa in petto;
Dalle indomite caterve
Liberato e dal sospetto,
l'ii risorga, e s' incammini
Ai magnanimi destini,
Onde ugual non ebbe un d'i .
Giiià torreggia, e appar sicura
I/alma croce trionfante
Sili navigli e sulle mura.
Scendi, o madre palpitante,
DalPinospita montagna:
li terror della campagna
Come turbine sparì.
Scendi scendi! L^armi e l'ossa
Del figliuoi che amasti tanto
Tu> componi nella fossa
Con man ferma e senza pianto.
Per lui sciolte dal tiranno
Le donzelle ìnvidieranno
Al solenne tuo dolor.
Oh perchè dell*anglo Bardo,
Perchè mai la lingua è muta?
Ma lo spirto del gagliardo
Erra intorno, e voi saluta ,
Voi beate anime caste,
Che sull'ara v'immolaste
Delia patria e dcll'onor.
Allo sdegno inusitato,
Al fragor delle percosse ,
Dai letargo sconsigliato
Tutta Europa si riscosse.
Dio fé il resto; i suoi voleri
Forsennato l'uom che speri
D'un istante ritardar!
Più pietoso che guerriero
Perdonare osò la vita
D'Israello il Condottiero
Al dannato Amalccita :
La corona dalla fronte
Dio strappògli, e sovra il monte
Le giltò sul proprio acciar.
G. Borghi, Pocijc.
68. Il mio abito.
Mio pover abito,
Mio dolce amico,
È ver, sei lacero,
È viir, se' antico ;
Ma t'ebbi al prospero
'iVmpo, ed al rio,
Indivisibile
Compagno mio ;
E, di te memore,
T'amo, e non posso.
Mio pover abito ,
Trarli di dosso.
Quei che volubili
Seguon l' usanza.
Vengano, e ammirino
La mia costanza.
10 son per pratica
Pur troppo ! istrutto
Che in questo secolo
L'abito è tutto.
Vedi quel nobile
Che tieu cucito
Un nastro serico
Sopra il vestito ?
Se togli l' abito.
Alle maniere
Chi può distìnguerlo
Per cavaliere ?
Dov'è la grazia,
La cortesia,
Dove il magnanimo
Tenor di pria ? . • .
11 volgo ignobile,
( Lo credereste ? )
S* umilia, inchinasi,
A chi? a una veste. .
mia carissima
Veste, non mai
Per fasto inutile
Io ti portai ,
Ne mai per debiti
Fosti tirata.
Poiché, sci lacera,
Ma t'ho pagata
Col frutto lecito
De* miei sudori ;
Che un' alma nobile
Non vende amori ;
Però la solita
Sorte non ha
Di quei che trovano
Chi glie ne fa.
Qui dove l'abito
Si sovrappone
Presso allo stomaco ,
Manca un bottone ;
Di dicci, ch'erano,
Bimangon nove :
É il vostro numero,
Figlie di Giove l
SE(X)LO
D*argenlo cupida
Spesso la mano
Porto alle misere
Tasche, ma invano ; .
Pur questo deficit
^on mi dà pena,
Anzi più m* eccita
L'attica vena . . .
Dunque , mio lacero
Abito antico.
Mio fedelissimo
Compagno e amico. . .
Soave ed unica
Cagif>n tu sei
De*felicissimi
Contenti miei.
Per le m* è il vivere
Giocondo e caro,
Poiché a conoscere
Gii uomini imparo.
Quando eri celebre
Per l'elegante
Gusto, nel frivolo
Mondo galante,
£ avevi il merito
Dell'esser bello.
Tutti si tolsero
A me il cappello ;
Per le anticamere,
Dovunque andassi,
M' udia ripetere :
« Oh passi ! passi ! «
Meco parlarono
I gran signori,
Ebbi il lusirissimo
Dai servitori ;
Caro alle femmine
Vissi, ma oimè
Gli onor, le grazie
Veniano a te !
\^. or che non ecciti
Facil diletto
Con quel tuo squallido
Informe aspetto,
Al bailo, al circolo
M' odo intonare :
« Con cotest' abito
I^on può passare. »
£ se a far visita
Vado a taluno.
Mi fa rispondere :
« Non e' è nessuno. »
Ciascuno evitami,
Che teme, ah scaltro !
DECIMCNONO
245
eh' io chiegga imprestit
Per farne un altro.
Mio pover abito,
Or vedi, se
Gli onor, le grazie
Veniano a te !
Pur leco il vivere
M'è grato e caro,
Poiché a conoscere
Gli uomini imparo.
Péra l'inutile
Fasto, uè s'oda
Più dai fanatici
Vantar la moda.
Funesta origine
D'ozio e di noja. '
Fra spoglie misere
Vive la gioja.
ji, GuadagnoU, Poesie.
69. Il tabacco.
[bacco
— Prende tabacco? — No: grazie. — Pcr-
Pare impo<isibil con cotesto naso
Non avvezzarsi a prudere il tabacco ;
E fin vergogna! — Ne so» persuaso.
Ma mi par porcheria; che ci vuol fare?
Non mi ci son potuto abitu ire.
— Pi)rf heria? ma che dice? e crede lei
Che se fosse il tabaucco porcheria,
Prenderlo io stesso, e offrirglielo vorrei
In un secolo lutto pulizia ?
E ne verrebber tante provvisioni,
E sparirebber tanti francesconi?...
Sicuro, qualche vecchio tabaccone
E naso e vesti se ne imbratta spesso:
Ma non ne vien da ciò la deduzione
Che il tabacco sia sporro per sé stessO";
Si sa : quando si prende, non conviene
Tirarlo su alla diavola, ma bene...
Giunto il tabacco in Francia a Caterina,
Erba della regina fu chiamato,
Né chiamato l'avrian della regina,
Se veramente egli nou fosse stato
Un'erba preziosa, un'erba buona.
Un'erba degna di real persona.
Esso eccitando i tremuli starnuti.
Forse non troverà chi non soggiunga;
—Viva ! Una bella sposa ! Iddio l'ajuli!
Salute, borsa piena e vita lunga!
Felicità e zecchini! Un figliuol maschio!...
A dispello di quelli che ci hann'aschio. — <
Né contro il sonno credo che vi sia
Brezzo più pronto^ autld<\Vi vsxx^^w^
246 CRESTOMAZIA POETICA
Dormire a un accademia di poesia, Pel molto olio volali! che contiene ;
Alla lezion di qualche profossore, Ma i benefui nostri appaltatori [ bene,
Diavol ! sarebbe troppa inciviltà; Han pensato anche a questo, e han fatto
Prenda tabacco, e il sonno se ne va... K per lilanlropia, non per guadagno,
1 destinati al pubblico servizio Vi mischiano le foglie di castagno.
Di dormir troppo ancor si diieitavano; Già, in quant*a me, mi pare idea fan-
Andavan dopo l'undici air uffizio II dire che il tabacco sia nocivo: [tastica
Facendo taroccar quei che aspettavano; O fra i Tedeschi dunque non si mastica ?
Ma adesso cdH quest'utile ripiego, Pur, grazie al cielo,ogni Tedesco è vivo;
Servono meglio al pubblico eall'impiego. K se fra noi qualcuno ha il petto fiacco,
Dacché preoduu tabacco gli avvocati, Vedrà che non dipende dal tabacco...
£ quei che assisi stan prò tribunali, Il sigaro è una dolce compagnia
Si veggono in un attimo sbrigati Quando slam soli; esilara il cervello,
£ gli affari civili e i criminali; Serve a far degli amici, a cacciar via
Ma prima era un orror ! dormivan essi, H tristo umore... eh! se noi fosse quel-
£ face van dormire anco i processi... Colla miseria in che ci ritroviamo, (lo,
Dormiva Italia... —Per Pamordidio, ^ì ! si starebbe allegri come stiamo !
Non si faccia sentire in carità, Alto ! da bravo, via, signor dottore,
Se no, siam rovinati lei ed io. — Si ripenta, mi creda in verità,
£ come ho a dir ? — Dica il paese là Che nel mondo non c*c cosa migliore,
Che Apeunin parte e il mar circonda e Cosa più salutare del labà... —
[ l*Alpe: Ma qui un nodo di tosse gli fé intoppo:
E allor che vuol che intendan quelle tal- ^osì succede a chi discorre troppo.
Il fumo non decide del signore: [ pe? J. GuadagnoU, Poesie.
L'altra età non pensava come questa;
Allor « giadicava il professore 70. Manfredi Re.
JUaUa parrucca che portava m testa; '
Adesso poi, parrucca o non parrucca, [ fore
Chi nasce zucca, sarà sempre zucca. Quantunque volte con la mente e '1
Ami il signor la patria e 1 suoifratelli; Torno a quella robusta e verde etade
Segua virtù, né altrui si venda mai; Di cortesia fiorita e di valore
Somministri lavoro ai poverelli, . Quando prime in onor s'avean le spade,
Né la mercè ritardi agli operai; Sempre innanzi mi corre quel signore
Abbia un legno di men, ma dotta prole , Che *1 freno ebbedi nostre alme contrade:
Sia galani uomo j e fumi quanto vuole. De rincliti e real Manfredi io dico
Si sa: cambian coi secoli i costumi. Prode ne Tarmi e de le muse amirO. '
Quell'altro tutto fuoco, lutto ardore; Biondo era e bello e di gentile aspetto
Questo può dirsi il secolo dei fumi , Come *1 canta 1* altissimo poeta.
Il secol delle macchine a vapore; Di cacce e d'armeggiar prendea diletto :
E il mille novecento, chi lo sa Di suoni e versi avea corte ognor lieta.
Che dlavol di secdo sarà !... Ma sue legcji di là 've in piccol letto
Un sigaretto in bocca, a parer mio, Strependo Aufido al mar d' Adria s' ac-
Dà una cercaria franca e disinvolta, Peano al di dentro i popoli felici, [queta
Quell'aria di « Guardatemi son io ! » E spavento al di fuor Tarme a'nemici.
Che annunzia sempre una persona sciolta; A qual gloria non sorge un popol che
Come la pipa, viceversa, dà C c^"*
Un'aria di pesata gravità. Da'cieli un re magnanimo e cortese,
Di libri, stampe; ma d'avere ha smania
nyi/*i.fk>n> J * «k irk I tir».» .. wii no ili t-L»ìfrìr\'%nt9
Bocchini d'ambra e pipe di Germania. Strinse saldo lo scettro, e tenne impero
^o cht il sigaro vietano l dolloù Btai^ao a'suoi ed a' uè mìci fiero ?
SECOLO DEGIMONONO . 247
Tal fu Manfredi: il qual render felice Un disio di fruir le cose belle,
Volea, non che il suo regno, Italia tutta. E non visto Cupido avvien che scocchi
Perchè spegner cercò ne la radice Dardi da un bianco sen, dadae begli oc>
Do* Guelfi il seme che Taveaa ridutta [chi.
In si torbido stato ed infelice Da la Daunia Manfredi era torAato
Per la continua saii;;uiaosa lutta Ne la bella Peucezia a le marine:
Contra i feroci de l'Aquila artigli, Poi ch'ebbe il fosco tempo ìyì passato
Che serva ell'era omai de'proprii figli. Che cuopre *1 suol di nevi e di proine,
Sonava il nome riverito e caro Or andando a falcon, com'era usato
Del figliuol del secondo Federico: Co' suoi baroni, ed or cacciando. Al fine
Che 'i ciel non fugli de'suoi doni avaro In Barletta il bel tempo si godea:
Di quanti al padre ne conresse amico. ì^é men saggio a regnar quindi attendea.
E simigliauii 'n tutto ambi provaro Siede Barletta de la Puglia amena
Destino in pria secondo in bn nemico: Sul lito umil cui bagna Adria iracondo.
Deslin che a lui vietò seguir l'ardita Fiorente allor città di merci piena.
Impresa di far sua l'esperia unita. Signoreggiava ampio terren fecondo:
Pur menlr'ei visse a' ceuui ubbidiente Con un castello che a nemica piena
Kbbe Toscana tutta e Lombardia. Slette incontro e ad assalto furibondo:
Che a quei dui ghibellin sangue valente De' tre famosi bello e forte arnese
Ciitadi e rocche avea poste in balia. Posti a guardia de l'italo paese»
Perché volesti, o buon pastor Clemente, Quivi '1 giovine re corte bandita
Piantare in questo suol nuova genia Tenea di dame e cavalieri ornata.
'Che non fosse de l'alta e sauta Chiesa £ di giochi e di cosa altra gradita
Men sconoscente, e le arrecasse offesa ? Allegrava ogni dì quella brigata.'
Sempre, il mal eh* or ci preme è '1 più Né la facea men nobile e fiorita
L gravoso: L'eletta gente a festeggiar chiamata
Il qual rimasso, tosto ci dogliamo Da' circostanti luoghi, e ancor la molta
D'un altro: e questo insoffribil nojoso Che da longinque ville eravi accolta.
Assai più che '1 passato giudichiamo. Amor che a voglia sua l'alte cervici
Così la vita senz'altro riposo Sotto ad un giogo a le più amili aggua-
Ma' che di vota speme trapassiamo. ( gin?
£ '1 più sovente quereliamo il fato Amor contro a le cui saette altrici
Di ciò che glierror nostri han cagionato. Non può forza di scudo o piastra o ma-
Ma qui non giova ricantar le antiche Amor che poi ne'cor'gittò radici [ glia ;
Nenie, e non richiamar d'infermo is)gni. Ferme, non è che a dibarbarle uom ra-
Altri sia che le belliche fatiche [ glia;
Di quest'eccelso re cantare agogni. Amor che pur sovente a lunga fede ,
Altri le stelle al suo ben far uimiche Pogniam che tarda sìa, dona mercede;
£ a la salute italica rampogni. Là nel mezzo spiegata avea l'insegna
Altri le sue di pace opre uon meno Vittoriosa, e gir non cura altrove.
Memorande d'oblio trar voglia appieno. Che là del tutto consumar disegna
Di queste una scegliendo io frale tante Alcuna de le sue leggiadre prore.
Narrar qui divisai: la qual pur sola la quella corte generosa e degna
Anche a far pre-^io a l'altre fìa bastante, Fra' primi avvien che un damigella e*
Quantunque la sua fama poco vola. C trove
}*erchè non vate né scrittor prestante, Chiaro per sangue e per viltà guerriera.
Ma solo un magro autor ne fé parola. Figliuol del Conte di Molise egli era.
Di giustizia uu esempio alto e pietoso Giovin bello del corpo ed ajutante
Ella contiene, e forse a molti ascoso. Sopra ciascun de l'età sua splendea.
Era già 'l tempo che zeffiro surge Ghinolfo era nomato: e lira le tante
Didce ad aprir le frondi tenerelle. Rivolte di fortuna e buona e rea,
Ogni cosa creata d'amor turge: Senza mutar pur d'animo un istaat e
£ tutto '1 mondo par si riunovelle. Sempre il suo prenze seguitato a^ea,
1 giovenili petti infiamma ed urge Che uel grado maggior tenealo la corle. .
248 CRESTOMAZIA POETICA
DrUto a l'opre sue più che a la sorte. Che di tutfàltra cosa abbia talen(<y^
Costui sul bel principio del mattino. Verso del loco avventuroso in cui
Per Io paro piacer de la fresc'ora, Credea che si celasse il suo contento.
Scendea soletto in un vago giardino Poscia intorno le man*movendo e'I canto,
Che allato a la sua camera dimora, Furtivamente pur l'i guarda intanto.
Ov'udia de gli uccelli il mattutino £ traeodosi pressoa quelle mura,
Canto che le gentili alme innamora. Siccome spensierato e a caso errando,
£ 'n qua in là sceglieva fior da fiore, Vennegli vista la gentil figura
Sé dilettando, e cantava d*amore. Nel volgersi eh* e' fece il capo aliando:
A quella voce spesso si destava La qual cheta di retro a l'apertura
Dal sonno un^amorosa giovinetta De la finestra lui stava mirando.
La cui magion su quel giardin guardava: £ già tutta sorpresa e stupefatta
£ scinta e scalia ad una finestretta Non Ardì 'n dietro ritrarsi sì ratta,
Che avea socchiusa pian pian sVcostava. Ch'e* non giuguesse a scorgerla nel tìso.
Sì ad ascoltar poneasi semplicetta: [va: La vide, e fiamma subita gli corse
Non sappiendo qual laccio amor le ordì- Per le midolle; e un tremito improviso
Onde miracoltìa se campi viva, [attenta L'assalse. Il miser di sé stesso in forse
Or mentre che un mattin sospesa e Altro suon non poteo formar preciso
Accogliea quelle note la donzella, Che d'un rotto ohimè : lo qual sì morse
Volle ancor la sua vista far contenta L'anima a la fanciulla sbigottita.
De la persona ond'uscia la favella. Che non iiivan fu quella voce udita.
Sì che con mano timidetta tenta Tripudiava l'arcier frodolente.
Pur disiosa aprir la finestrella: Ma forse non saria da quella impresa
Ma non sì che '1 romor non fosse udito Ben riescilo, se malignamente
Dal cavalier, che incontanente ardito, Lei non facea pur del suo foco accesa.
Levando il volto, e colà riguardando £ ben la colse sprovvedutamente,
Onde gli parve il suono esser venuto, Che tempo non avea da far difesa.
Disparir vide un raggio balenando Dopo lun{;o indugiar que* si partia
Sì tosto che ne gli occhi ebbel feruto. Lasso: e 'ndietro si «olge tuttavia.
£ '1 nuovo sol che percotea raggiando £ come giunto fu a le stanze, il frena
P' incontro a quell'albergo sconosciuto Allenta al duolo: e in su *1 letto si poae
Di lei scontrossi 'n le fuggenti ciglia , Gemebondo riverso: e del veneno
£ a lui doppiò stupore e maraviglia. Si pasce che a suo cibo amor compone.
Tal che sentiasi 'n petto un inquieto Poi furioso sorge in un baleno:
Spiritello aggirarsi e torgli pace. £ di tentar la sorte alfin dispone.
Né discerner potea bene il segreto A sé chiama un suo fante, e gli divisa
Principio che da se diverso il face. U loro e ciò che far deggia e'n qual guisa.
Spesso dicea: perchè non son più lieto Un omicciuol costui scaltro e fattivo
Qual mi solia, ne più sì pronto e audace? £ra, e di lingua e di maniere scorto ,
Parmi che lo mio cor cerca e disia Di pel rossetto, e d'occhio tondo e vivo:
Pur nuova cosa, e non sa dir qual sia. Ma fido al suo padron; segreto e accorto.
£ la finestra tornavagli a mente Or veggendoi così di pace privo,
£ 'l balen di quel raggio che disparve, Promise ritornargliela di corto:
!Non men chiaro che 'l sol, subilamen- £lo conforta con dolce parola:
C te, A spedir la bisogna indi sen vola.
Onde vinto e abbagliato restar parve.
Però deliberato ha di presente
£splorar se veraci, ovver di larve. Ben lieve cosa è 'l parlar di virtute,
Sien ie splendenti imnagini vedute Ma l'oprarla è dì potili eletti spitti.
Da cui pender credea la sua salute. Quanti son che si metton di salute
Continuando adunque il gTr costai Nel cammin? ma qual sia ciascun sa dirti.
Nel bel giardin, faceasi lento lento Le giovinette forze eombattate
SoU'occhìo ad osservar, come colui Intanto da pensier'feroci ed irti
SECOLO DECMONONO 219
Sfancbe cadcaoo alfine in tal languore Del vecchio padre e del fratello in cura
Che agevol fu d'opprimerle ad amore: lUmasa da che i fati le fur presti
Al manigoldo amor che le si mise A tor la genitrice, ed era in fasce,
]^el petto poiché a contemplar dielleagio Non sazia, e del su* amor solo si pasce.
G)lui che d* un sospiro la conquise ; Mutato era già *i Tolto de la terra.
Onde da quel dì in poi sempre a disagio Già fuor de la sonante atra spelonca
^'isse: né più donnescamente rise, ] tempestosi venti l£olo disserra:
!Nè trastullossi; che quel dio malvagio ^è i rami sol, ma i vecchi arbori tronca.
i>i sua misera vita in man s'avea Minaccioso e fremente il m^r fa guerra
Tolto *1 governo, e a suo grado il reggea. A^miser' legni con la prora adonca.
Né posa anco trovar può su le piume Sì che opportuna scusa al cavaliero
Il garzon se le voglie non appaghe, Da ricoprir s'offerse il mal pensiero.
Le voglie ond^è che tutto si consume, Succeduta al tepor gli era la noja:
Fuggito il sonno da le luci vaghe. L'ore al giunger tardate emen frequenti.
Però seguendo il giovenil co.«tume, Non più le usate feste, non la gioja:
Lenir cantando le amorose piaghe ; Spesso silenzio o vaghi e rotti accenti.
Nel fitto de la notte allor cne tace Ora il tempo incolpando che sì '1 noja,
La terra e '1 cielo,egli animali han pace: Or del prenze il servigio e casi urgenti.
Sotto mutale vesti, afflitto e stanco , Tutto licito insomma e buono e' tiene
Nel suo cape portando un cappelletto Se fuor di quello 'mpaccio uscir gli av-
i^ui nero sorge pennuncel da un fianco^ [ viene.
( on bruno mantellin sopra farsetto Alfin deposta ogni vergogna, bada
Bruno, e d'aurea catena al lato mauro Sol come adombri meglio il tradimento.
Pendente un ben forbito pugnaletto. Finge che'! re gl'impouga altrove e'vada
Venia a le mura ove l'amata stava, Ad eseguir un suo comandamento.
£ s'un liuto così le cantava: £ '1 vegnente mattin si pone in strada
Tu dormi, anima mia, sonni conlenti Con pochi fidi, e 'n vista par scontento.
£d io grido a le stelle e a la fortuna. Ma quella notte a casa fa ritorno:
Grido ad amor che fé miei dì ridenti £ celato si tien quivi alcun giorno.
Più foschi assai di questa notte bruna. (he fa Hosella intanto? occulta geme,
Deh! se ti svegli, o bella, a'miei lamenti, £ di lagrime bagua il viso e '1 petto:
£ n'hai nel cor gentil pielate alcuna, Poiché vede co' dì fuggir la speme,
Di'almen: pace sia teco, omio fedele: Pure aspettando indarno il suo diletto.
Che '1 fato è contra, e non sun io crude- D'esser tradita e discoperta insieme
£ come quella voce alta ed arguta [le. A\ cor le piomba gelido sospetto.
Feria le stelle per Paer sereno. Scorso un mese era al termine prescrìtto,
Sì gli amorosi strarcon punta acuta Né nuove ode, uè messo appar uè scritto.
Pungeano a la fanciulla ildobil seno. Così la rodopea Fille da i mari
Sitonii 'nvan chiamò Demofoonle,
Dcmofoonte a'mal lasciati lari.
£ppur lunga stagion durò quel gioco, Così di pianto avea perenne fonte
Tanto che a intiepidir cominciò il foco. La Dauliade colpando i fati avari
In Rosella non già, che vie più accesa Ch'ebbe in Itilo suo le man' sì pronte.
Ne la fiamma faccasi d'amore. £ mentre in altra forma assisa a un ramo
Siccome a verginella avvien che presa Lamenta. altrui fa mesto al suo richiamo.
Sia semplicetta e 'ncauta al primo amore. E a chi gli aifauni disfogar segreti
Ben a Gbinolfo omai quel!' arte pesa. La sconsolata giovine potria ?
Che a lui non venne sconosciuto amore. Anzi i'e forza di continuo vieti
Provatol non che visto più lìate A le spontanee lagrime la via\
Avea lo in mezzo a splendide brigate. £ riprema nel cor de gl'inquieti
Ma colei che solinga vita oscura Spirti ta ribollente gagliardia.
In privata magion vivea, d'onesti Simula intanto sé de la persona
Parenti nata, cui fatai ventura Inferma, e la stagion rea ne accagiona.
Volti ave' in basso a dì torbi ed infesti; . . . . « <> ^ '^
250 CRRSTOMAZrA POETICA
Ed amorosamente li solIcTa.
A*bianchi gigli a le vermiglie rose Poi cou augusto insieme e lieto piglio
Del bel volto seren fea mesto velo Benigno sorridendo lor diceva:
Pallideixa mortale,- e le amorose Di questo dolor vostro io maraviglio,
Luci d'onde a vibrar l'ardente telo Ch'anzi festa e allegreua esser doveva.
L'insidioso arcier cheto si posi*, Però che 'i ciel sì a la fanciulla arrì% ,
Spente parean due stelle in fosco cielo. Ch'oggi é fatta contessa di Molise.
Magrezza avea le delicate membra . . ...
G>nsunte, e tal che lana ignuda sembra. Itene lieti: e 'n pochi dì compiute
Ne piange il miser padre e seco il frale: Fieno le spoosalizie e belle e spante.
£ procacciarle invan cercan conforto, £ per farle di tutto provvedute
Non pur di medicine, che tentate Vo' che sieu celebrate a me davante.
L'avea '1 fisico tutte, e n'ha sconforto, Buon vecchio, le tue lagrime virtnte
Ma quanto suggerir può la pielate Avicno d'ammollir pur l'adamante.
S'adopra: e di condurla anche a diporto Ma non era mestier qui di cordoglio:
A una villetta lor prendon consiglio: Già scritto il cielo avea questo ch'io vo-
Niega ella: e non si turba al suo periglio. [ glio.
Qual viator se d' improvviso il coglie
A mezza via bufera atra e rubesta.
Solo refugio , e quale il ciel ne addita Sotto uu abete o un frassino s'accoglie
Che grinfelici mai non abbandona. Pudendo da la grandin eh '1 tempesta:
iSolo refugio, anzi non dubbia aita Ma la strisciante folgor ne '1 distoglie
Sperar lice in colui che di corona £ a terra il getta che ammortito e' resta:
Porta la sacra fronte redimita Poi dopo lungo spazio rinvenulo
£ 'n man lo scettro; non ch'ogni persona Non sa se vive, e guarda intorno muto:
Da se allontani, ma per chiamar tutti Tal di se fuora e stupidi costoro
A gustar di sue leggi i dolci frutti. Rimaser dopo tai parole udite.
A lui dunque si vada , a lui si esponga Piuttosto crederian gli orecchi loro
Il lagrimevoi caso, e certi siamo Falsi, e chele lor menti sbigottite
Che per tornarne paghi non bisogna D'un tanto re de la presenzia foro;
Con multo lamentar ne '1 supplichiamo. Che trasmutarsi in sì benigna e mite
. ..... Fortuna che gli aveva a tal menali
Le scale insieme l'uno l'altro scende: D'esser d'ogni conforto disperati.
Ma pria 'n segno del duol che li marti ra E toltisi commiato reverenti,
Mutar le vesti in luttuose ed adre. Non so dir se nel cor giojosi o mesti.
Andava il figlio da sinistra al padre. Ma arcano i volti non del tutto spenti
Con gli acchi afflitti e bassi e 'I capo D'allegrezza, tornarsi a casa presti.
[ chino, Rosella non appar, che l'ire ardenti
Con un largo cappello che la faccia Teme M su'aspetto nei fra tei non desti;
Mezza ascondeva giù scendendo sino II padre pur che di vederla brama
Sopra le ciglia, e con giunte le braccia, Con voce affettuosa la richiama.
Pietosamente seguoa lor cammino Io non dirò ( che con asciutte ciglia
Senza arrestarsi per parlar ch'uom faccia. Noi potrei ) quanto allor fra quelli av-
Li guardan tutti, e cere-ansi ammirali [ venne.
Qual cagion li fa gir sì umiliali. Certo è che U caso a nuU'altro somiglia-
In questo strano e inusitato arnese Ma pur la calma al turbine sorvenae:
Giunti a la reggia, supplici parlaro La qual d'aspettar tempo lor consiglia*
Che al buon re piaccia d' ascollar cortese Non posa il re« né quivi si ritenne:
D'una slrulta famiglia il caso amaro. P<^r Gliinolfo lontano e' manda inquella.
Come il volto real fu lor palese, E poi fu giunto così gli favella:
Con le ginocchia a terra si lasciaro Merla scusa un error se a quel succede
Ambo cadere, e a lui mercè gridando Tosto spontanea e genero^ ammenda.
Màoifestaro il fatto miserando. Tu tradisti una vergiae con fede
Qufil magnanimo re die lor di i^V^ViO) S|er$iaca: è uopo X* L'oAoc U renda.
SKCOLO DFjCIMONONO 251
Da te farlo dovevi; or che procede Di corte, ed altri de*viciai lochi
Altramente la cosa, e vuoi che splenda Fero i conviti sontuosi e interi.
La mia giustizia, tu la sposerai, 1 vati dai cantar divenner fiochi,
U che 'n perpetuo carcere morrai. Laudando or gli amorosi ora i guerrieri
Brevi fur le parole: ma di forza Fatti: né ccssan di sonar che ognuno
Tanta, che quei non osa ridir verho. Di que' fregi adunava in se solano.
E per temenza di celar si sforza Questi era il liberal Tin vitto il saggio
11 contrasto de Tanimo superbo^ 11 gentile il bellissimo Manfredi.
Per prova e' conoscea ch'oltre la scorza Né mentiva il poetico linguaggio
Ilo saria quel favellare acerbo: Come suol per timore o per mercedi.
Ma Torgoglio e la boria del suo nome Schietto era il canto , e non coverto ot-
Mal consenton piegarsi a quelle some. [ traggio
Né il padre suo , fra quanti a quei di A chi non co gli orecchi anzi co'piedi
Eran baroni il più potente e forte, [fieri L'ascolta, e pazzamente a sé dovuto
Accomodato avria gli spirti alteri II crede <'d a' suoi meriti tributo»
D'umiliarsi a così bassa sorte. Godean le damigelle rubiconde ,
I^'ebbe avviso da) figlio : e* suoi pensieri A gli altrui plausi, ancor che ritrosette,
L'arsero si che minacciando forte 1 lor mescendo: e si n'avean ben onde.
Vuol ch'ogni avere a rìschio pria si pogna leggendo di sé far belle vendette.
E vita, che soffrir tanta vergogna. La città tutta di grida gioconde
Onde scrive al figliuolo e gli comanda Sonava d'ogni canto: e benedette
Che al padre non al re deggia ubbidire: Erano le virtù d'un re sì grande [de.
Che rifiuti quel patto: a una dimanda Che forte e giusto ovunque il nomespan-
D'oltraggio è da vigliacco acconsentire. Sola Rosella ancor modesta e queia
Se può con arte e con oro che spanda In tanto gaudio stava: e le sue chiare
Ad altre nozze far colei venire, Luci abbassa e le volge mansueta,
Gli apre i tesori suoi; ma se fìa vano Se confortando de l'altrui parlare.
Pur ciò, se la vedria con l'arme in mano. E già ricominciato avea la lieta
Ma il re che tardar vedevC con pretesti Guancia di fresche rose a rinfiorare.
Quasi 'n non cale 1 suoi precetti porre, E fratutlesplendea l'altre donzelle
Come quelli cui nulla è che l'arresti , Qual luna in mezzo a le minori stelle.
Fa rinchiuder (ìhinolfo entro una torre: Di persona era grande e ben formata ,
E inflessibile impon tanto vi resti Gli occhi amorosi avea, volto gentile,
Che si voglia del suo debito sciorre. i^a bocca soavissima rosata,
Al padre poi fa intender che vcdrallo Lunghe e distese braccia e non sottile.
Tosto venir del suo stato a spoglialo. Terse le spalle, e l'anca rilevata.
Al suon de la minacciala l'apparecchio Con grato portamento e signorile:
De gli armati che già mettonsi 'n via , E tutta bella sì che 'n quel paese
Al ricordar più d'uno ancnr non vecchio Hù vaga altra non fu né più cortese.
Esempio di chi 'n van sua gagliardia II caro padre ed il fratel piangea
Provato avea, mirò come a uno specchio Non più d'affanno ma di gioja onesta.
L'ostinazion feroce ove il trarria. In mezzo de'due sposi '1 re sedoa.
Teme mentre persiste: e lascia solo Crescendo il pregio de la bella festa.
Tacendo che da sé faccia il figliuolo. Ghinolfo in vista contento parca
11 qual già con la mente impaurita Quivi obbliando o^ni cura molesta.
De la fiera immancabile ruina E 'n mirar le bellezze di Rosella
Di suacasa ed assai più de la vita. Pur s'accendeva di fiamma novella.
(;on umil prece il suo monarca inchina O quante volte fra sé stesso disse:
A creder che con l'anima pentita Sciocco er'io di lasciar questo tesoro
Sia apparecchiato a ciò che gli destina. Perchè altri ne godesse: e pur s'afilUsse
T^on più 'l prenze egli allora, ma l'amico Pensando che a lei die tanto martoro.
Rivide, e rionovossi il nodo antico. Sempre costante amolla in fin che visse.
Furon le nozze orrevolmente in pochi E a t^trda età fur noti gli araor'loco.
Dì celebrate : e dame e caTalieci Ma più del saggio re fu ceUhcaSaL .
252 CRESTOMAZIA POETCA
La giustizin, la qual non fia obbliata, Unico veglia infaticato Amore,
Se queste rozze e mal composte rime Onde procede il tuo lume romito'
Virtute avran di fare al tempo fronte, £ la rota de l'ordine infinito.
Al tempo che di buja notte opprime Al dì che gli occhi apersi
Spesso l'opre ancor degne d'esser conte. E conobbi la terra e disdegnai,
Pur se alcun de'gentili che a le cime Da voi, limpide stelle, amor mi rise ;
Poggian di Pindo e beono al sacro fonte, Vostri i primi sospiri, i primi versi.
Discendendo talor di quell'altezza, £ in pensier tristi e gai
Di legger quest'istoria avrà vaghezza; A voi l'anima tutta si commise ;
Ed infiammato di nobil disio
Perchè torni 'n onor la gloria e '1 nome
Di quel re che le forze de l'oblio
Da più secoli pugna e l'ha già dome;
In lui solo guardando e non al mio
Disadorno parlar, farà siccome
(.hi la farcia d' un grosso marmo inerte
In un leggiadro Apolliue converte.
Senzachc di Manfredi esser le geste
Ponno arj^omfnfo d'altissimo canto.
E forse non lontano è chi s'appreste
Con chiara tuba a risonarne il vanto.
Non e che ne la pace indietro e' reste
A' miglior' che vestirò il regal n anto.
Mutrito ne la ruggine del ferro
Folgorò in campo con robusto cerro.
£ i nembi de la terra in mille guise
Mi mosser contra, e dier continuo assalto:
Talor levata in alto
Bia procella d'affetti il cor conquise ;
Ma un raggio di pietà fra le supreme
Tempeste apparve, e m'avvivò di speme.
In quella età che stampa
D'incerte e pargolette orme la terra,
£ la mente vogliosa ignora ed ama,
Al tramontar de la diurna lampa,
Che il eie] più si disserra
E su gli orchi mortali il sonno chiama,
In cor mi sorse una possente brama
Che allentar uor> lasciava ogni altro affet-
£ il trepido intelletto [to,
Da le sfere apprendea splendida fama ;
Con quel pugnando sui suo capo mise E, al ciel conversa, e ascosa a tutta gente,
Del padre il serto, e gli mantenne gloria. Snodai le rime abbandonatamente.
Con quel pugnando, i disleal' conquise, Un di l'Arabo errante
E de' superbi conculcò la boria. [trise Per le deserte lande spaziose
Con quel pugnando, d' ostil sangue in- Ove spesso mutò guerra e dimora,
Le man', cadde: e un morir hello e vitto- Poscia che incontro al Incido levante
Senza il favor di Roma, a l'alpi Cario [ria. 1 a capanna compose.
hifuggia. se '1 destin volea camparlo.
Esempio memorabile e tremendo
De^ludibrii d'instabile fortuna.
Li quai se con la mente discorrendo
Andrem, non si parrà forse nessuna
Vita umana che al termine scendendo.
Se iu serena, non diventi bruna.
Sola virtù rimane immota, e'suoi
Fasti, fortuna, cancellar non puoi.
Matxhese di Montrone.
71 . Alle Stelle.
Salve, schiera immortale,
Che per gì' interminati firmamenti
Misuri gli anni roteando e l'ore !
Npira oh ispirami lena, alzami l'ale,
Prestami i tuoi concenti,
Sì che a parole agguagli il tuo splendore. Intorniava la sperata messe.
. Già confonde la notte ogni colore, E a te fu colpa, o Tosco,
Ed ogni cosa del suo manto copre; Quando animoso interrogasti il sole
Taccion le voci e l' opre \ Comt i rotanti mondi irradiasse ?
Alzò la mente e gli occhi anzi l'aurora ;
Così maravigliando ad or' ad ora
E di nomi distinse e di cammino
Ogni aspetto divino
Onde l'eterno padiglion s'infiora.
Ed a l'armata sua tribù predisse
De la pugna le sorti a ciascun fisse.
E ben l'antico Egitto
Al ciel fu vòlto, e del fecondo fiume
Le vicine battaglie antivenia ;
E il furiar de l'onde circoscritto
Vfdea per dolce lume
Che la terra di molli erbe vestia ;
Ivi il solerte agritoltor tra via
Prendea dal ciel paura od ardimento,
E al pargoletto intento
Il mover ne insegnava e l'armonia,
E di mille difese accorta e spesse
SECOLO DECIMOXONO
555
F tu dal career tuo povero e fosco
'i i levasti qual suole
Aquila che più alto aria solcasse.
Però le umane fantasie fur basse
A tant* altezza, ed cran pur sospese
Quando V Angle palese
Fc come tutto 1' universo amasse :
Che padre è amor di tutte cose belle,
Perchè discende da l'eterne stelle.
Ed il fedele Arturo
R a qual loco t' adiri
Fai tutte a valle minar le cose :
Tanto che i regi stessi umili e pronti
Piegano a te le coronate fronti.
Te r universo adori.
E vilipesa e misera e dispetta
Sia la nuda virtù cacciata iu bando ;
A teTaras'intidri,
Ove in atto servii, com' ostia eletta,
Ciascun la mente e il c^r venga immolan-
E il fiammeggiar de le instancabili Orse, A te consacri il brando
K d' Orion le luminose rote,
£ quale stella in ciel >ilenle e puro
hiiiamorata sorse
Compagna a Sirio ardente od a Boote,
Benché dal pianto di qua giù remote,
Schiaran la via che a verità conduce,
Anzi ogni viva luce
Quasi acerba rampogna i rei percote,
E al ciel concorde, amor come la sprona,
Arcanamente l'anima ragiona.
Oh salve, alte, serene ,
Intelligenze, che de Torbe immenso
Irradiate il nitido zaffiro t
Oh, se benigna luce a le tirrene
Sponde, ov' io piango e penso.
Largiste mai nel vostro eterno giro.
Ponete mente al mio caldo desiro
(.he voi tien muse omai, quasi vergogni
do;
Guerrier vittorioso in ogni lido,
Ne de' vinti pietà gli stringa il core;
Te vii poeta onore
Di lauro e mirto e di votivo grido;
E il sesso, ove l'amore
Più breve p »ne e più soave nido.
Da la santa onestà ritorca il visu,
Sol che tu gì i apra il lampeggiar d'un ris».
E faccia al mondo fede
Di tua sfrenata formidabil'ira
Italia un dì reìna, or serva e doma ;
Chiami indarno mercede.
Sotto il flagel che la tua destra gira.
L'antica donna di proviucie, Roma ;
Il latino idioma
Di barbarico error suoni commisto ;
E l'alma Astrea pe' nostri dolci campii
Fuggitiva orma stampi
( Colpa uno sguardo tuo livido e tristo };
£ più d'onore a% vampi
Di quei leggiadri sogni
Onde le greche fantasie fiorirò ;
E il poco verso mio, chi ben l' intenda, Altri sotto la gelida Calisto,
Per voi di eterna verità risplenda. [zo Che noi d'Italia figli, ove più suole
Canzou,se il vulgo a compre noleavvez- Diffonder larga luce il chiaro sole.
Il nascer tuo spiasse o il tuo pensiere,
Rispondi : lo da le sfere
Origin traggo, e nulla in terra preizo :
E r amor che governa ogni rreato
Dì se medesmo è guiderdon beato.
M. Giuseppa Guacci-Nobile , Poesie
72. Alla Fortuna,
Cieca e volubil diva.
Pur, se ministra e donna
De gli umani splendori ognun te chiama,
E a la tua rota, o dea, drizza l'intento,
Io sola in treccia e in gonna
Spregio l'alto favor che il mondo brama,
Ed i fulmini tuoi nulla pavento.
Crucciati pur : già spento
Hai tu stessa la tema entro il cor mio,
E spento la dolcissima speranzai
Forse uno spirto avanza
Che a tuo senno dal ciel volgi e governi Qua giù che non t'adori, e son quell'io,
Quanto vive qua giù sotto la luna; Che già bieca in sembianza
Tu imperiosa e schiva | Ti vidi quando aprile a me fiorio,
Aggirando ti vai co' cerchi eterni, E l'occhio acuto de la mente intesi
Onde scopri tua vista or chiara or bruna, ^e la tua lucf, ed a sfidarti appresi.
A te ligie. Fortuna,
Son r armi invitte e le città famose ;
£ dove tu favoreggiante miri
Par quasi un'aura spiri
Clic fa liete le genti e gloriose j
E, dove alto disdegno
Or t'infiammasse a l' ultima vendetta,
Per me, possente diva, inerme sei:
Ogni tuo ricco pegno
Presto m' hai tolto, ogni cosa diletta
-S« CRESTOMAZIA POETICA
Hai dipartita già de gli nccbi miei, Oh, di luce meBdÌN>,
Si eh' io pur non potei Erri pallido spirto iUarrimatO
Vestir le piume a* miei poveri carmi QuaIonc[ae mai volse in oscuro stai^
Onde affannosa cura anror mi grava, Del men provvido sesso il lame amico:
Per cui, lassa !, sperava £ circondò d' un vel santo e pudico
A la futura età chiara mostrarmi ; La squallida ignoranza, e i dolci petti
Ma tu rapida e prava Insterili col gel de la paura ;
Contra il miovol tutte impugnasti Tarmi. E noi triste, ne l'uom fatto nemico.
Ora ogni varco a l' ira tua disserra : A spirar voglie astriase e non a£fetti.
Che per uso è men aspra antica guerra. £ fé sembianti ad ogni vii pastura.
Così sperto nocchiero A noi non gli alti studii e non la pura
Da* suoi verdi anni a sostenere avvezzo Face che schiara i nobili intelletti,
II minaccioso tempestar de Tonde,' IVIa sol fu dato ornar la fronte e il viso.
Benché nemico e fiero E allettargli occhi al parche unfragilfio-
Contra gT insorga il vento,fdaldassezz(> Che, da lo stel reciso, [re,
Lungi lo sbalzi da le amate sponde, Langue, e calpesto muore.
td or sua nave affonde, Un mutabile ingegno
iir la rilevi in sino al ciel superno. L'eterno ciel ne' petti nostri accoglie,
£ in proda e in poppa e d'ogni via Tassa- Che di quercia talor colse le foglie,
Tal che Tarte non vaglia, [g^i^) £ del virile ardir trascorse il segno;
Del rotto legno ancor siede al governo, E vincer di natura ogni ritegno
£ il mar che lo travaglia [scherno; L'aspre Menadi sue vide Corinto
Quasi per vecchia usanza ei prende a Di fei ina sembianza ricoperte;
Che la tempesta ond'è battuto e afflitto E spesso in caccia ebbe i perigli a sdegno
l^on gli offende giammai Tanimo invitto. Qualche vergine ardita, e col bel ciato
Benché sia nata umile, Legò le belve, e ne fé sacre offerte.
Ed oscura ten vada e non vestita Né T ira taccio e le saette certe.
D'un abito leggiadro e pellegrino, Onde maravigliava il guerrier vinto,
Canzon, prendi cammino Quando di Temiscira prorompea
Quanto ccmcede la tua poca vita. D'indomate fanciulle ampia coorte,
£ a qualunque Latino £ il campo orror porgea,
Vedrai per via selvaggia o per fiorita, Sparso di varia morte.
DT che Fortuna instabile e proterva Né voi, severe ignude,
Regna sol fango, e a T intelletto è serva. Cui virgineo splendor vestia le membra,
M. G. Guacei-Nobile, Poesie. Né voi quest'egra etade aloien rimembra
Che a* gloriosi fatti adito chiude ;
73. Le donne italiane. Quando leggiadre di schietta virtude,
Gagliarde in lotta, impetuose al corso,
Chi me, cui ne la mente Al cittadin foste consiglio e specchio.
Arde una fiamma di santissim' ira. Però venne di sangue atra palude
Entro squallido tetto a prigion dira Quel loco ov' a* trecento eran soccorso
Chi me condanna irrevocabilmente ? Carirà de la patria e furor vecchio;
Forse perché la vaga età fiorente Che le madri intendean l'alma e Torec-
Ancor mi ride, e in mezzo al sesso molle A fatica traendo il curvo dorso, [chic,
Inacqui de T infelice numer una, £ a Tantico marito e a rimmaturo
Roderà sempre il freno, impaziente, Nepote adattar Tarmi e spir&r guerra,
QuelT ardito pensier ch'entro mi bolle Onde i petti eran moro
Sempre in governo a la viril fortuna ? A la spartana terra.
Me mai, di speme e di timor digiuna, Qual celeste Camena
Cui tributano incensi il vile e il folle. Mi canterà di voi, Romane acerbe,
Me mai per questo suol eh' io amo tanto, Che, d'invitta onestà chiare e superbe,
Seguir potrò la sciolta fantasia, Due fiate infrangeste empia catena?
E d' un libero canto Oh ! riposate in pace, e la serena
Allegrar l'ira mia ? Fronte celate negli infranti avelli,
I
SECOLO DKCIMONONO 5Si&
1 vi tardi mai cura del Tehro ! Cosi, più d'aureo «erto o di fiorita
e quella virtù clie di sé piena Lode, un riso d'amor Tanima prezsa^
a la terra, e nel servir fratelli Cosi volge le cose a suo talento
lubio ghiacciato, il Reno e TEUro; Queiramor che comaiKla opre immortali,
fra il popol clamoroso e crebro, £d ogni st^nnolcnto
sol di venture e di flagelli, Spirto fa bello d'ali.
Liesti campi ov'è più lieto aprile, Ardisci, o canzon mia sola ed incolta,
he alla donna verdeggiala ungior> Che verità disdegna biasmo e loda,
'ombra gentile [no, £ per lei questo cor le forze accampa;
la terra intorno. Ardisci, e l'aspra usanza fia disciulta
d'Italia regina Che la virtù del dolce sesso annoda,
sacre e feconde ! oh vivo sole £ scalda il forte di non pura vampa :
i gigli inghirlandi e di viole Tal di timide schiave a grado avvampa
la e l'altra splendida marina! Il vigil Moro, e vien che mai non goda,
mpo fu che aitera pellegrina ^ Vola, o canzon, dove il desio t' è duce;
teingrembo a l'erbe e a' tior vivaci Sveglia oh sveglia per noi qualche merre-
fanciullo Evandro inni apprendea: £ annunzicrai la luce [de,
'inestinguibile dottrina Che tutta Italia chiede.
: la terra, e incontro a gli anni edaci M» G, Guacei^Nobile, Poesie.
le rime ed incarnò l' idea :
colpa non era, o fama rea, 74. Unanave turcaincontro Venezia
>r le guerre o rallegrar le paci. tiei 48S6,
1 investigando Italia torse,
uprrier seguitò l'aurata chioma ; Perchè, lunata vela,
idi Arcadia sorse, Come candida nube ti dilegui
azio ed Alba e Roma. Dinanzi a l'adriatica laguna?
e d'amore e d'armi, Forse varia vicenda oggi consegui,
$tro mondo un secolo saliva Né d' ira apportatrice o di querela
avea lauri ogni selvaggia riva, £ la chiarezza de la odrisia luna ?
dì reggia melodia di carmi ; O del vivo leon per l'onda bruna
:rìon& i sepolcrali marmi Ti giunse il mortalissimo ruggito ?
ti di lagrime amorose, O tremi un cieco ardito
i sole il fìammeggiar d' un ciglio ; Bello d'alma vecchiezza e di santa ira ;
scun petto vien che si disarmi llqualnou prima il brando a cerchiogira,
li valor, tra donne paurose. Che ti respinge dal suo dolce lito,
on cape altezza di periglio ; £ stende aspra minaccia
1 spada è fra noi, ma fiero artiglio. Fin dove il negro mar Bizanzio abbraccia?
;me più di combattute rose, [va Ferve Lepanto ancora
allorché il chiomato elmo allaccia- l'i vivo sangue ; un italico vento
errier baldanzoso una donzella, L'ottomana tempesta ivi disperse ;
onte prestava £ prima di magnanimo ardimeuto,
ìmcnte bella. Vinegia mia, tu sfavillasti allora
poter sempiterno Novella Atene incontro a nuovo Serse ;
universo tutto si diffonde, Assai splendidi giorni il sol l'aperse !
catena il ciel, la terra e l'onde, Assai pianto ne segue a' figli tuoi !
;ni alma qua giù prende governo, beatissimi voi
i una voce, un desidèrio interno Che il lampeggiar de la vittoria ardente
a la soavissima dolcezza Salutaste con l'anima fuggente
ighirlanda i fantasmi de la vita, 1 vessilli affidando ad altri eroi,
luce ne l'alme un ben superno. Onde mordea le arene
sio d'eccellenza, una vaghezza, L' empio grave di scorno e di catene !
il giro de' secoli, infinita. Ove qnegU ardui petti,
tstreta madre di Evandro diccsi avesse Ove ne andar le pellegrine spade ^ [ro?
io Iislia la iuveDci«tt« dello scrivere. Che il commosso Ellesponto in ver migliai-
£50 CRESTOMAZIA PO:.TIC\ n
Muvean tonando per le azzurre strade Fé dì pianti sonar Taura celeste.
Le barbariche moli, atroci aspetti Poi eh* è l'agna e la tigre in una gabbia!
Agitavau sovr*esse il curvo acciaro ; ^on più t* insulti con livide labbia
Ma in poco d* ora esperto ebher Tamaro La bieca invidia e gli onorati marmi ;
Corso di fuga, e qual distrutta in parie Ove i tuoi stemmi e l'armi [zo;
Arbori antenne e sarte Splendono ancor, nou sien mercati a prez-
Uomini ed arme su per l' onda versta, Né il goodoher sotto il notturno rezzo
Qual paurosa al vincilor conversa Presso a Taule già vote
Di proprie spoglie incarco Sciolga d* Erminia le dogliose note !
Keca a la vincitrice ara di Marco. Per duro strazio è morto
Di torri inghirlandata, De le vergini tue 1* ingenuo riso,
Ricca sposa del mar, ti stavi un giorno, E divina pietà sì ti governa ;
K lucente di porpora sovrana ; Per duro strazio il rittadin conquìso.
Mille isolftte t'obbediano iutorno, Orba la donna sua d*ogni conforto,
E invan, di gelosia Liguria armata, Ed in ogni sentier morte s* interna ;
Per te died'esca a T avarizia ispana ; Ma fulminato da giustizia eterna
¥. in queir eterno d», che sovrumana Riiina 1' oppressor giunto a l' oppresso.
Virtù di fratellanza Italia accese, Forse len)po e dappresso
Nel grembo tuo discese Che vendetta di Dio chiara discenda
Con l'ali vinte Taquiia grifagna ! Come tuon che le nuvole scoscenda^
tir chi d'ogni salute or ti scompagna ? E il popol tuo mendico
Chi ghermisce i tuoi figli, aureo paese ? Pera come nemico in sul nemico !
1 figli tuoi, che in guerra t*ur queir altera nave,
.Ahi non morran per la nativa terra! Che da te si dilunga impaurita
Me tanto mai l'acerbo Sol perchè sì maligno aer ti fascia,
Barbarossa sperò d' Italia mia Incolorarsi di novella vita
Quando contra la Chiesa alzò le corna ! Mirò l'uccisa Atene, e di quel grave
Né la romana maestà che pia Giogo spogliarsi ch'or te stessa accascia.
Del perdono la man porse al superbo. Così l'età ^i rota, e quegli or lascia
Avria temuto il dì ch'ora s' aggiorna ! E questi or leva con perpetua vece ;
Oh di lacrime oneste il viso adorna ! Così mansuefece
Oh sotterra non por le tue memorie ! L'Ìndo,e a l'Arabo tolse arme e costume.
T' educaro a le glorie, Or tutta quanta d'ogni vago lume
Vedova mia, le antiche ombre sdegnose L'itala Donna è priva
Da poco scoglio ad Attila nascose ; Fin che il fato la svegli e torni viva.
Però l'arbor di Roma M. G. Guacci-Nobile, Poe*Ie»
Te custodì sotto la sacra chioma.
Procedea trionfale 1^. Aslrea (pianeta'.
Vèr te nuova letizia, a l'aura in grembo
Penetrar le tue mura i franchi squilli ; Novella pellegrina,
Ma il popol tuo, come al venir d'un nembo Che per le immense vie de' firmamenti
Pastor s'accoglie a l'arbore ospitale, Ardendo stampi le amorose rote,
b' accolse a' consapevoli vessilli. Tu bellezze remole
Poi libertà mentita infra tranquilli Inaspettata sveli a gli occhi intenti,
Palagi fé sonar legge tiranna.] Nuovo porto a l'aerea marina ;
£ ainbizìou, che assanna Chi sei tu ? qual divina
Quantunque può, tutta cortese in atto, Forza t'informa ? Intorno
Sorridendo fermò l'infame patto ; A la fonte del giorno
Quindi miserie estreme Lo stesso amor ti mena
Ti disfioraro. o nostra «Itima speme! Che la su,perba terra arde e raffrena ?
Oh ben l'indica peste Se d' Urania pensosa
Corre le tue lagune abbandonate Abbraccia il ver lo splendido concetto
Togliendo prede a la nemica rabbia ! Era nel cielo un altro mondo amante
Forse giunta lassù viva pielate Che dal sol fìammeggiunte
SECOLO DKrjMONONO
Prendea gentile irradiato aspetto Ma, come stella a stella
Giove offuscando o Venere gioiosa.
257
Ma quel che non ha posa
Potente amor celeste
A lui fa' manifeste
1^. sue bellezze e l'arse,
K qua e là fur le faville sparse ;
£ rotanti ed accese
Ancor di puro spirto innamoralo
Rapide seguitar T impresa via,
Finche dolce armonia
Le ricondusse a più tranquillo stato.
Si che il loro esser de la terra prese ;
Ne forse a lor cjntesé
Son l'erbe vive e Tacque,
£ come ad amor piacque.
Piccioli mondi, il sole
Cerchiar con le perpetue carole.
Così l'imperio antico
Che Roma slese a l'Africano, al Siro,
Quando su l'orbe si levò gigante,
Rotto, da le sue frante
Parli, vergini popoli fiorirò,
E «cmpo fulse a libertate amico,
ieratico in atto e pudica
Sorse armato l' ingegno,
K ad altissimo segno
Driziossi in pace e in guerra ,
E l'jilalica luce empi la terra. •
E quindi il casto^erso.
Che rinverde le cose ovunque suona,
Ghirlandata di palma Erato sciolse.
Dal corpo onde s* avvolse
I fulminei concetti ecco sprigiona
Lui che die fondo a tutto l'universo.
£d altri al ciel converso
' Snoda le rime oneste ,
E Venere celeste
Chiama, di sol vestita,
A risvegliar la terra inaridita.
Indi regina e diva
Sofia levò la luminosa fronte
E spaziò pe' non tentati cieli ;
Ivi squarciando i veli
Maraviglie infinite a noi fé' conte
E diede il volo a la speranza vìva :
Pur non vide la riva
■ Che l'essere circonda ,
Che la Mente profonda
Ad uome al corpo affisso
Misterioso amor lega e congiunge
E le condure con soave morso,
Così l'alto discorso
De l' umano pensiero
Lega a l' eterno Vero,
Ed il cor non volente
De le future cose un raggio sente.
E a te, picciol pianeta.
Che tra' seni del ciel sorgi improwi.^o.
Porse nome di Astrea concorde grido :
Che sul terreno lido
Già V aere inalba di giustizia il riso,
Ch'or fin la predatrice Africa asseta !
Certo , luce sì lieta
E presso al mondo stanco.
Che il popol liero e il bianco*
D' un pensier fa colonna
E unanime ad un'alba sì dissonna!
Ruoli Fortuna, ruoti
I magnanimi spirti a l'imo fondo,
E la forza crudel cinga d' alloro !
II miserabil oro
Spie diventi a questo cieco mondo !...
Tu, folgore di Dio, stridi e percuoti !
Sieno a morte devoti
Gli alteri pini, in questa
Disfrenata tempesta;
Ma sotto nube fiera
I tuoi lampi conosco, o primavera !
Entro la terra freme
E dentro i petti una virtù te attrice
Che già prenunzia l' immortai chiarezza,
E l'oceàn che spezza
II nuovo mondo e l'antica pendice
Non pone inciampo a l'ale de la speme.
Tu, Astrea, da le supreme
Vette discenderai,
Coronata di rai,
E be' virginei cori
Le nostre tombe spargeran di fiori.
M, G. Guacci Nobile, Poesie.
76. Cristoforo Colombo.
In grembo a 1* oceano.
Onde il nostro. pianeta s'inghirlanda,
Il sol già volge le infiammate rote;
Ritto sul lido ispano
Un uom sospira a le marine ignote,
I
Nega di ficcar gli occhi entro il suo abisso. Ove che l'alba viva ora si spanda ;
Tale al fin del suo corso Ed il confili di quest'azzurra landa
Questa pellegrinante anima giunge Già con la mente abbraccia ,
De' suoi veri destini ancor novella ! VtJe l' op[K)sla faccia
Leopardi, Crestomazia, II. V\
2S8 CRESTOMAZIA pop:tica
Di qiiesla lerra, come volle Amore, E il puro ciel ne Talternato gira
Primo risveglialore ; Si cli|iingea d'orientai zaffiro.
Ed anela a quel ver «he in mille guise Ma la turba tremante,
L* armonia del crealo a lui promise. Che su Tampio oceano era sospesa,
Allor pe' vasti mari Da* perenni euri s'attendea la morte ;
L'agilissima speme s* avvolgea, E la paura errante,
lieta d* oro e d'onor prometlitrìce ; Contra ragion fatta rubelFa e forte,
Ma i desideri! avari, Maladicea la disperata impresa:
Che pingeanoal nocchier nuova pendice. Si che a mezzo la vi^ t'era contesa.
Sovente l'omicida onda spegnea. Ligure mio. Ma, sorlo
Tu di fraterne gare avida e rea, ' Come face nel porto,
Sposa d'Adria iracondo, A l'empia gente d' intelletto priva
Ove il sole apre il mondo Promettesti la riva.
Portavi, navigando, i chiari fasti, E (juella apparve; allora ogni restio
E pur costui spregiasti ! ^ S' atterrava al tuo pie si rome a Dio.
Genova, e lu, che a lei turbavi il regno. Ahi quando, anima eiella,
Negasti al tuo Colombo un picciol legno! Baciasti aliìn la presagita piaggia,
Ed ei, scuro e mendico, L* Ispana insegna dispiegata al vento,
Lunghi anni travagliò di terra in terra, Quesl' Italia diletta,
E sempre irriso un nuovo mondo offria, Sempre a* suoi figli inospita e selvaggia.
Fin che il Leone antico ^ Ti lampeggiò nel glorioso intento :
Che r orbata Casliglia anror desia Che, s'ella al tuo magnanimo ardimenta
Il sospiralo varco gli disserra. Porgea la man materna,
La sua possanza eterna.
Stesa fra il sole e fra l* opposta Iona,
Vinta avria la fortuna.
Sì come duce a cui ride la guerra,
E ad onorato squillo
Spieghi il patrio vessillo,
Così t' ardca. Colombo, entro al pensiero E leverebbe ancor l' armata destra
L'incognito emisfero; Domatrice di popoli e maestra 1
Però segnasti in mezzo ad onde nuove A pie di verdi campi
Un seutier s^nza quando e senza dove. Colorati per vaga primavera
Ecco, vers' occidente
Già si dilunga T infinito calle.
Ed ogni lido fugge a la veduta ;
La tua speme potente^
Già da contrarii venti combattuta.
Ad ogni amata cosa or dà le spalle ;
Ecco tra il cielo e tra l'equorea valle
Trovi condegno loco,
Che t' era angusto e poco
Sostò la temeraria navicella ;
Sotto i diurni lampi
Qui saltellava allegra fera e snella.
Là concordi augelletti ivano a schiera',
Quindi una b;-una quercia ed va' altera
Palma porgeano i rami,
E con dolci richiami
Un fresco rio dal colle ove pria nacque
Spandea le limpid' acqufe,
Il vecchio mondo ; ecco, sul mar levato, E guerrier nudi e vergini gioconde
Dalor di regui, il fato, Ragionavan d'amore in su le spende.
Che di due mondi, ambo a fiorir condut ti. Che rechi, Italo ardito,
Ti commette le sorti, e spiana i flutti ! A quella stirpe semplice e tranquilla,
Or tu, diva compagna,
Che seco affronti Torride procelle.
De r intatto sentier movi parole !
Lasciava addietro Ispagna
La navicella, e discorrea col sole
Che incoronato uscìa di nuove stelle ;
E parea vagheggiar nuove fiammelle
11 vivo ago amoroso,
E stuolo armonioso,
Di salutanti augelli apria le penne
5u k aspettate anteaae,
Che non s'aspetta ala stagioneacerha?..*
Sul pacifico lito
Tra sasso e sasso l'oro disfavilU!...
Ahi quanto sangue tingerà ((uest' erba!
Ispagna formidabile e superba
Cinge doppio diadema.
Pensa l' Europa e trema,
A' trionfi non suoi spiega \t tele
Ambizion crudele,
Fnman le Antille in lotte le mtriiie
i^vcQ^erte di stragi e di mine.
I
SECOLO DECIMCNO^O
259
E tu^ se manifesta
Suona ancora per noi l'antica voce,
Kiedevi su le ispane ingrate arene
Con la fronte funesta
£ i polsi stretti pur d' aspre catene,
Che ti die in premio il CastìgUan feroce.
Sapevi tu che non fu mai la croce
Di schiavitude insegna,
E ad ogni voglia indegna, [gnudo,
Che il selvaggio inseguìa di schermo i-
Sorgcsti unico scudo !
Oh la pi età che ti commosse il petto
Brilla più che l'altissimo concetto!
Con ansiosa gara
L* Europa tutta omai drizza il cammino
A la terra ad acquisto d'oro usata;
Ma luce non rischiara
La tua stanca vecchiezza sconsolata,
primo generoso pellegrino !
Obblfato sei tu, mira destino!
Fino il nome ti vieta
Fortuna immansueta !
Sotio umil tetto da le inferme spoglie
L' alma schiva si scioglie ;
Ne detto è pur : Costui, che spento cade,
Fra gli estremi del mondo aprì le strade!
Questa perpetua fiamma.
Che tanto amore e tanta luce versa,
Forse è di luminoso aer vestita,
Ma in se non serba dramma
De la bellezza che a la terra evita.
Anzi è terra di tenebre cospersal
Così fuor di se stessa si rinversa
Qualche rara virtute,
£ vivace salute
Diffonde intorno, e schiude! mari e cieli;
Ma in se tenebre e geli
£ pianti accoglie, e i mortali occhi offende,
Come il fulgido sol quando più splende.
Ogni cosa si volve
Entro r abisso del primo Consiglio
Che r universo al suo perfetto mena ;
Vittima sia la polve,
Ma spunti vita libera e serena
A r intelletto che del cielo è figlio !
Or levati, o Colombo, e gira il ciglio
Su per Tacque d'Haiti;
1 popoli fioriti
Ivi sotto la croce trionfale
Levan inno immortale ;
£ la vergine America, disciolta,
Scuote TEuropa ancor nel sonuo avvolta.
If. G. Guacei Nobile, "Poesie.
\
77. // Pianto. ,
Piangevi !... Invan le lacrime
Col vel nascondi e premi...
Qual spettro innanzi all'anima
Passtf ! Ricordi , o temi ?
Ahi ! come a farlo misero
Non basti il mal presente.
Rapito V uom nel vortice
Del tempo onnipossente.
Avanti dietro volgesi
Or timido, or pentito,
Dal punto indivisibile
Che parte T infinito.
Fuggir vedevi i rapidi
Giorni, e V età fiorila.
Le più soavi immagini
Nel sogno della vita ?
L' ore in ammanto fulgido,
Col crin di rose ornato.
Dell' avvenir dischiudono
Il regno interminato ;
In mille guise alternano
Vaga ed aerea danza:
Ma còlti inaridiscono
I fior della speranza.
Alle promesse credula
Fosti di un lungo amore?
Se quella rosa cogliesi ,
Punge, languisce, e muore.
Piangi, e fiavintoil perfido
Degli occhi al nuovo incanto:
Oh ! voluttà di un bacio ,
Quando si asciuga il pianto !
Ma non è dato ai gemiti
Por fine in questo esigilo,
Le venerande lacrime
Inaridir sul ciglio.
Ora che, madre vigile.
Giaci al tuo figlio accanto.
Da te la prima ascoltasi
Lingua dell' uomo — il pianto.
Scesa nel mar dell' essere
Queir anima fanciulla.
Se sparge un pianto provido
Dirai che non sa nulla ?
A navicella è simile
La dolorosa cuna :
Nati appena ci assalgono
L' onde della fortuna.
Piange il pentito, il misero,
Chi serve, e quei che impera :
Tulli Siam id \ \t W.t\.vafc
i>GO CRESTOMAZIA rOET|GA
Son la inigKor preghiera. Uii lume menzognero
Dolci parole e tenere
Tu sai che insegna amore ;
Ma solo l* uom sublimano
I detti dei dolore.
lo nei miei carmi esprimere
Quei detti un dì tentai^
E d' animar la statua,
PigmalTon, sperai.
E ancor la stringo e palpito
No X sente, e su me piomba
Marmo crudel, che gelido
Mi rammentò la tomba.
Piangi: i mìei dì perseguita
Grave ed assidua cura ,
£ mi circonda 1' ultimo
Flutto della sventura.
Già come breve imaginc
Pinta sul muro avverso,
Sparisco dalla mobile
Scena dell' universo.
Gloria sognai ; dell' aquila
Io mi credei figliuolo :
Presso la rupe or giacciomi
Onde io tentava il volo.
Ma pria che morte stendami
Sugli occhi eterno velo,
Essi dal pianto hrillino
Cui fu promesso il cielo. .
G, B, Niccolini, Poesie,
78. La Vecchiezza.
Già dello spirto 11 memore
Moto veloce langnc,
E lento scorre e gelido
In ogni vena il sangue.
Già fatte peso all' anima
Sono le membra inferme ;
Cresce il cibo difficile
Dentro la bocca inerme.
Dove le care immagini
Son dell' età primiera ?
D' un separalo ostacolo
Dove la gioia altera ?
Qual trema in sulla foglia
Stella a cader vicina
Nel vasto inlerminabilc
Grembo della marina;
Tal tra i fluiti e k tenebre
D'un mar rh« non ha lito
Sente smarrita 1' anima
L'orror dell' inlimlo.
CJic fu r ambita {gloria ?
79.
Che dai sepolcri sorgere
Ignora il passeggero ;
Ei della luce tremula
Segue V infida traccia :
La crede alfin raggiungere,
E sol tenebre abbraccia.
E mentre manda un gemito.
Che dell* error s' avvede,
S' apre la tomba gelida
Sotto lo stanco piede.
■ G. B, Niccolini, Poecie.
Coro di Roman i dopo V incorona'
zione di Federico.
All'armi, Romani! fra queste ruine
Udite la voce dell'alme latine ,
Che: » Sorgi, ti grida, o popolo Re! »
L'eterna cittade non muore alla gloria:
Mirate quel tempio che avea la Vittoria;
Jll cener dei forti vii polve non e.*
I nostri sepolcri son pieni di fati:
Vi fremono l'ombre degli avi sdegnati
Di lungo servaggio col vile dolor.
Un barbaro usurpa di Cesare il nome,
E mano straniera gli pon sulle chiome
La nostra corona, del mondo terror.
Qui grida il Tedesco ch'è spento il co-
[ raggio :
La spada romana risponda all'oltraggio;
E contra il furore combatta virtù.
Ritorni al suo nido, ritorni alla prole;
Dal dì che non segue la strada del sole ,
Ha r aquila appresa la vii servitù.
II ferro divori i lurchi Alemanni, [oi;
Voiramoa quell'Alpi che mandan tiran-
Si chiuda col petto l'infausto senticr.
Il nobile esempio ci diede Milano;
Ognuno, fratelli, si chiami italiano,
Uguale sia il nome, concorde il voler.
Ma luiij^e il Britanno Pastor senw
Che i lupi chiamava sul misero gregge ;
Per gire sul trono calpesta l'aitar.
Vi sacra il crudele la spada omicida
Aspersa di sangue, di sangue che grida:
O nave di Pietro, e questo il tuo mar?
Ed ìiai sul vessillo il nome di pare !
Il mondo ingantiasli, parola mpndace,
E il sinto nel cielo per gli empii arrossì.
tu chv! soffristi pi'r lutti i mortali»
Che liberi hii faito, fratelli ed uguali
V.o\ %vcv^M«i t\v^ l ct^pi dell'uomo abolì ;
SECOI.O DECIMONONO
Pereoti l'errante che il mondo ha diviso. E liberi e fratelli, eil or ci grida:
Col nome di Ucge tu fosti derisa, « Non vai forza dì schiere
Ed ci questo nome dimanda per se. Ad ingiusto potere;
Lo chiede al tiranno che uccise i tuoi lo le catene infrango,
[ figli. E il tiranno crudel cade nel fango.
Al mostro tedesco consacra gli artigli.. Non fra le nubi il trono
L'Italia nel cielo sol abbia il suo re. Dei monarchi si cela:
261
G. B. Niccolinij Arnaldo da ]^ rescia.
80. La Nazionalità.
Non più la forza è dritto:
Fugge dall'alma ogni pensier superbo;
Nati non siamo all'odio ed al delitto.
Figlie del primo Amante
Sono le genti fra di lor sorelle;
Non hanno un sol sembiante,
Ne diverse cos'i che non sian belle.
Tempo verrà che le discordie antiche Né si parton fra i re come le zebe.
Saranno un sogno,e mal dall'uom si creda Or più non miri di fraterno sangue
Che a luìreco^siun dì cotanto oltraggio, Tinta la mano di venal soldato
Che fatto ci preda divenia retaggio , A far la colpa dei tiranni impune;
Come fosse un terren che si possieda. Ma cittadin si sente, e a lui comune
Non più saranno le parole un velo È della patria il fato.
Ad incliti misfatti; Solo l'infamia avanza
Né avverrà che col sangue alcun riscatti Alla cieca possrinza,
Havvi un sol che rivela
Or l'opre loro, e delle colpe astute
L'orme non son più mute:
Ma dall'impresso scritto
Vola per mille bocche ogni delitto.
Di popoli che forza abbia commessi,
Qual gregge vii , non si componga un
Né degli uomini oppressi [trono,
Faccia spregiato un dono
Un concilio regal, che più non sono
Ora addetti alle glebe,
La santa libertà che vien dal cielo.
Il dolce suon della natia favella
I popoli affratella;
E fa concordi i petti,
Questa comune interprete d'aifetti.
E diverse favelle e stirpi e monti
E l'immenso Oceàn fra noi ci parte:
Fra i popoli soltanto
Cambio di merci, e di gentil costume
inaridisca la cagion del pianto:
Né sian discordi i cori
Per turpe gara di poter fugace,
£ tutto alfin si ricomponga a pace.
Dell' alber che ci vide
Che mai non ebbe, o più non vuol confine ,
E sparì fra la polve e le ruine.
Fugge con tronchi vanni
L'aquila ingorda dall'ausonio lito:
L'infame augel per lunghe colpe attrito
Sente il poter degli anni;
E povero di forze e di consiglio,
Di fulmini derisi arma l'artiglio;
E fatto al cielo in ira
Per quel sangue che bevve alfin delira.
Assai dell'ali vaste
Stette all'ombra l'Italia afflitta e mesta,
E in muto orror perduta
Udì grido d'impero e di minaccia,
Fanciullie vecchi allinsediamoall'ombra, Vane promesse di parola astuta,
Colla m nle disgombra
D'ogni dolor: s'inalzi un inno a Dio,
Che le genti assicura.
Che già l'odio divise e la paura.
Del popolo la fi onte
Per superbia di re più non si adima;
E s'avvalla ogni monte.
Che verso il cielo sollevò la cima.
Arbitri della terra
Sian giustizia ed amore,
^é più per lunga iniquità di guerra
Moltiplichi il dolore^
Iddio ci fece eguali;
Suon di barbare voci e di catene.
Confuso a quel dell'oro,
Che fugge i vinti e l'opprcssor mantiene.
Un sogno era la spene.
Ed il servaggio una crudel certezza
Sotto colui che t'odia e ti disprezza.
Se il sol rispleuda intanto
Sovra le stragi, e vi è di pianti un velo,
Da quel sangue che é santo
Può dell'Italia il voto aUarsi al Cielo.
Son vittime svenate in santa guerra
Sovra l'aliar della paterna terra.
E si raccolgan tosta
262 CRESTOMAZIA POETICA
I fatti lor: sarìa l*ltalia ingiusta, , S'apre Utalia, e tutta alfin si manfCy
Se uoto solo delie madri al pianto Deii'aatica viltà deposto il peso.
Ne fosse il nome Ma sia questo iiiipres - Non più ciltade a una città nemica;
Nella pagina augusta, [so Ma si sente sorella,
Cui narrar l'alte imprese e già commesso.
Di felici ladroni
Assai parlò la fama: ornai conviene
Che dei prodi ragioni,
Che spezzate alla patria han le catene.
È il suo destin beato,
Se per antico fato
La vincitrice non si fa discorde;
Ne a nuovo pianto il secolo condanna
Cieca licenza, o l'unità tiranna.
G. B, Niccolini, Poesie nazionali.
81. V Italia risorta,
Italia alfin da lunghe prove apprese
Quanto le sia fatale esser divisa;
£ la sua prole uccisa
Cresce la gloria del gentil paese.
Ecco il valore antico
Ritorna in ogni petto:
Vinci, e sul vinto incrudelir non sai,
Benché belva non sia di lui più cruda,
£ tenga un'alma di pietade ignuda,
£d un feroce istinto,
Che pur gli esempii d'Ezzelino ha vinto. Oh quanta etade è volta
Su quei delitti un velo. Che per la patria non si mnor fra noi!
Musa, distendi; assai per lor fu piantn, Ed ai servi si die titol d' eroi!
E nel cor le favella
Santo il dolor della vergogna antica.
La vaga donna del gentil paese,
Che frange ì lacci e ricompon le chiome ,
Di quelle guerre onde fra se contese ,
Tra barbariche genti
Ben sa che nacque la ragione e il nome.
Solo una patria è a tulti,epiù non siamo
Guelfi o Ghibellini,
Ed all'Alpi ha l'Italia i suoi confini .
Nel dritto suo confida,
E nella sua virtù risorge, e grida
Tutta infiammata di concordi affetti :
Son l'Alpi aperte, e noi pugniam coi petti!
Con un passo misura
Tanto spazio l'Italia, e dei codardi
II senno vii confonde;
E dei secoli molti alla rampogna
In pochi dì risponde.
Mirammo il ver celato a gente ignava,
E qui soltanto l'oppressor sognava.
Or sta libera in campo
L'Italia, e la sua spada
Manda sul ciglio dei tiranni un lampo.
E dalle colpe, ond'ebbe orrore il cielo ,
Bi fugga adesso il canto.
.S'apre all'Italia un nuovo
Ordin di fati: ecco che alfin si adempie
Sovra i tardi nepoti
La speranza dei secoli remoti!
Di magnanime donne
Oh vergogna! oh dolore!
Correa sulle catene il nostro pianto
A raggravarci nel servaggio antico,
E l'Italia pugnò pel suo nemico.
Scorrea non visto il sangue
Dei proprìi figli; era cosi perduta
* La fama del coraggio,
Maggior ìa gloria in ogni età risplenda , Ch'esser figlio d'Italia parve oltraggio.
Ne più s'osi chiamarle un debil sesso; Oh se dai lor sepolcri
Non v'ha virtù che possa stargli appresso. Quei che tra gli avi eran feroci o molli
Mutò la nostra sorte,
E l'opra più della parola è forte.
Ora ad un grande incendio
La tacita favella è ornai cresciuta,
E cessò dell'Italia il vilipendio.
Convieu coU'armi definir le liti,
Far di nostra virtù lo sforzo estremo.
D'amor, di leggi e di favella uniti,
Solo una patria avremo:
Già diversi noisiam dal padre eTavo;
Se consorte ne fa lieti di un figlio,
Alzassero la fronte,
Rossor la ingombrerebbe o maraviglia!
E il cittadino sangue, e gli ozii vili
Vergognando, diriano: voi serbati
A sì propizii fati,
Abbiate in giusto orrore
Secoli di mollezza e di furore.
Foste pur col nemico
Generosi ed umani!
Non avvenga che un dì strage fraterna
La sacra man profani .
Or più dirsi non può: nasce uno schiavo. Stringetela ad un patto , e questo sia:
Già òtrade audaci e nuove La libertà d'Italia: e quai giganti
SECOLO DECIMONONO 26-5
Movete in qjicsta via AH* antica viltà del tuo destino.
Pieni d'affetti ognor suLlimi e santi. Ur r£uropa saluta il tuo mattino :
Lltalia alfin s'inalzi Giunse il dì della gloria anche per noi,
A grandezza di regno, e la sua spada ]^è alle rampogne del fatai vicino
Sulla lance d- Europa ottenga un pesp :. l^ tombe additi degli antichi eroi.
Il suo vabr npn langue, O barbaro feroce, alfin 'ti mostri
E chiede un dritto che acquistò col san- i\ nostrobrando,chciltuo sangue ha tinto,
Non di dominii o d'oro [gue. Quanta menzogna è nei superbi inchiostri
Può sete aver; solo dimanda il fine £ Italia, appena cheil suo ferrohacinto.
Ad antiche rapine, Puù dir : Nuovi trionfi abbiamo, e nostri,
Ed è la Uberts^de il, sqo tesofo. Qiè un popolo non puote esser mai vinto,
Qual vaghezza d'alloro G. B. NiccoUni, Poesie nazionali.
Che bagna il pianto delle genti oppresse!
Cessi alfiu tant'oltraggio, ^ Sk. Su la dominazione austriaca.
Né le catene antiche abbia a retaggio. in Italia.
Dalle belve straniere
Divisa preda, un Cesare alemanno Molti fuggian la patria, e gli diyise;
Cercar dovea sul Reno: ahi vitupero I Dai dolci campi il doloroso esiglio :
E ciò nomar si osò Komano Impero! Arse le case, e con asciutto ciglio
Ma risorta è Tltalia, e non si dica 11 tedesco mirò le genti uccise.
Terra delle mine; Nei vóti alberghi a dominar si mise
Più non invidia le virtù latine, Su noi vedovi d'armi e di consiglio;
Vince sé stessa antica: £ più che belva insanguinò l'artiglio,
Bella ad un tempo e forte £ non havvi dolor eh' ei non derise.
Cinta del proprio ferro^ Che dalle nostre terre alfin respinta
Donna della sua sorte, Sia la barbara gente : sol coll'oro
Dal libro delle genti Fra noi prevalse; ne l* Italia è vinta:
Cancellata non è: libera vive, Non sia quella virtù ch'io tanto onoro,
£ col sangue il suo nome alfin riscrive. Dalle calunnie dei tedeschi estinta,
G. B, JStccolini, Poesie nazionali. £ a lor sia tolto l'usurpato alloro.
G.B. NiccoUni, Poesie nazionali.
82. Sul risorgimento d' Italia,
85. L'Austriaco.
Colei che sovra il mondo ebbe l' impero ,
Poi stanza di venia d' ogni dolore, Ha l' orgoglio sul volto e la minaee ia
Or fa ritorno nell' antico onore, £d il tumido labbro uso all' impero,
Ratto cosi, che sembra un sogno il vero: £d inalza sui vinti il ciglio austero,.
Ed oltre l'Alpi l'oppressor straniero E nella gioventù senti la faccia.
Fugge pieno d' infamia e di terrore. Gravi di verga esercitar le braccia.
Coperto il volto di servii pallore ; Ed aver nella fuga il pie leggero;
E smarrì della fuga anche il sentiero. Oguor cogli infelici esser severo.
Sei grande, Italia, e ad ogni gente esem- Esser sempre crudele all'uom che giaccia:
Il barbaro livor più non ti morde : [pio! Son dell'Austriaco la superba dote,
Tu sola osasti esser pietosa all'empio. Ed ha immobile il viso, e da lunghi anni
Ma in ogni etade avrai lode concorde. Il pudore fuggì dalle sue gote:
Dopo tante ruine, e sì gran scempio. Sempre gioia gli vien dagli altrui danni,
Se vincitrice non sarai discorde. £ ninno aspetto di dolor non scote
G, B. NiccoUni, Poesie nazioo9li. La patria degli schiavi e dei tiranni.
• G. B. NiccoUni, Poesie nazionaU»
83. Sul medttsimo argomentò.
86.1 tre colori della handiera^italiana.
Sei grande , Italia ! Ora nei figli tuoi
Tanto risorge di valor latino, . Il bianco mostra ch'ella è santa e pura,
Che tu per certo ritornar non puoi II rosso che col sangue è a pugnar presta,
264 CRESTOMAZIA
E queirallro color che vi s' innesta . E vedrai prove ài valore antico.
Che mai mancò la speme alla sventura. Perch'egli del pugnar sa tutte l'arti :
Però dei forti, a cui fu data in cura, Edor che un Grande è a questo grande
Ferve nel seno una baldanza onesta, Da tutti i lati ascolterai gridarti: [amico,
Che lor gridando va: «Mai non s'arresta Fu vinto, Italia, il tuo fatai nemico,
lìelle vie dell'onore alma secura: G. B. Niccolini, Poesie nazìanab.
Non la vince il terror, ne delle stesse
Ferite sente nel suo petto il duolo, 89. V Italia risorta.
Chèallapatriamantienlesuepromessee.»
E se presumi d'arrestarne il volo E nell'Italia sotto un ciel sereno
CoU'armi infami che ti fur commesse, Più non saran le genti oppresse e mute ;
Ella tinta sarà d' un color solo. Nella dolcezza del natio terreno
G. B, Niccolini f Poesie nazionali. Sarà ricca di gioia e di salute.
Ride in essa ogni piaggia ed ogni seno,
87. A re Vittorio Emanuele, Scosse il rio giogo, che cos'i le pute ;
Ed ogni pianta, onde quel suolo e pieno,
Dell'aquila fatai frenasti il volo, Tutta riprenderà la sua virtute.
Figlioli' Italia, e la tua fama è tale, Dolce della natura il vario aspetto.
Che si stende dall' uno all'altro polo, E sovra il volto che non è più mesto
£ durerà nei secoli immortale. Cara possanza d'un gentile affetto :
Tratta hai la patria da servaggio e duolo, . Non urlo crudo d'un parlar molesto,
E non v' ha premio al beuf iicio uguale ; Ma sol voci d'amore e di diletto:
Vendichi Italia e il Padre, e fosti solo, O bella Italia, il tuo destino è questo.
E nella gloria tu non hai rivale. G. B. Niccolini, VoesiemzianiXu
All'altezza levar del tuo concetto
Chi si potrà? Maggior furor che suole 90. Sul medesimo argomento.
Convien che adesso mi riscaldi il petto.
Ma non è dato ritrovar parole, Torna la vita dilettosa e bella.
Che sien pari all'altissimo subbietto, E tanti beni che son sparsi aduna :
£ non può tanto la virtù che vuole! Ciascun s'appaga della sua fortuna;
G. B. Niccolini, Poesie nazionali. Qgni gente d' Europa ora è sorella.
Non è l'una tiranna e l'altra ancella ;
88. AW Italia, Ci è caro il loco ove sortiam la cuna:
Qualunque ha spirto di pietade alcuna
Ritoma alfine a gioventù novella; più da saggio poter non si ribella.
E col valor del corpo e della mente i\egni una dolce e placida quiete.
Alla virtude che ti fea possente E fra le varie genti un fido amore;
Sorgi, e si possa dir: Sei forte e bella. Corran sempre per noi Pore più liete.
Fidainquel He,chedel tuo cielo e stella ^on è albergo di sdegno e di dolore
E fa di se maravigliar la gente ; Questa terra felice ove nascete.
Sia questo al tuo pensiero ognor presente: j^^ ^i piedi d' ognun qui sorge un fiore,
a In lui conforme all'alma è la favella.» ^ ^ Niccolini, Poeiie nazionale
£i s aliretta colrarmi a liberarti ;
FIN £.
INDICE
DELLE MA TERIE
SECOLO XIII. C li V. ' SECOÌ.O DECIAIOSESTO.
1 . A Maria Vergine. Fra Guittone. ÌX. Canto funebre pastorale. ^SannaZ"
2. Esilio ed Amore. J//Vint. zaro.
3 . Manifestazioni di amore. G. Cavai- X. L'età dell'oro. Sannazzaro.
canti. X.I. Una sposa mor ibonda parla allo spo-
^». Affanni ambrosi. G. Cavalcanti. so. Tebaldeo,
5. In morte della sua donna G.Cavalcan" XII. Del sito che conviene alle api. Ru'
6. Atti e parole di Beatrice. Dante, iti. celiai,
7. Effetti di veder Beatrice*. Dante, Xlll. Invito a Gala tea. Castiglione.
8. Morte di Beatrice. Dante, XIV. Giuliano de* Medici , duca di Ne-
9. Alla sua donna. Dante. mours, defunto, alla moglie Filìberta
10. In morte di Beatrice. Dante. di Savoja. Ariosto.
11. A Firenze. Dante. XV. Ritratto dell'amata. Berni.
12. Giudizio tra'! Poeta ed Amore. Cin 9 XVI. 11 Berni racconta gli accidenti della
da Pistojn. sua vita, e descrivela sua natura. jBerm.
13. In morte di Selvaggia. Cino da XVII. Contro gl'ipocriti. Berni.
Pistoja. XVIIl. L' uomo descritto come piccolo
14. A Maria Vergine. Boccaccio* mondo. Berni.
XIX. Sopra l'effetto che fa negli uomini
SECOLO DECIMOQCINTO. ben nati il racconto delle azioni nobi-
li e virtuose. Berni.
I. A una fanciulla. Scherzo. Brunelle- XX. Alla città di Roma. Guidiccioni.
schi. XXI. Velocità del tempo; caducità uma-
II. Sopra Amore. Leonello. d^Bste. na. Vittoria Colonna.
III. La volpe ed il gallo. Favola. Pulci. XXU. Vittoria Colonna al marito mor-
l5.Lodi della vita mercantesca.Xoren-zo io. Vittoria Colonna.
de^ Medici. XX)II. Lodi della bellezza. Ludovico
IV. Spettacoli della campagna. Poli- Martelli.
ziano. XXIV. Esortazione ali* agricoltore per-
V. Caccia di fiere. Poliziano. che s*induslrii di migliorare tostato
VI. Favole effigiate da Vulcano sulle por- del suo terreno. Alamanni,
te della reggia di Venere. Poliziano. XXV. La vita dell'agricoltore. Lo stato
VII. Alla sua donna, Ippolita Leoncina. del popolo italiano nel secolo decimo-
Poliziano. sesto. Lodi,deIla Francia. J/amannt.
16. Amante disperato. Poliziano. XXVI InvocazioneaCerere.ul/amannt.
VI II. La fortuna. 5era/ìno dall'Aquila, XXVII. Il cavallo. Alamanni.
17. Morgan te e Margutte in un'osteria. XX Vili. Lodi di Bacco e del vino. Ala-
Pulci, mnnni.
18. Bellezze della sua donna. Bojardo» XXIX. Segn